domenica 31 maggio 2009

"VIA LA BIGLIETTAIA CON IL VELO". E A VENARIA LO INDOSSANO TUTTI

Protesta alla reggia sabauda. Del Noce: «Il razzismo non c'entra». La ragazza marocchina: «Non ci faccio più caso, sono stati i colleghi a volermi difendere».

TORINO - Ieri i ragazzi della biglietteria, le guide, gli addetti alla sicurezza — insomma tutto il personale della Reggia di Venaria — si sono presentati al lavoro indossando veli e kefiah. Una protesta e, allo stesso tempo, una manifestazione di solidarietà per una loro collega marocchina, Yamna Amellal (foto, con una collega, anch'essa velata, della Reggia di Venaria, ndr), di 35 anni. Il perché dell'iniziativa lo spiega Michele Francabandiera, 29 anni e da cinque uno di responsabili alla reception del castello sabaudo: «Yamna è con noi dal 2007, sempre dietro lo sportello, e fa bene il suo lavoro. Ma il fatto che sia musulmana e indossi il velo ha provocato delle proteste da parte dei turisti».
Un susseguirsi di episodi imbarazzanti e, venerdì scorso, una lettera anonima pubblicata sulla Stampa: «Mi sono presentata alla biglietteria della Reggia di Venaria, storica residenza di Casa Savoia e mi ha colpito non poco notare — ha scritto una visitatrice torinese — che fosse presidiata da due donne islamiche, una addirittura con il velo in testa. Non sarebbe più corretto che il personale indossasse abiti d'epoca dei Savoia? Quella presenza, invece, era decontestualizzata, fuori posto». La risposta del direttore della Reggia, Alberto Vanelli, è stata decisa ma articolata: «Io non ci trovo nulla di male, l'integrazione passa anche attraverso queste cose. Però confesso che, la prima volta che l'ho vista, ho avuto un attimo di perplessità. Già in passato ci è stato fatto notare che sarebbe stato più opportuno avere personale con profonde conoscenze della storia sabauda, ma l'assunzione è avvenuta tramite il Collocamento e una cooperativa di servizi».
Una guida, Sabrina Soccol, 28 anni, aggiunge: «La donna che ha scritto la lettera non si è neppure accorta che l'altra ragazza da lei indicata come islamica è invece italiana, calabrese...». (Fonte: Corsera)


Ma quello è un segno di sottomissione Maria Laura Rodotà (31 maggio 2009) .
A gettare acqua sul fuoco, il presidente del consorzio che amministra la Reggia, l'ex direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce: «L'opinione della signora, espressa in toni pacati e non oltranzisti, è da rispettare. Allo stesso modo la manifestazione dei colleghi della ragazza marocchina è stata altrettanto legittima e civile. Insomma, non siamo di fronte a un episodio di razzismo come quando l'intera curva di uno stadio insulta Balotelli». A storcere il naso, però, non è stata solo l'anonima lettrice. I colleghi della ragazza marocchina raccontano di episodi di razzismo («Torna a casa tua»; «Quel velo è una provocazione, sono tutti terroristi») e proteste quotidiane: «Spesso capita che qualcuno, per non acquistare il biglietto da Yamna, cambi fila — confida Sabrina Soccol —. E io, che accompagno i gruppi in visita, lo sento: c'è sempre chi commenta negativamente». Ieri, dunque, la protesta. In biglietteria, le colleghe di Yamna si sono presentate con un velo sul capo, i colleghi hanno indossato la kefiah. Ma i gesti di solidarietà hanno contagiato anche agli altri dipendenti (70 persone) delle due cooperative (la Copat e la Rear) che gestiscono i servizi turistici nel castello. «Noi hostess — dice Michela — abbiamo una divisa che prevede un foulard al collo: ce lo siamo messo tutte in testa».
Alla Reggia si è visto il vicesindaco della città, Salvino Ippolito: «Non possiamo discriminare nessuno per motivi religiosi e inoltre la ragazza fa bene il suo lavoro». Lei, Yamna Amellal, sposata con un pakistano, originaria di Khenifra in Marocco, vive a Torino da 5 anni e, per tutta la giornata, è sempre rimasta seduta al suo posto, a staccare biglietti: «A queste cose io quasi non ci faccio più caso, ci sono i miei colleghi a difendermi, è quasi come stare in famiglia. Lavoriamo in un bellissimo luogo e crediamo nella libertà e nella tolleranza. Togliermi il velo? Non ci penso proprio, rappresenta la mia fede. E io sono islamica qui come in qualunque altro posto».
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MAROCCO: ELEZIONI AMMINISTRATIVE, CANDIDATE OLTRE 3MILA DONNE

Sono più di tremila le donne marocchine che hanno deciso di scendere in campo e candidarsi per le prossime elezioni amministrative del 12 luglio. A meno di due giorni dalla chiusura delle candidature in vista del voto in Marocco, il movimento femminile del Paese ha deciso di scendere in campo presentando proprie candidate in tutte le circoscrizioni elettorali. Secondo quanto riporta il sito informativo arabo 'Elaph', la novità di quest'anno sarà che in molte città del Paese gli elettori troveranno donne alla guida delle liste dei diversi partiti politici. Per dare forza all'impegno politico delle donne marocchine, ha deciso di scendere in campo nel comune di Casablanca anche l'attuale ministro della Salute, Yasmina Badu, del Partito dell'Indipendenza (Centro Destra). Lo stesso partito, attualmente al governo, ha deciso di candidare anche altri tre ministri tra cui Karim Ghulab, ministro dei Trasporti, e Abdel Latif Maazuz, ministro del Commercio Estero. In tutto, il prossimo 12 luglio saranno 12 le liste che si contenderanno le amministrazioni comunali del Marocco e per l'occasione il ministero degli Interni ha messo in campo un programma speciale per garantire la massima trasparenza delle operazioni di voto.
"Non avevo dubbi che le prossime elezioni amministrative in Marocco sarebbero state un'occasione importante per rafforzare la partecipazione femminile in politica. Il rammarico è che le donne immigrate qui in Italia non godono delle conquiste ottenute dal movimento femminile maghrebino". E' con queste parole che la parlamentare di origini marocchine, Souad Sbai, ommenta la notizia. "Da quando è salito al trono il giovane re Muhammad VI ero certa che la situazione delle donne in Marocco sarebbe cambiata totalmente - spiega - perché ha attivato un processo di integrazione delle donne nella vita politica dando maggiore attenzione ai loro problemi. Ha investito moltissimo e sta investendo molto sulle donne in politica e anche sulla società civile". Secondo la parlamentare del Pdl, "in Italia purtroppo arrivano poco gli effetti degli sforzi che si stanno compiendo in patria, in particolare tra le donne immigrate". "Chi vive all'estero non partecipa a questo processo di integrazione a causa di un certo estremismo che il Marocco ha saputo fermare - conclude - Basta considerare che in Italia invece di discutere della partecipazione delle donne immigrate in politica si discute delle piscine separate per sesso, cosa che in Marocco non esiste". (Fonte: Arabiyya )


Spagna: un vecchio bordello riciclato in moschea: link . Storie islamiche di ordinaria....invenzione: link, Pakistan - battuta dal suo marito, chiede acqua, le versa l'acido nella bocca: link, Corvertiti link, Londonistan: Infine una moda islamica per tutte le donne! link . (Fonte: Scettico)
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giovedì 28 maggio 2009

ARABIA SAUDITA: UNA FEMMINISTA RIMETTE GLI UOMINI AL LORO POSTO

"Anche se i dirigenti del regno wahhabita accennano di volere riformare la vita politica e sociale, i fatti smentiscono le intenzioni. Qui, si rilancia il dibattito sulle punizioni corporali che meritano le donne spendaccione. Laggiù, si vieta il loro accesso alle sale di ginnastica, per ragioni futili, ovviamente."


Quanto alla più contestata delle riforme, consiste in un progetto di escludere le donne dal giro della Kaaba, in occasione del pellegrinaggio. Una rinomata teologa, che non si può sospettare femminista, ha protestato contro quest'idea che danneggia i diritti delle donne. I teologi maschi sono d'accordo, loro, per isolare le donne nei piani in occasione della grande preghiera attorno alla Kaaba. Fra loro, troviamo senza sorpresa il nuovo amico dell'Algeria e dei suoi mass media, il predicatore A'idh Al-Kirani che fa agli Algerini l'onore di insegnare loro nuovamente l'islam. È vero che è un compito facile in un paese in cui si può affermare, senza falso pudore, che il wahhabismo è una corrente "rinnovatrice".



Wajiha Al-Howeidar una saudita che non ha i peli sulla lingua

La scrittrice saudita dissidente conosce meglio di chiunque le condizioni draconiane imposte alle donne nel regno. Rifiuta in particolare di ritenersi soddisfatta perché si annunciano alcune timide riforme in questo paese chiuso. Allora, stanca di moderare le sue critiche e rivedere le sue esigenze riguardo la condizione femminile, pone le sue condizioni.

