sabato 13 dicembre 2008

30 YEARS OF SOLITUDE

“When it’s dark enough, you can see the stars”. Quando il cielo si farà scuro, talmente scuro da sentirti sola e abbandonata, allora donna iraniana vedrai le stelle. O forse le sognerai soltanto. Il proverbio persiano chiude la parete introduttiva di “30 anni di solitudine”, la prima esibizione, realizzata interamente da artiste iraniane, ad essere ospitata nel Regno Unito: video e fotografie sulla condizione della donna in Iran dal 1979 ad oggi. Trent’anni di privazioni, di paternalismo islamico, di perdita identitaria, ma anche di rivoluzione e guerra. In un tempo in cui l’Iran sembra minacciare sempre più l’Occidente, con lo spettro di un programma nucleare ed estremismi religiosi, la mostra, curata in collaborazione dal’architetto Faryar Javaherian e dall’artista Haleh Anvari, ci offre una retrospettiva che si trasforma in scoperta struggente di una cultura lontana. Scorrendo le opere, sembra però di poter scorgere un ponte, un’insurrezione velata che guarda al nostro mondo e reclama diritti: sguardi fermi, alcuni rabbiosi, ma altri persi in vuoti incolmabili; fughe nella natura e nostalgie imperiali; spaccati familiari e sfoghi sportivi. E su tutti si afferma una reazione pudica, silente ma fiera, un grido di femminilità che denuda lo chador delle sue inique prevaricazioni. Lo chador funge da collante delle fotografie presenti e assume di volta in volta differenti declinazioni e significati. E’ una stoffa a forma semicircolare che, diversamente dal burqa, incornicia il volto coprendo capelli e spalle. La sua esistenza è precedente all’avvento dell’islam, ma è ad alcuni passi del Corano che ha ormai legato la sua funzionalità: viene infatti, spesso, interpretato in relazione alla legge islamica dell’Hijab, una “cortina” che il testo sacro indica a isolamento/tutela delle mogli del profeta Muhammad e che trasforma il velo in uno strumento non solo di protezione, ma anche di separazione. L’inizio simbolico della mostra, il 1979, cancella decenni di faticose conquiste civili: il ritorno dell’ayatollah Khomeini al potere e l’instaurazione della Repubblica islamica dell’Iran comportano il ripristino del codice civile del 1935, anno precedente alla proibizione del velo in pubblico. Un quarantennio di ricaduta, un cattivo presagio che traghetta l’Iran a otto lunghi anni di ostilità con l’Iraq. E’ questo un periodo di dolore senza ritorno per molte delle donne iraniane, rappresentate nella serie “Women in the Axis of Evil”, nell’atto di sorreggere ritratti dei propri cari persi al fronte: le immagini, spoglie di gesti ed espressioni enfatiche, suscitano, nella loro semplicità, un’immediata e composta empatia. Tutto è imbevuto di silenzio. Gli unici fruscii provengono dal video proiettato ciclicamente a parete, “The Old Man of Hara”, un documentario realizzato nel 2001 dal regista Mahvash Sheikholeslami: la telecamera riprende una giornata tipo di un vecchio uomo, che vive solo, pescando gamberi, nella foresta di Hara sull’isola di Gheshm, a sud dell’Iran. Il tempo dell’azione prossimo al tempo reale, i ritmi lenti, il contenuto minimalista e la poesia intrinseca del quotidiano generano una quiete contagiosa, che pervade l’ambiente. L’isola di Gheshm appare, per certi versi, una metafora della condizione delle donne iraniane, a loro volta isole, ma diversamente da esse, la solitudine del vecchio uomo è però figlia di una libera scelta. E come isole inaccessibili si affacciano le quattro figure femminili ritratte da Shadi Ghadirian nella serie “Be Colourful”, sperimentale contaminazione fra pittura e fotografia. (Fonte: "Peace Reporter")