Le condizioni di Wajiha Al- Howeidar

"Cesserò di rivendicare dei diritti per la donna saudita":

- Quando vedrò donne saudite senza qualifiche occupare alte funzioni, come governatore, ministro, ambasciatrice, primo ministro o deputato, o qualsiasi altro posto politico elevato. E di dovere queste posizioni al semplice fatto di beneficiare di relazioni influenti grazie ai legami del clan, della tribù e del sangue.
- Quando vedrò tribunali presieduti da donne saudite e che sarà vietato agli uomini sauditi occupare qualsiasi funzione, o essere rappresentati differentemente da una donna che esercita la tutela sulla loro persona e sui loro interessi. L'uomo sarà autorizzato ad apparire all'udienza soltanto su ordine del giudice. Si presenterà in modo anonimo, coperto dalla testa ai piedi e parlerà soltanto su ingiunzione della sua tutrice. La sua testimonianza sarà presa in considerazione soltanto se è confermata da un altro testimone maschile.
- Quando l'uomo saudita sentirà la paura nel corso di tutta la sua vita. Perché sua moglie potrà cambiarlo o sostituirlo con un altro uomo, con una cerimonia nuziale momentanea o di piacere, o con un secondo matrimonio che serva a soddisfare la libido della donna. Che questa donna giustificherà allora questo avvilimento pretendendo di conformarsi "alla legge di dio".
- Quando vedrò una donna saudita porre fine alla vita attiva di un uomo privandolo del suo lavoro con un semplice lancio di piuma.
- Quando vedrò uomini sauditi maturi, maggiorenni e saggi trascinati nei commissariati perché erano al volante della loro automobile. (Wajiha ha fatto circolare un video per la Festa della Donna dell'anno scorso, dove lei guidava in una zona periferica di Riyad, ndr). Che saranno rimessi in libertà soltanto su promessa della loro tutrice che non ricominceranno.
- Quando la donna saudita porterà abiti bianchi, comodi mentre l'uomo saudita sarà costretto a portare un velo nero, dei guanti neri ed un abito nero e andare sotto un sole bollente che fa fondere il metallo. Sarà seguito da vicino da donne atletiche e selvagge che sorveglieranno i suoi movimenti in nome della difesa della virtù e della lotta contro il vizio. Così, l'uomo saprà che ha soltanto due posti nella sua vita: la casa e la tomba.
- Quando le donne si occuperanno di tutti i reparti dei centri commerciali. Anche i negozi di sotto abiti maschili saranno tenuti da donne. Proporranno le loro merci agli uomini con sfacciataggine e impudenza.
- Quando la donna prenderà il doppio della parte dell'uomo dell'eredità di suo padre, anche se è ricco e possiede beni immensi, in confronto a suo fratello ridotto ad una povertà estrema.
- Quando la donna saudita avrà il diritto di ripudiarlo, di cacciarlo dalla sua casa, privarlo dei suoi bambini e prendersi un marito più giovane al suo posto.
- Quando una religiosa saudita utilizzerà le colonne di tutti i giornali governativi per autorizzare a battere l'uomo e schiaffeggiarlo per ottenere la sua sottomissione e che la maggioranza delle donne la sosterrà.
- Quando il 96% dei casi di violenza sarà attribuito a donne contro uomini.
- Quando l'onore si incarnerà nel corpo dell'uomo e che quest'ultimo sarà incline alla violenza ed all'omicidio se il suo corpo è toccato da una donna.
- Quando le donne saudite si saranno impossessate di tutti i tribunali religiosi, che le utilizzeranno per schiacciare l'uomo e stringere la morsa attorno a lui esigendo, in nome della religione, che sia privato dei suoi diritti fondamentali e delle sue libertà individuali.
- Quando si spargerà nella società saudita, tramite il sistema educativo e dei mass media, la cultura riducendo l'uomo ad un essere inferiore, avente poco cervello ed ancora meno religione".
Una visione della nazione che affida i sui destinati ad un uomo non deve sperare alcun vantaggio. Sono queste alcune delle condizioni poste da Wajiha Al-Howeidar, con la precisione che i torti causati all'uomo dalle sue proposte sono puramente virtuali mentre quelli subiti dalla donna sono, quelli, reali. Allora, anziché imporre all'uomo queste "leggi divine" degradanti per lui, perché non cessare semplicemente di imporrle alle donne? È ciò che desidera, in ogni caso, la scrittrice. Un desiderio? Piuttosto un desiderio pio, e si sa ciò che diventano i desideri pii nel paese della pietà totale, o, dovremmo dire, totalitario. (Fonte: Scettico )

E sempre da vituccio72 : Spagna: un vecchio bordello riciclato in moschea link, Francia-arricchimento culturale: Un uomo di Dunkerque di 59 anni praticava la circoncisione senza licenza medica: link .
E da Kritikon : Un passo avanti e quattro indietro per i diritti delle donne nei paesi islamici . Piccola riflessione per chi ancora ha gli occhi chiusi permalink .
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mercoledì 27 maggio 2009

"DELITTO D'ONORE, A QUANDO LA NUOVA LEGGE CON L'AGGRAVANTE DELLA PREMEDITAZIONE?" di Kawter Salaam

Palestina. Politica. Giurisprudenza e Diritti delle donne. Aumentano i delitti d'onore a Gaza e nella West Bank, le associazioni femminili ricordano al presidente Abbas la promessa di leggi severe.

Sabato 16 maggio 2009, il corpo di Halimeh Ahmad Al-Sheikh di Qalqilyah, martoriato a coltellate, è stato ritrovato vicino al checkpoint di Atara, nel nord della città di Ramallah. Con lei, sale ad 11 il numero delle donne assassinate nei primi sei mesi di quest'anno in Palestina. Quante per "motivi d'onore"? Tutte? Non si sa, le famiglie inventano storie di copertura per giustificare il decesso, e la legge giordana vigente nei Territori e a Gaza garantisce nei fatti l’impunità ad un uomo che ammazza una donna di famiglia. In questa breve nota di cronaca, Kauteer Salaam chiede al Procuratore Generale della Palestina Ahmad Mghanni qual è il suo punto di vista sull'aumento degli omicidi di donne, e quando verrà applicato il nuovo Codice Penale, formulato dall'Autorità Nazionale Palestinese, che tratta i delitti d'onore alla stregua di omicidi con l'aggravante della premeditazione… .
Sabato 16 maggio 2009, Halimeh Ahmad Al-Sheikh di Qalqilyah è stata trovata morta vicino al checkpoint di Atara, nel nord della città di Ramallah. Halimeh Ahmad Al-Sheikh aveva 30 anni ed era madre di 7 bambini. Fonti mediche dicono che l’organizzazione umanitaria Red Crescent abbia trovato il corpo della donna dopo aver ricevuto un'informazione diretta. Martoriato da coltellate, e lasciato a circa 400 metri dal checkpoint di Atara sulla strada che porta al villaggio di Nabi Musa, il cadavere di Halimeh era stato smembrato numerosi animali selvatici presenti nella zona. Due mesi fa era stato ritrovato a Ramallah il corpo di un’altra donna il corpo di un’altra donna, e nel marzo sempre di quest'anno altre tre donne sono state assassinate a Gaza. In Palestina c'è dunque un incremento di omicidi di donne: nei primi sei mesi del 2009 abbiamo contato ufficialmente 11 vittime, e non sappiamo quante di loro siano state assassinate per "motivi d'onore" perché le famiglie inventano storie di copertura per simulare o giustificare il decesso, e la morte viene dichiarata come "normale". Sullo sfondo di questa tragedia ci sono le deboli leggi ereditate dalla Giordania e adottate in Palestina che garantiscono l’impunità agli uomini che uccidono le donne di famiglia “per onore”. Nel 2008, alcune organizzazioni femminili hanno sollecitato un incontro con il presidente Abbas, nel corso del quale gli hanno chiesto di emanare una legge severa contro i crimini considerati “delitti d’onore”, ma non sembra che nulla di ciò sia stato fatto sino ad oggi. Cosa ne dice il Procuratore Generale della Palestina? Qual è il suo punto di vista sull'aumento dei delitti d'onore e l'assassinio delle donne? Non sarebbe il caso di considerare questo crimine alla stregua di omicidio commesso con premeditazione, emanando leggi severe? Risponde il procuratore Generale della Palestina Ahmad Mghanni: "non posso considerare il delitto d’onore come un crimine organizzato. Il Pubblico Ministero se ne sta occupando in questa direzione, ma le leggi penali relative a questo crimine adottate in Palestina sono le leggi giordane che prevedono condanne clementi per chi si macchia di un delitto d’onore. Il nuovo Codice Penale, che si suppone venga adottato dal Consiglio Legislativo Palestinese, e che è stato formulato dall’Autorità Palestinese, contiene un punizione severa per chi commette un delitto d’onore. Noi auspichiamo che questo Codice venga applicato. Quando, nell’anno 5000? (Fonte: Women in the city )

ARTICOLO CORRELATO. Giordania. Delitto d’onore. Molto più di un affare di famiglia... di Nermeen Murard (23.03.09)

E poi: #2122 - PA Chairman Mahmoud Abbas Attacks Hamas in a Speech to Women's Rights Activists .

Israele-Territori Palestinesi: #2124 - Arafat's Former Office Manager "Umm Nasser": Israel Is the Cancer of the Middle East and Should Be Uprooted Any Way Possible .

E su Scettico : Semplice come un "buongiorno..." link, Londonistan: Infine una moda islamica per tutte le donne! link, TURCHIA: ancora un crimine d'onore! link, Foto del giorno link, Spagna: La preghiera musulmana o l'asportazione del clitoride link . Leggi tutto ...

martedì 26 maggio 2009

SUL SENSO DEL TRADIMENTO. CONVERSAZIONE DI ELEANOR KILIROY, THE ARAB, CON NAWAL AL SA'DAWI

Cultura. Gran Bretagna. Libertà e fondamentalismi religiosi. Incontro con la scrittrice egiziana Nawal al Sa'dawi (foto) dopo il rifiuto, l'ennesimo, degli editori arabi alla pubblicazione del suo ultimo racconto “Zaynab”, nel nome della Madre.


“Stava lì, in piedi, con le spalle leggermente curvate, la sua pelle color marrone come il limo portato giù dal Nilo, i suoi capelli color bianco neve, folti, lungo tutta la testa…”, così Nawal scrive di se stessa nel capitolo che apre “Camminare nel fuoco”. Era il 1993, e la scrittrice era scappata dalla sua città natale, Cairo, dopo che il suo nome era comparso sulla lista della morte di un movimento fondamentalista. Adesso, 16 anni dopo, Nawal sta di fronte a me, ed appare solo un po’ più curva. L’autrice di molte opere, tra fiction e no, ha accettato questa intervista a The Arab, a margine della conferenza che sta tenendo nella Libreria Housmans (a Londra), specializzata in libri e periodici di politica progressista e idee radicali. “Nella sua opera ricorre continuamente la nozione di tradimento”, le ho detto avviando la nostra conversazione, ed ho avanzato l'ipotesi che la prima cosa da respingere sia innanzitutto l’idea che per “sentirsi traditi” si debba possedere una fede cieca. Nawal Sa'dawi mi ha corretta: “Talvolta, si tratta di inganno.”…