E poi una notizia che non c'entra con le "donne arabe e/o musulmane", ma è sufficientemente preoccupante da parlarne: L'India vieta i matrimoni misti e fa un brutto passo indietro .
E sempre a proposito dell'Iran: Bollettino Iraniano.
Un quarantennio di ricaduta, un cattivo presagio che traghetta l’Iran a otto lunghi anni di ostilità con l’Iraq. E’ questo un periodo di dolore senza ritorno per molte delle donne iraniane, rappresentate nella serie “Women in the Axis of Evil”, nell’atto di sorreggere ritratti dei propri cari persi al fronte: le immagini, spoglie di gesti ed espressioni enfatiche, suscitano, nella loro semplicità, un’immediata e composta empatia. Tutto è imbevuto di silenzio. Gli unici fruscii provengono dal video proiettato ciclicamente a parete, “The Old Man of Hara”, un documentario realizzato nel 2001 dal regista Mahvash Sheikholeslami: la telecamera riprende una giornata tipo di un vecchio uomo, che vive solo, pescando gamberi, nella foresta di Hara sull’isola di Gheshm, a sud dell’Iran. Il tempo dell’azione prossimo al tempo reale, i ritmi lenti, il contenuto minimalista e la poesia intrinseca del quotidiano generano una quiete contagiosa, che pervade l’ambiente. L’isola di Gheshm appare, per certi versi, una metafora della condizione delle donne iraniane, a loro volta isole, ma diversamente da esse, la solitudine del vecchio uomo è però figlia di una libera scelta. E come isole inaccessibili si affacciano le quattro figure femminili ritratte da Shadi Ghadirian nella serie “Be Colourful”, sperimentale contaminazione fra pittura e fotografia. soggetti sembrano ingabbiati alle spalle di uno schermo trasparente, sporcato da graffiate di colore: una donna (foto) pare appoggiare entrambi i palmi delle mani alla cortina invisibile, offrendo un contatto impossibile, che lei stessa sfugge osservando un orizzonte lontano, un destino predefinito; un’altra indossa un velo rosso porpora, che le ricopre soltanto un fascio di capelli, tagliandole perpendicolarmente il volto. Shadi Ghadirian trasforma lo chador in uno strumento di seducente, inviolabile sensualità, e suggerisce un forte contrasto con l’iconografia erotica della società occidentale, dominata dalla nudità integrale dei corpi, dall’iperesibizione dell’intimo e dall’esaltazione delle forme: se è vero che il velo, oscurando i capelli, simbolo negativo di seduzione nella cultura islamica, nega l’espressione di uno dei maggiori topoi di femminilità, il gioco di presenza/assenza restituisce una forte e pudica connotazione sensuale. Il confronto con l’Occidente torna, poi, nelle ambigue opere senza titolo di Hamilvkili, che propone fotografie di barbie avvolte in cellophane bruciati: una critica della stereotipata visione della donna Occidentale o delle donne in Iran? Probabilmente di entrambe. Ma “30 years of solitude” vuole lasciare un messaggio parallelo di speranza, rappresentato da “Women’s Sports”: Fazaneh Khademian ci presenta una successione di scatti di donne, che combattono in sport individuali o di squadra, innalzando la visione della figura femminile in Iran. Una donna, in particolare, trasmette la feroce determinazione che anima lo spirito di molte iraniane: vestita di rosso, i capelli raccolti in un velo grigio, la pelle umida di sudore, gli occhi fissi sull’obiettivo, i pugni chiusi in posizione di attacco e un anello per mano, quasi ad indicare la femminilità a conquista ultima per cui lottare. Infine, aleggia per tutta la mostra un passato glorioso, l’impero persiano, ben presente nell’immaginario comune del popolo iraniano, ed è sempre lo chador a veicolare l’universo simbolico e ad interpretare il ruolo di prezioso ornamento. Nell’affresco fotografico di di Abnous Albonzi, “Bird and Flower”, un velo diafano, adorno di fiori e uccelli, simboli imperiali, si adagia sul viso di una donna, intenta a salire le scale: la storia dell’Iran si arrampica con lei in tutta la sua grandezza.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Stupendo articolo (vedi vedi che anche peace reporter qualche volta ...). Sicuramente la cultura persiana è antica, ricca e relativamente liberale, ed è stata prima distrutta dall'islam e poi annientata dall'islamismo di Khomeini. Quanto all'induismo, non dimentichiamo che è quella cosa che ha inventato il sistema delle caste, basato unicamente sul colore della pelle - ossia quanto di più razzista si possa immaginare - una sfida alle quali, anche solo con una lettera d'amore, merita inesorabilmente la morte.