Nawal al Sa'dawi è stata accusata in Egitto di aver tradito il suo Paese, la sua religione e il suo sesso. Nel libro “Camminare nel Fuoco”, il suo lavoro autobiografico, la scrittrice narra il trauma che colpì il suo primo marito, di ritorno dalla guerra del Canale di Suez nel 1956. Un trauma che, secondo Nawal, ebbe origine nel senso di tradimento vissuto dall’uomo nel suo rapporto con la “santa trinità”: Nazione, Dio, Fede. "Aveva fede nel governo egiziano, quando questi iniziò ad arruolare gli studenti naïfs ed idealisti come lui, quando diceva loro “Andate sul canale e combattete”… I ragazzi andarono, fecero la guerra, quelli che tornarono furono arrestati ed esiliati. Mio marito ebbe un crollo psicologico, cominciò a prendere droga, divenne un drogato.”. “Nella sua opera ricorre continuamente la nozione di tradimento”, le ho detto incontrandola, avanzando l'ipotesi che la prima cosa da respingere è innanzitutto l’idea che per “sentirsi traditi” si debba possedere una fede irrazionale. Sa'dawi mi ha corretta: “Talvolta si tratta di inganno.”. Chi ci legge potrebbe trovare nuove libertà nella vulnerabilità conosciuta di Nawal Sa'dawi; una vulnerabilità presente in tutta la sua scrittura, traversata allo stesso modo da passione e rabbia, ma che può essere facilmente dimenticata quando ci si trova di fronte ad una persona dura, e forte. “Stava lì, in piedi, con le spalle leggermente curvate, la sua pelle color marrone come il limo portato giù dal Nilo, i suoi capelli color bianco neve, folti, lungo tutta la testa…”, così Nawal scrive di se stessa nel capitolo che apre “Camminare nel fuoco”. Era il 1993, e la scrittrice era scappata dalla sua città natale, Cairo, dopo che il suo nome era comparso sulla lista della morte di un movimento fondamentalista. Adesso, 16 anni dopo, Nawal sta di fronte a me, ed appare solo un po’ più curva. L’autrice di molte opere, tra fiction e non, ha accettato un’intervista con il giornale The Arab nella Libreria Housmans (a Londra, ndt), specializzata in “libri e periodici di idee radicali e politica progressista”. Sulla stampa, la scrittrice egiziana è normalmente definita “la più controversa autrice femminista egiziana”, ma io, invece di percorrere questo tracciato, inizio con il domandarle cosa rende così radicali le sue idee e le sue azioni. Atea, apostata, pazza, donna che odia gli uomini: gli arabi e tutti coloro che la criticano non usano infatti mezze parole, e utilizzano qualunque insulto a disposizione (anche “donna che va contro il suo proprio sesso”, in un libro omonimo di Georges Tarabishi). Lei rimane ferma e immobile, come davanti ai suoi personaggi assassini, il dottore, lo psichiatra, lo scrittore…, ben consapevole dei limiti che il corpo e la mente possono sopportare. Nel capitolo titolato “Quello che è soppresso ritorna sempre” di “Camminare nel fuoco”, Nawal narra come una giovane dottoressa di un villaggio, lei stessa, provò ad impedire che una paziente di 17 anni, Masouda, venisse riaffidata al marito, un uomo molto più anziano, che l’aveva violentata per cinque anni. Un operatore social'e del villaggio ordinò invece alla ragazza di ritornare a casa, denunciando la Saadawi alle Autorità locali perché aveva commesso “un’azione di mancanza di rispetto per i valori morali ed i costumi della nostra società” e per aver incitato “le donne a ribellarsi alla Legge divina dell’islam”. Una settimana dopo Masouda si lasciò soffocare. Ci sono molte forme di crudeltà - la stessa Sa'dawi parla altrove di “stupro economico” -, ma l’idea che la fedeltà a ciò che è conosciuto come innocua credenza spirituale prevalga sulle nostre responsabilità verso la salute del corpo e della mente, è una delle idee più pericolose del giorno d’oggi. “Viviamo tutti sotto una sola religione e una sola cultura”, dice Nawal ai quaranta ascoltatori arrivati alla libreria per ascoltarla, “il Patriarcato Capitalista”. Poi viene la domanda che ho temuto sin dall'inizio. Chiede una giovane donna: “Non pensa che la sua scrittura incoraggi chi è contro l’Islam, e soffi sul fuoco dell'intolleranza contro gli immigrati?”. Molti intellettuali di sinistra potrebbero irritarsi per un'accusa implicita come questa, ma non la Sa'dawi che risponde educatamente “Sono contro la parola tradimento. Abbiamo perso la capacità di critica perché abbiamo paura di essere accusati di tradimento.”. La ragazza insiste, “guardi il modo in cui le donne musulmane sono trattate in Francia, si proibisce loro di indossare il velo.”. Sa'dawi spiega, “…si può sfidare il colonialismo affidandosi solo al velo? Non sarebbe più importante organizzare i gruppi degli immigrati e contrastare le politiche governative discriminatorie? È chiaro che non si può criticare solo l’islam, quando ciò avviene siamo di fronte ad un movimento solo politico…”., tutte le religioni o le ideologie, persino l’anti-imperialismo in alcune delle sue sfaccettature, chiedono sacrifici, sino al sangue. Non è comune che una comunità di appartenenza parli di scrittrici che l'hanno descritta in modo poco lusinghiero: paurosa di tradire un'identità etnica o religiosa, si sente sotto accusa a tal punto da sottoporre la scrittrice alle critiche più vendicative, ritraendola come una traditrice. Questione di malintesi o di perdita di vista del motivo per cui combattono, la brava gente rimane così involontariamente imbrigliata nelle brutte questioni politiche dell’identità. In “Camminare nel Fuoco”, appare chiaro che la stessa Sa'dawi è fedele ad un’idea: che il singolo individuo, sia egli uomo o donna, debba prendere coscienza del suo corpo e della sua vita. Una consapevolezza molto più importante di qualsiasi questione etnica, religiosa, di identità di genere e di affiliazione politica, perché l’unica cosa che ci unisce è il fatto di essere. “Siamo cresciuti in modo distorto, mentalmente e fisicamente; loro non ci hanno solo tagliato i nostri genitali, la società ha circonciso i nostri cervelli con la religione, la scienza e la politica, in questo modo abbiamo perso la nostra abilità ad essere creative, ad avere un’ampia visione di noi stesse e del mondo... In tutti i miei libri emerge chiaramente che sono una dottoressa, parlo di problemi fisici, ma non solo; parlo anche di economia, religione, storia, antropologia e politica. Sono una psichiatra e parlo di malattia mentale. Tutti noi riceviamo conoscenze frammentate sul fisico e la mente come entità separate, ed anche questa è un’idea religiosa, la frattura tra il corpo e la mente è una cosa totalmente innaturale. Quando scrivo, io scrivo con entrambi, il corpo e la mente”.. È questa sensibilità del fisico intrecciata alla vulnerabilità della mente che la spinge a criticare apertamente le accuse dei colleghi, le sanzioni del governo e le minacce di morte degli estremisti islamici. Sempre in “Camminare nel fuoco”, penultimo capitolo “Una rivoluzione abortita”, la scrittrice racconta di come, nell’estate del 1968, dopo che l’Egitto viene sconfitto da Israele nella guerra del 1967, lei decida di far parte di un gruppo di medici volontari inviati nei campi dei profughi palestinesi in Giordania. Una volta lì, si sposta in ambulanza per aiutare i feriti. Una notte l’ambulanza salva un combattente della guerriglia seriamente ferito. Tre mesi dopo, Nawal Sa'dawi lo vede camminare su una sedia a rotelle. “Aveva perso entrambe le gambe ed un braccio, era solo un tronco”. Durante la sua ultima notte nel campo, va ad incontrare il combattente, di nome Ghassan, che la aspetta sulla sua sedia a rotelle, fuori la tenda. È moribondo, parla apertamente alla “dottoressa”, le racconta i suoi desideri, viene fuori la sua consapevolezza su come la società tratta i più deboli: “Tutti quei corpi lasciati nelle tende, sono poveri ragazzi come me. Non hanno nulla, solo i loro corpi. Ma in realtà non posseggono neanche quelli, i loro corpi appartengono ai capi, fetore di morte compreso. Un giorno la dirigenza ha deciso di aprire un fascicolo su me, ero ormai considerato un veterano handicappato grave, una sorta di mendicante o non so cosa, dal momento che ho dovuto raccogliere quello che gli altri buttavano via per nutrirmi. Solo se veniva un’importante personalità a farci visita, ci radunavano tutti insieme in un luogo spazzato e pulito, con le bandiere e gli striscioni. Invece di essere l’orgoglio della nostra Nazione…sono diventato un motivo di vergogna, una macchia sulla nostra reputazione che doveva essere occultata o nascosta.”. Ghassan racconta la sua storia rivolgendosi in prima persona all’ascoltatrice “donna”: “la prima parola d’insulto che hai ascoltato nella tua vita è o non é stata “mara”?... I miei nemici hanno fatto a pezzi il mio corpo, ma per me è stato meno doloroso di questo insulto che gli altri mi hanno sputato addosso”. La parola “mara” in arabo colloquiale significa “donna” ma, a differenza del termine classico “mara’a”, viene utilizzata in senso dispregiativo per definire una donna considerata inutile, un peso per la società. Nella sua narrativa, Sa'dawi osserva e registra scrupolosamente le ferite fisiche così come le diverse manifestazioni del tormento mentale, assolve poche persone ma ne accusa tante: il Potere e coloro che, per ignoranza e servilismo, si sono resi complici della sofferenza delle fasce più fragili delle loro società. Nella sua relazione medica su Masouda, scrive che la sua giovane paziente aveva riportato gravi lesioni anali a causa dello stupro ripetuto da parte di un uomo adulto. Aggiunge che “la ragazza non ha trovato alcuna via d’uscita se non la malattia mentale.”. Chiedo alla scrittrice: come si può perdonare chi, come nel caso di Masouda, si appella alle leggi divine per giustificare la restituzione della vittima al suo aggressore? Replica,: “la mia rabbia è sempre incanalata nella scrittura creativa, non sono una persona adirata tout court.”. “Sono una donna sorridente,felice; molte persone quando mi incontrano rimangono stupite perché pensavano di trovare una “femminista arrabbiata”! Tutte le mie rabbie si riversano nel mio lavoro, sono pubbliche, ed è un segno esterno importante perché molte donne hanno paura di mostrarle, queste rabbie. Alcune le dirigono verso se stesse, sviluppano depressione e nevrosi. La rabbia è invece un’emozione molto positiva, anche gli animali si arrabbiano se stanno lottando; alla stesa sana maniera, gli esseri umani si arrabbiano quando vengono picchiati, quando sono esposti all’oppressione o all’ingiustizia. Il punto è come le donne usano la loro rabbia, contro se stesse? Contro il marito? Vogliono ucciderlo invece che divorziare? Ma perché? Prima divorzio, e poi reclamo la mia vita! Io sono contro l’omicidio, a meno che tu non uccida come il personaggio Firdaus. La donna a Punto Zero, che difende la sua vita. I miei scritti sono una protesta contro Dio, la religione e la spiritualità, che non libera le donne ma aumenta soltanto la loro oppressione.”.
Nawal Sa'dawi ricorda che quando era una bambina che andava a scuola, nell'Egitto a cavallo tra gli Anni Trenta/Quaranta, le su due migliori amiche erano una bambina ebrea ed una cristiana. L’insegnante le separò per l’educazione religiosa, e in classe venne detto a ciascuna di studiare sul proprio Libro sacro; lei, inoltre, venne ammonita a non toccare il cibo “sporco” delle altre. Nawal ricorda di essere rimasta sconvolta, incapace di capire il motivo per cui era stata separata dalle sue amiche. Da adulta, racconta adesso, “ho passato dieci anni a studiare i Testi delle principali religioni, i libri che malamente strumentalizzati possono portare gli uni ad odiare gli altri, pieni di contraddizioni basate sull'idea del peccato…”. “Abbiamo ricevuto una cattiva educazione a scuola e all’università, diventiamo buoni studenti ignoranti del mondo; occorre che ciascuno rimetta in discussione il fardello di istruzione che si porta dentro.”. Nawal al Sa'dawi ci sprona a fare più collegamenti: tra politica, classe, religione, violenza sessuale e dipendenza economica delle donne; tra leggi che legalizzano lo stupro e guerre neo-coloniali; tra patriarcato, monogamia, nome del padre e mutilazioni genitali femminili. La sua ultima novella, Zaynab, è dedicata e porta il nome della madre, ne racconta la vita, ma gli editori arabi hanno avuto troppo paura di pubblicarlo: “Abbiamo perso il nostro senso comune”, commenta l’autrice con tristezza. Zed Books ha recentemente ripubblicato quattro libri di Nawal sl Sa'dawi, “Walking Through Fire”, “A Daughter of Isis”, “Circling Song” e “Searching”. * Intervista originale pubblicata su “The Arab”, ripresa e inviata da “Women linving under muslim laws”, traduzione per women a cura della redazione - L'ultimo libro di Nawal Sa'dawi pubblicato in lingua italiana è “L'amore al tempo del petrolio”, edizioni Il Sirente, collana Altriarabi, marzo 2009 - Nawal al Sa'dawi ha partecipato recentemente alla Fiera Internazionale del Libro di Torino con una lezione su Creatività e Dissidenza, Dipendenze necessarie? insieme all'islamologa Isabella Camera D'Afflitto. Una rassegna completa degli articoli usciti per l'occasione sul suo “L'amore al tempo del petrolio” si può trovare all'indirizzo http://altriarabi.wordpress.com/category/ufficio-stampa/press-al-saadawi/ (Fonte: Women in the city , 24/5)

Poi leggete (probabilmente ne ho postato almeno uno, ma repetita iuvant): FABBRICARE VITTIME: UN AFFARE REDDITIZIO: permalink .

GAZA, O L’IPOCRISIA SENZA PARI: permalink .
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lunedì 25 maggio 2009

DONNE SUFI, LE SCONOSCIUTE MISTICHE DELL' ISLAM

Il termine “sufismo” o “tasàwwuf” indica la forma di ricerca mistica dell’islam. Storicamente il termine sufi indicava colui che indossava un vestito di lana (in arabo suf), che i primi asceti musulmani avevano scelto come segno distintivo del loro modo di vivere. In seguito il termine passò ad indicare il modo di vivere stesso, indipendentemente dal vestito indossato. Il sufismo, come ogni esperienza mistica, intende avvicinare l’uomo a Dio e si pone principalmente come esperienza pratica di vita, non come sapere teorico. Per questo motivo è impossibile darne una definizione precisa. Al contrario, è proprio attraverso le sue manifestazioni storiche che il sufismo può essere conosciuto e descritto. Il sufismo è il cuore stesso della fede islamica, ossia “la testimonianza e la professione dell’unità di Dio” (tawhid) quali sono state tramandate dal Corano e attribuite al profeta dell’Islam, Muhammad. Il misticismo è la tendenza dell’anima umana all’unione con l’Assoluto, o piuttosto un bisogno di allontanamento dal mondo (il quale solitamente viene chiamato realtà) per raggiungere un più elevato livello di consapevolezza. La ricerca di questa consapevolezza ed unione con l’infinito è caratterizzata da un progressivo distacco sia dalla conoscenza sensibile sia da quella razionale, fino alla perdita dell’io nel “tutto”. Il tasawwuf è un fenomeno molto diffuso nell’islam, anche se poco visibile a causa della grande riservatezza osservata dai praticanti. Il sufismo è diffuso soprattutto nel mondo sunnita, meno in quello sciita dove sono attive infatti soltanto due confraternite islamiche, la Ni’matullahiyya e la Dhahabiyya, a fronte delle decine di confraternite sunnite tuttora operanti. Nell’islam sunnita, invece, la totale mancanza di sacerdozio e di una classe di tipo clericale che possa assolvere alla funzione intermediatrice fra Dio e le sue creature comporta una ricerca di Dio e della Sua volontà molto più faticosa e difficile. Ancora poco studiate, le donne hanno rivestito un ruolo molto importante nel sufismo riconosciuto loro anche dai più importanti maestri sufi.
I tratti fondamentali delle donne sufi sono: estremo ascetimo, nubilato, amore mistico e unione mistica. I comuni manuali del sufismo non riservano molto spazio alle donne sufi. Nelle fonti storiche, invece, si trovano citate molte donne musulmane che hanno praticato un vita di ascesi, giungendo ad un alto livello di spiritualità riconosciuto dalle più grandi autorità nell’islam. Ibn al-Jawzi (m.597/1200) riporta nella sua raccolta di biografie su Le qualità degli eletti, i nomi di oltre duecento donne sufi. ‘Abd al-Ra’uf al-Munawi (d.1031/1621) nel suo libro Gli astri splendenti, ne registra trentacinque. La maggior parte di queste donne appartengono alla prima e alla seconda generazione dell’islam. Tra i nomi di donne sufi, ricordiamo quello di Rabi’a al’Adawiyya (m. 185-801) (foto). È il modello per eccellenza della pietà e dell’amore puro per Dio. Questa ex-schiava salì alle più alte vette della santità e fu riconosciuta dalla tradizione sufi come maestra di sufismo. Rabi’a nacque poverissima al punto che fu venduta come schiava. Dopo essere stato testimone dei segni della sua santità, il padrone la lasciò libera. Lei allora si dedicò completamente al servizio di Dio, nella povertà e nell’isolamento più assoluti, diventando un modello di vita ascetica per i suoi contemporanei. Rabi’a al’Adawiyya è anche un famoso esempio di nubilato, una pratica piuttosto avversata dalla legge islamica.
Altre donne sufi, invece, erano sposate e, tuttavia, dedite completamente a Dio, al punto che riducevano al massimo la pratica matrimoniale. Amatu-llah, contemporanea di Rabi’a, moglie del famoso sufi Rabih Qaysi (m. 180/796), considerava il rapporto con suo marito soltanto un obbligo legale da adempiere. Nulla di più. Al contrario, altre donne sufi cercavano continui pretesti per evitare un dovere così ingombrante, tra queste ricordiamo i nome di Ra’biya bint Isamil (m. 135/753), Ruqayya al-Mawsiliyya, ‘Ubayda bint Abi Kilab, ‘Ufayra al-Basriyya e Rayhana al-Majnuna. Un caso interessante è quello di una schiava nera, detta al-Maymuna al Sawda (la Fontana nera) o al-Majnuna al-Aqila (la Pazza saggia) del II/VIII secolo. Nel suo caso, la santità l’ha redenta dal suo stato di umiliazione come nera. I neri infatti sono stati sempre disprezzati nella società araba e considerati degli schiavi. Un’altra sufi del III/IX secolo Fatima al-Nisaburrya (m. 223/838) è rimasta famosa per aver raggiunto i più elevati gradi spirituali al punto che anche grandi sufi suoi contemporanei, come Dhu l-Nun al-Misri (m. 245/859) e Tayfur al-Bistami (m. 254/874), andavano a trovarla per parlare con lei dei più alti stati spirituali.
Molte donne sufi divennero famose non soltanto per la loro santità, ma anche per la loro scienza religiosa e furono riconosciute e rispettate dai dotti del tempo. Uno degli esempi più famosi è quello di Fatima bin al-‘Abbas (m. 724/1324). I suoi biografi le danno i titoli di shaykha (maestra di vita spirituale), mudarrisa (dottore nei collegi di studio della religione), e faqiha (dottore di legge islamica), ed era solita predicare dall’alto del minbar (il pulpito da cui predica l’imam nella moschea). Fatima venne riconosciuta come una vera e propria autorità del suo tempo in fatto di questioni religiose, al punto che anche il grande dottore hanbalita suo contemporaneo, Taqi al-Din Ibn Taymiyya (m. 728/1328) (la scuola hanbalita è quella di cui fanno parte gli wahhabiti e Ibn Taymiyya è il dotto più importante dell'omonima scuola, dopo il fondatore Ahmad Ibn Hanbal, ndr), dovette ammetterne il valore. Silenziose testimonianze di donne importanti… . (Fonte: http://www.mauricebignani.it da Ideazione, 30/5/2008)

E dalla Repubblica islamica: Iran. La rivoluzione colorata delle donne col velo .

Siti oscurati e tg solo con buone notizie. Ecco il regime iraniano . "Iran, il regime blocca la posta elettronica del premio Nobel". Leggi tutto ...

domenica 24 maggio 2009

UNA STORIA CECENA


Majnat Abdulaeva (nella foto, che purtroppo non si vede bene), giornalista rifugiata in Germania, racconta la sua vita e la sua guerra.

Majnat Abdulaeva è una rifugiata politica cecena che oggi vive in Germania. Per anni è stata corrispondente di guerra dalla sua città, Grozny, per la Novaya Gazeta - il giornale di Anna Politkosvaskaya - e per Radio Liberty. PeaceReporter l'ha incontrata a Varese, nel corso di un incontro sul conflitto ceceno organizzato dall'associazione 'Est - Volontari in Movimento'. Ecco la sua storia e la sua testimonianza.

"La guerra cecena di oggi è cambiata anche per un altro aspetto: il ruolo della religione islamica nella guerriglia. Noi ceceni siamo sempre stati musulmani, ma il nostro islam è quello della tradizione mistica sufi, quindi spirituale, aperto e tollerante. Nulla a che vedere con l'islam integralista di stampo mediorientale. Guardate me: io sono musulmana. All'inizio della guerra l'indipendentismo ceceno non era a carattere islamico, anzi: i nostri combattenti credevano nei valori occidentali: la libertà, la democrazia. Ma poi si sono sentiti traditi dall'Occidente e quindi si sono progressivamente radicalizzati, abbracciando l'islam jihadista".


Alla fine degli anni '80, con la Perestrojka, anche nella repubblica cecena si respirava un'entusiasmante aria di cambiamento. Io, che all'epoca mi ero appena iscritta all'università, ero affascinata, incantata da tutto quello che si leggeva sui giornali: decenni di storia stavano improvvisamente tornando alla luce. La storia stessa si stava facendo sotto i nostri occhi. C'era un grande fermento culturale, c'era finalmente la possibilità di leggere e di scrivere la verità.
Così sono stata attirata nel mondo del giornalismo. Con il crollo dell'Unione Sovietica tutti credemmo che l'epoca del Kgb, della censura e della paura fossero finite per sempre. Ma non era così. Durante la seconda guerra mondiale, Stalin aveva ordinato la deportazione del mio popolo, accusandolo falsamente di collaborazionismo con i tedeschi, e aveva cancellato la nostra identità culturale facendo perfino saltare in aria le torri medievali, simbolo della nostra storia. Cinquant'anni dopo, Eltsin dichiara guerra al mio popolo, chiamandoci ‘criminali' e ‘banditi', bombarda a tappeto la nostra capitale, trucidando migliaia di civili e radendo al suolo musei, biblioteche, teatri, università, cancellando nuovamente la nostra cultura. La Russia post-comunista, aveva dato inizio all'ultima guerra coloniale d'europea, per punire un piccolo popolo che aveva osato ribellarsi alla sua logica imperiale.
Iniziai a lavorare come corrispondente per la Novaya Gazeta e per Radio Liberty: i due mezzi di comunicazione più odiati dai russi perché erano gli unici che raccontavano quello che stava accadendo sfidando la censura e la propaganda militare russa. Io, in quanto cecena, avevo la possibilità si mimetizzarmi tra la gente, di andare sui luoghi dei bombardamenti, dei rastrellamenti, delle esecuzioni sommarie, e quindi di vedere quello che stava realmente accadendo. Inviavo i miei reportage e di notte, a casa mia, stavo sveglia, vestita, ascoltando i rumori dei blindati per le strade, aspettando il momento in cui sarebbero arrivati a prendermi. La Cecenia è piccola: tutti sapevano che ero io a far uscire le notizie. Avevo paura, non solo per me ma anche per la mia famiglia, che era diventata ostaggio del mio lavoro. (Fonte: Peace Reporter )
Ho continuato a lavorare come corrispondente da Grozny anche dopo la fine della prima guerra, e poi con l'inizio della seconda nel 1999. Questa volta era Putin a volerci cancellare, a bombardare a tappeto le nostre città e i nostri villaggi, uccidendo altre migliaia di civili innocenti. Dopo il settembre 2001 i ceceni, che prima erano ‘banditi', divennero ‘terroristi'. Casa mia divenne un specie di albergo per i reporter stranieri che venivano a coprire la guerra. Ho ricominciato a passare le notti sveglia, aspettando. Finché non sono arrivati. Erano ceceni, parlavano russo, erano armati ma senza divisa. Mi hanno detto che dovevo scegliere: o la smettevo di scrivere o me ne andavo. Per mesi hanno continuato a seguirmi, a minacciare me e la mia famiglia. Nel 2004, grazie a dei giornalisti di Reporter Senza Frontiere che ospitavo in casa mia, riuscii a lasciare la Cecenia e mi rifugiai in Germania con l'aiuto del Penn Club. A Grozny rimase la mia famiglia, che vive ancora lì.
Grazie al telefono, ma soprattutto tramite Internet, riesco a tenermi costantemente in contatto con la Cecenia e quindi posso continuare a raccontare quello che succede, scrivendo sui giornali tedeschi ed europei. La guerra in Cecenia non è finita come vuol far credere la propaganda russa: la guerra continua, anche se in forme diverse rispetto al passato. I guerriglieri ceceni combattono ancora regolarmente sulle montagne, contro i russi e contro i ceceni collaborazionisti. A Grozny e nelle altre città la guerra non c'è, ma si vive sotto dittatura, quella del regime filo-russo di Ramzan Kadyrov. La gente, pur entusiasta per la ricostruzione in corso, è ancora traumatizzata dalle violenze della guerra e continua a vivere nella paura. Stanno ricostruendo le nostre case, ma il nostro popolo è distrutto: oltre il 70 percento della popolazione non ha lavoro, dilagano le malattie conseguenze della guerra, in particolare il cancro al seno, che in Cecenia è più diffuso che in qualsiasi altra regione russa. Il nostro ambiente è distrutto dalla guerra e dall'inquinamento. Non esiste libertà politica, né libertà di stampa. I tanti giornali ceceni nati negli ultimi tempi parlano di tutto tranne che di quello che succede in Cecenia: riportano notizie sul divorzio di Berlusconi, ma non sulla guerra che continua sulle montagne.
Grazie al telefono, ma soprattutto tramite Internet, riesco a tenermi costantemente in contatto con la Cecenia e quindi posso continuare a raccontare quello che succede, scrivendo sui giornali tedeschi ed europei. La guerra in Cecenia non è finita come vuol far credere la propaganda russa: la guerra continua, anche se in forme diverse rispetto al passato. I guerriglieri ceceni combattono ancora regolarmente sulle montagne, contro i russi e contro i ceceni collaborazionisti. A Grozny e nelle altre città la guerra non c'è, ma si vive sotto dittatura, quella del regime filo-russo di Ramzan Kadyrov. La gente, pur entusiasta per la ricostruzione in corso, è ancora traumatizzata dalle violenze della guerra e continua a vivere nella paura. Stanno ricostruendo le nostre case, ma il nostro popolo è distrutto: oltre il 70 percento della popolazione non ha lavoro, dilagano le malattie conseguenze della guerra, in particolare il cancro al seno, che in Cecenia è più diffuso che in qualsiasi altra regione russa. Il nostro ambiente è distrutto dalla guerra e dall'inquinamento. Non esiste libertà politica, né libertà di stampa. I tanti giornali ceceni nati negli ultimi tempi parlano di tutto tranne che di quello che succede in Cecenia: riportano notizie sul divorzio di Berlusconi, ma non sulla guerra che continua sulle montagne.
La guerra cecena di oggi è cambiata anche per un altro aspetto: il ruolo della religione islamica nella guerriglia. Noi ceceni siamo sempre stati musulmani, ma il nostro islam è quello della tradizione mistica sufi, quindi spirituale, aperto e tollerante. Nulla a che vedere con l'islam integralista di stampo mediorientale. Guardate me: io sono musulmana. All'inizio della guerra l'indipendentismo ceceno non era a carattere islamico, anzi: i nostri combattenti credevano nei valori occidentali: la libertà, la democrazia. Ma poi si sono sentiti traditi dall'Occidente e quindi si sono progressivamente radicalizzati, abbracciando l'islam jihadista. Vi garantisco che starsene nei rifugi, sotto i bombardamenti aerei russi, mentre le radio dice che Putin viene accolto da tutti i governanti occidentali come un campione di democrazia, genera una grande disillusione.
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IRAN, CANDIDATO ALLE ELEZIONI PROMETTE STIPENDI ALLE CASALINGHE


I candidati iraniani alle prossime elezioni presidenziali cercano di conquistare il voto delle donne.

Rilanciare l'occupazione femminile, stipendi per le casalinghe oppure favorire l'inserimento delle donne nella politica. Sono alcune delle proposte dei candidati iraniani alle elezioni presidenziali il prossimo 12 giugno.

Tra le promesse più innovative c'è quella del candidato conservatore, Mohsen Rezaei, ex generale dei Guardiani della Rivoluzione che ha assicurato che "non solo farò ricoprire alle donne ruoli chiave nel mio esecutivo ma ne valorizzerò le capacità di management e metterò in regola il lavoro delle casalinghe, pagando loro uno stipendio". L'annuncio di Rezai, critico con la politica del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, si unisce a quelli degli altri candidati come il riformista Mehdi Karroubi che ha annunciato un maggiore impegno contro la discriminazione alle donne. "La religione islamica riserva un gran rispetto alla donna e se, ad oggi, il sesso femminile ha dovuto soffrire discriminazione, però quello non deve essere attribuito all'Islam ma alle leggi tribali arabo-giudaiche che hanno influenzato, nel corso della storia, anche le leggi islamiche", ha assicurato Karroubi. Anche il moderato Mir Hossein Mousavi, ex primo ministro, ha parlato della necessità di garantire maggiori diritti alle donne. (Fonte: Peace Reporter).
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sabato 23 maggio 2009

IL PRIMO MATRIMONIO CON UNA RAGAZZA MAROCCHINA NEL 1987. NEL 2001 LE SECONDE NOZZE IN EGITTO. POI HA COSTRETTO LE DONNE A VIVERE INSIEME

Najat e Yamna, le due mogli. Poligamia e violenza a Roma
Il marito, egiziano, è sparito con due dei sei figli.


Questo è un articolo del 2006, quando Magdi Allam era ancora vice direttore del "Corriere della Sera". L' argomento purtroppo sempre attuale.

La prima moglie si è rivolta a un centro anti- violenze per denunciare le gravi lesioni fisiche subite in parti vitali del proprio corpo e poi il sequestro dei due figli minori. La seconda moglie è fuggita con i suoi due figli e si è rifugiata in un centro di accoglienza per donne in difficoltà. Lui è egiziano, loro sono marocchine, in tutto sei figli, nati in Italia. Una tragica storia di poligamia, violenza, miseria e disperazione. Succede a Roma. Ma sono numerosi i casi simili nel nostro Paese. Proprio mentre il Parlamento si appresta a varare una legge sulla libertà religiosa che di fatto legittima il matrimonio islamico. Najat Hadi aveva 26 anni quando nel 1987 venne a Roma per turismo: «Mi ero concessa una vacanza. Da dieci anni lavoravo come governante all'Hotel Sahara di Agadir, un albergo a 5 stelle. Economicamente stavo bene. Ci siamo conosciuti a un bar. Lui mi ha fatto la corte e mi ha detto che insieme avremmo fatto una bella vita. Abdel Ati Ali Keshk, più grande di quattro anni, diplomato in ragioneria, faceva il pizzaiolo. Gli ho creduto e ci siamo sposati». Il matrimonio si celebrò nella moschea di via Bertoloni gestita all'epoca dall'imam egiziano Ismail Nur El-Din: «L'imam aveva provveduto ai due testimoni, suo figlio e un suo amico. Poi ci recammo all'ambasciata egiziana e, sempre alla presenza di due testimoni, il matrimonio fu lì registrato.
Poi il certificato fu tradotto in italiano e fatto registrare all'Anagrafe di Roma». All'inizio il sodalizio funzionava abbastanza bene: «Ma presto insorsero dei problemi. Non voleva assolutamente che io potessi rendermi autonoma guadagnando dei soldi. Si divertiva, perfino con i nostri bambini, a farsi implorare perché ci desse i soldi. Quando li concedeva, era come se ci facesse l'elemosina. In 19 anni sono andata una sola volta a trovare i miei familiari in Marocco. Mio padre è morto sei anni fa e lui non mi ha permesso di partecipare ai funerali». Che si trattasse di un pretesto è evidente dal fatto che i soldi per andare in Egitto li trovava sempre: «Lui è di Damanhur, vicino ad Alessandria. Ci siamo andati spesso. Vi ho pure soggiornato per anni. La mia primogenita Fatema vi ha fatto le elementari. Lui insisteva perché stessi il più a lungo possibile in Egitto. Diceva che in tal modo i figli, tutti nati in Italia tranne Mariam, sarebbero cresciuti secondo i precetti della religione islamica e la consuetudine della società araba. Di fatto ci aveva segregato in Egitto, nell'appartamento dei suoi genitori, mentre lui viveva stabilmente in Italia». Non trascorse molto prima che Abdel Ati mostrasse il suo volto violento: «Bastava un nulla perché lui mi picchiasse con una ferocia illimitata. Mi ha ripetutamente preso a calci e a pugni, mi ha sbattuto la testa per terra, mi ha colpito con tale accanimento da perforarmi l'orecchio. La prima volta che fui ricoverata al Pronto Soccorso avevo una ferita alla testa e gli occhi insanguinati. Mi ha abbandonata lì da sola. Mi hanno messo dieci punti in testa. Poi mi ha costretta a ritirare la denuncia, minacciando di portarmi via i bambini. E una volta dimessa fui indotta a sottomettermi alla sua volontà, tornai in Egitto e ci rimasi per sei mesi. Fu al ritorno a Roma che scoprii la ragione di tanta insistenza e violenza: l'ho trovato insieme a una prostituta polacca. I miei vicini mi dissero che aveva trasformato la casa in un bordello. Lui non si scompose: "Visto che non c'eri, avevo bisogno di altre donne". Eppure sono stata costretta a perdonarlo per poter far rientrare dall'Egitto i miei figli». Poi c'è stata una sorta di redenzione: «Nel 1995 mio marito andò in pellegrinaggio alla Mecca. Mi disse che voleva cambiare vita. Cominciò a pregare. Io gli credetti. Intanto era nata Mariam, a cinque anni di distanza da Mouhamed. Nel 1999 nacque il quarto figlio, Abdel Rahman. In Egitto ordinò al padre di requisire tutti i nostri passaporti.
Quando mi ribellai, suo padre e sua sorella mi picchiarono. Fu lì che mio marito mi lacerò i seni con un bastone appuntito». L'illusione svanì definitivamente nel 2001: «Quell'anno sposò Yamna Oukhira, aveva 35 anni, era anche lei marocchina. Lo scoprii tornando dall'Egitto. Lui l'aveva portata a casa nostra mentendo a entrambe. Io le dissi: "Che ci fai a casa mia?". Lei con fare sicuro: "Io sono sua moglie". Ribattei: "Ma lo sai che ha già 4 figli?". Lei sgomenta: "No". Le ordinai: "Tu devi andare via da questa casa. Non c'è spazio. C'è una sola camera dove dormo io con i quattro figli. Se siete sposati secondo il rito islamico, allora deve trovarti un'altra casa". Finii all'Ospedale Gemelli per un esaurimento nervoso: sono stata troppo male, avevo la febbre e ho tremato in continuazione per venti giorni. Ma anche stavolta l'ho perdonato per i miei figli. Alla fine Yamna è scappata con i due figli avuti con Abdel Ati, Ahmed e Zeinab. Ha trovato rifugio in una Casa di accoglienza per donne vittime di violenza familiare». Lo scorso 26 settembre, mentre Najat e i figli si trovavano nella moschea Al Houda di Centocelle per consumare il pasto offerto in occasione del Ramadan, il marito arrivò e si portò via i figli minori, Mariam e Abdel Rahman: «Sono disperata. Non riesco più a dormire. Vi supplico, aiutatemi a riaverli». Sembra che Abdel Ati sia fuggito in Egitto, forse insieme ai figli. Del caso si sta occupando l'Acmid- Donna, l'Associazione delle donne marocchine in Italia, la cui presidentessa Souad Sbai ha promosso un'azione legale a sostegno di Najat. Ma il problema della poligamia non si esaurisce in singoli casi umani ancorché drammatici. Si tratta di una minaccia seria all'istituto della famiglia monogamica su cui si regge la civiltà occidentale. E che paradossalmente trova conforto nella proposta di legge all'esame del Parlamento, denominata «Norme sulla libertà religiosa e abolizione della legislazione sui culti ammessi», il cui articolo 11 afferma che il ministro di culto islamico non sarà tenuto a pronunciare, durante il rito in moschea, gli articoli del codice civile sulla parità di diritti e doveri tra marito e moglie (143, 144 e 147 del codice civile), «qualora la confessione abbia optato per la lettura al momento della pubblicazione». Così come sorprende il fatto che interi passaggi dell'articolo 11 corrispondano a quelli contenuti nella bozza d'Intesa con lo Stato redatta dall'Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), in cui si chiede la legittimazione della poligamia che, non a caso, caratterizza lo status familiare di diversi dirigenti dell'Ucoii. Allora, ministro delle Pari Opportunità Barbara Pollastrini, diamo una mano a Najat perché riabbia i figli sequestrati dal padre, ma occupiamoci tutti insieme della minaccia insita nell'istituto della poligamia che insidia la nostra civiltà. (Fonte: Corsera, 27 novembre 2006 ) Leggi tutto ...

MATRIMONIO DELLE BAMBINE IN YEMEN: INTERVISTA CON DUE SPOSE-BAMBINE CHE SI SONO RIVOLTE AL TRIBUNALE PER CHIEDERE IL DIVORZIO

Una è Nujoud, della quale hanno parlato tanto anche i nostri media, dato che è stata la prima sposa-bambina a chiedere il divorzio. Un video che considero imperdibile, anche per la determinazione con cui le piccole spiegano la loro storia alla BBC in arabo:

http://www.memritv.org/clip/en/2107.htm .
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venerdì 22 maggio 2009

AFGHANISTAN, NESSUNO ROMPE IL CERCHIO. L' "INFAMIA" D'ESSERE DONNE IN UN PAESE SENZA MADRI

Un centinaio di bambine rantolanti, alcune vomitano, altre svengono, tutte finiscono all’ospedale. Sono le scolare afghane di una scuola elementare, avvelenate ieri in massa con un gas, come già era avvenuto più volte nelle ultime settimane in altre scuole femminili della regione a nord di Kabul. La loro colpa? Istruirsi, e prima ancora essere donne. Se la caveranno: in fondo non è la fine del mondo (c’è di peggio in un Paese in cui madri, mogli e figlie valgono meno di una capra, e le bambine, date in sposa a vecchi poligami, se si ribellano finiscono in carcere), ma chissà se oseranno mai più sfidare l’ottusa 'legge' dei taleban, se avranno il coraggio di tornare in una scuola? Non lo hanno avuto un anno fa le loro compagne di Kandahar, alle quali gli estremisti sciolsero per la stessa colpa il volto nell’acido, cancellando in un solo gesto velleità di futuro e identità. Altre vittime, stesso sesso e stessa età: hanno dieci, undici anni le migliaia di bambine afghane fotografate nel giorno del loro matrimonio, vendute da un padre a uno sposo spesso più vecchio di lui (basta navigare in Internet, tra siti di ong e della stampa internazionale, per vederne a centinaia). Volti cancellati e sguardi persi anche i loro, senza bisogno dell’acido. Roshan ha 10 anni e posa al fianco di Mohammed Said, 65, turbante e barba bianca. Ghulan ne ha 11 e aveva scelto di fare l’insegnante, invece sposa Faiz Mohammed, 40 mal portati e viso duro. Majabin, 13 anni, fa male al cuore: ceduta dal padre per sanare un debito di gioco, lei è sposata da sei mesi, quarta moglie di Fazal Mohammed, e sa già molto bene che cosa avviene quando il rito termina e quel marito ti porta a casa. È il ritratto della rassegnazione... . (Fonte: "Avvenire", 13/5)

E poi Musulmani indonesiani: il “virus” Facebook è amorale .
Tutto questo si conosceva da tempo, e d’altra parte non accade solo in Afghanistan, anche se forse in nessuna regione del mondo si assiste alla recrudescenza di un fanatismo misogino che, per fermare il progresso nel Paese (vietati anche il cinema o la musica!), sa bene di dover innanzitutto annientare le donne. Nessuna sorpresa, insomma, ma l’assoluta incapacità di comprendere, sì. Anche questi uomini hanno avuto una madre: non l’hanno amata? Prima che una educazione retriva li indurisse, non avevano anche loro sentito il profumo materno quando, come ogni bambino al mondo, si rifugiavano nel morbido abbraccio e lì trovavano sicurezza? Anche questi giovani sapranno cos’è l’innamoramento, almeno qualcuno di loro deve averlo provato, il suo cuore avrà pure battuto per una ragazza: come può nel contempo disprezzarla perché donna? Ma soprattutto i padri: ammettiamo pure che nella cultura taleban la nascita di una figlia femmina sia una disgrazia (anche questa non è un’eccezione, nel mondo), ma è immaginabile che all’atto pratico, nel momento in cui quell’esserino viene al mondo, mai uno solo di loro provi la scintilla dell’amore paterno? Quando poi quella figlia che ha i suoi stessi tratti del volto, che porta il suo stesso sangue, è ceduta all’abbraccio arrogante di un vecchio pretendente, non sente il rimorso? Eppure sa bene a cosa andrà incontro (e lo sa perché presumibilmente a sua volta ha piegato una sposa bambina ai suoi bisogni). È questo il mistero inconcepibile: al di là di ogni cultura e costume, è innaturale che mai un sentimento banalmente umano prenda il sopravvento e cancelli la follia. Stephanie Sinclair, la fotografa che nel 2007 vinse con lo scatto alla piccola Ghulan il premio Unicef per la miglior foto, chiese alla sposa «che cosa provi oggi?». «Nulla», rispose la bambina, e c’è da sperare che abbia continuato a farlo, che sia riuscita a cauterizzare il cuore e anestetizzare i sentimenti: in Afghanistan le spose bambine che si danno fuoco per sfuggire alle sevizie sono centinaia. Del fenomeno si occupa talvolta una (distratta) commissione governativa. Poi tutto continua come prima.
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LA VITA QUOTIDIANA E I SOGNI DI UNA RAGAZZA TURCA COL VELO

Tulay è una ragazza di Istanbul. Vive nella parte orientale della città e ogni mattina attraversa il ponte sul Bosforo per raggiungere l’Hotel sulla riva europea dove lavora alla Concierge. Il rito è sempre lo stesso: lei si avvolge il foulard attorno alla testa perché è meglio così, niente trucco e soprabito lungo fino alla caviglia. La trasformazione occidentale avverrà poi nei servizi dell’albergo dove con cura Tulay indossa il tailleur d’ordinanza, si mette un fondo di make-up, un bel rossetto, un leggero ritocco agli occhi, un po’di gel nei capelli corti che la rendono trendy. Sfoderando un perfetto inglese e altrettanto perfetto sorriso si occupa del check-in e check-out dei clienti. Questa è la sua mansione da quando ha finito l’università 4 anni fa. Proprio allora molte ragazze, prima occidentalizzate, hanno ricominciato a vestirsi all’uso dell’Islam non si sa bene perché, ma era nell’aria.
Dietro il bancone la ragazza ha imparato il rispetto che esercita quotidianamente verso le persone di modi ed educazioni disparate. Tulay è molto fiera della sua posizione sociale come pure la sua famiglia che, venuta dall’Anatolia profonda 30 anni fa, spesso le ricorda i tempi durissimi di quella esistenza di misera pastorizia. Ora che suo padre, operaio tessile, ha perso il lavoro insieme con altri 160.000 colleghi nel giro di pochi mesi, il suo stipendio è fondamentale per il sostentamento di tutti: una madre casalinga, una sorella minore che ancora studia, un fratello guida turistica. Le rimangono pochi soldi per i piccoli piaceri: una cena al mese con le amiche nei ristorantini del Corno D’Oro fra turisti americani ammaliati dalla magia dei tramonti e del sorgere della luna che inonda di luce dorata moschee e minareti. Va bene così.
Il tasso di disoccupazione è cresciuto nella città di Istanbul fino al 18% e avere un lavoro è già stare bene. Qualche volta accompagna il fratello a pesca sul Bosforo: un sano divertimento, non costa niente e capita di portare a casa un bel pesce. Ormai da 10 anni alloggia in una casa popolare di tutto decoro in uno dei tanti quartieri in cui sorgono accanto a grattacieli e a vecchie dimore restaurate per ricchi.
Quindici milioni di abitanti dell’antica Istanbul, capitale dell’Impero Romano d’Oriente e poi dell’Impero Ottomano espanso, intorno al 1400, fino a Vienna. Tulay è fiera delle vestigia storiche della sua città. Sono lontani i ricordi delle bidonvilles maleodoranti, attigue alle concerie a cielo aperto, che l’avevano accolta al tempo dell’infanzia. A scuola aveva fatto indagini storiche e sociologiche sul popolo turco concentrato nella megalopoli, ma non contemplavano gli ultimi 20 anni di evoluzione vissuti da lei; la realtà era lì da toccare talmente evidente nella sua veloce e costante trasformazione innescata sia dall’economia di mercato, sia dalle 10 famiglie che possiedono e governano la maggior parte delle risorse del Paese, sia dai massicci investimenti statali e municipali in infrastrutture. (Fonte: "Libero News")
Tutto ciò ha creato nel giro degli ultimi 10 anni 2 milioni di veri ricchi, una classe media che se la cava bene e una classe popolare che fa fatica soprattutto adesso con la crisi.
Tulay si era permessa l’anno scorso un viaggio a Roma e percorrendo la strada dell’aeroporto, aveva lungamente osservato attraccate ai moli le gigantesche navi-alberghi a 10 piani pullulanti di turisti americani. Più lontano alla fonda nel mare di Marmara invece scorgeva gli enormi pachidermi galleggianti, solitarie petroliere rosse scrostate in attesa di lasciapassare per il Mar Nero dove caricare petrolio e gas. Due mondi diversi: sbandieramento di allegro lusso da una parte e silenzio quasi triste dall’altro. Come la vita di lei quando dall’euforia dell’Hotel sempre in attività si passa ai silenzi delle sere sul Bosforo rotte solo dalle preghiere nei minareti, o quando la ragazza si permette un po’ di shopping in saldo negli eleganti centri commerciali o entra negli affollati e rumorosi bazar delle spezie in compagnia di madre, zie e cugine. Mondi contrastanti che ritrova nel suo scrittore preferito, Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, e che le scorrono davanti quotidianamente quando al banco dell’Hotel serve i clienti turchi e arabi eleganti e taciturni e subito dopo, americani grassi e allegri i quali pretenderanno le camere con vista Bosforo anche se sono già occupate. I turisti occidentali fanno pensare Tulay all’Europa. Ma un pizzico d’orgoglio nazionale le suggerisce che ce la si può fare da soli.
Sono sempre due le anime che influiscono sulla mente della giovane: l’anima dell’Occidente e l’anima della tradizione religiosa mai sepolta fra le cose del passato.
È anche per questo che lei prega 3 volte al giorno e si adegua scrupolosamente al Ramadan da buona musulmana. Oltre ai cavi d’acciaio che sostengono il ponte tra due continenti e due civiltà, c’è anche lei Tulay con le sue esili braccia a stendere il ponte del futuro tra due popoli dissimili ma ugualmente rispettosi l’uno dell’altro.
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giovedì 21 maggio 2009

INTERVISTA A GIHAN SADAT SU MEMRI (LINK)


Purtroppo non sono riuscita a caricare questa video-intervista a Gihan Sadat (foto un po' datata), vedova del Presidente Anwar Sadat e "former first lady" egiziana. Ci sono dichiarazioni che sinceramente non condivido, che mi sembrano una pia illusione, perchè si dice convinta che anche tra i Fratelli Musulmani, di cui aveva fatto parte pure il marito e in cui lei stessa aveva creduto in gioventù, esistano "moderati"; "moderati" che accetteranno il regime. Però dice che, se suo marito non avessere fatto la pace con Israele a Camp David, l'Egitto avrebbe potuto fare la fine di Gaza i mesi scorsi. E dichiara se non altro che gli arabi, ovviamente palestinesi inclusi, non hanno capito che converrebbe loro fare lo stesso :
http://www.memritv.org/clip/en/2115.htm .

Spostandoci invece in Iran:

madre di 56 anni condannata a 5 anni di carcere Leggi ancora... .

3 anni di carcere per aver fatto visita alla sorella residente a Camp Ashraf: Leggi ancora... . Leggi tutto ...

"VIA LA CITTADINANZA AGLI EGIZIANI SPOSATI CON ISRAELIANE"

Esulta l'opposizione egiziana e così anche gli islamici mentre il governo del Cairo si trova in forte imbarazzo. All'origine di questi contrastanti stati d'animo c'è una sentenza del tribunale amministrativo di stato che obbliga il governo a togliere la cittadinanza agli egiziani sposati con donne israeliane. «Grave danno per la sicurezza dello stato nel senso più alto del termine», è la motivazione del tribunale firmata dal Consigliere Mohammed Attiyah, vice presidente del Consiglio di stato egiziano.«Storica sentenza», gridano gli islamici ispirandosi al titolo del quotidiano palestinese al Quds al Arabi, che riporta le dichiarazioni di esponenti dei Fratelli Musulmani e di "Kifaya" (Basta), il movimento laico che si oppone al rais, Hosni Mubarak.«La cittadinanza egiziana è un aggettivo prezioso ed è un onore che si concede alla persona il diritto alla cittadinanza che obbliga totale lealtà alla Patria, si legge nella motivazione del Tribunale ha ha accolto il ricorso dell'avvocato Nabih al Wahish. (Fonte: Liberali per Israele )

Jordanian Human Rights Activists, Lebanese TV Channel, Praise Ahmad Daqamsa, Murderer of Seven Israeli Girls, and Call for His Release: http://www.memritv.org/clip/en/2120.htm .
Il legale con un esposto aveva chiesto di «porre fine al fenomeno dell'emigrazione di molti egiziani in Israele, che, sposandosi con cittadine israeliane avranno successivamente dei figli che crescendo si arruolano nell'esercito dello stato ebraico rappresentando di fatto una minaccia alla Patria». In Israele, i figli delle donne ebree diventano cittadini israeliani.Imbarazzo nel governo del Cairo che è molto impegnato come principale mediatore delle trattative di pace tra palestinesi e israeliani. Con un trafiletto di tre righe, Al Ahram, quotidiano semi-ufficiale del paese arabo titola: «Il Tribunale obbliga il ministro degli Interni di far cadere la cittadinanza agli egiziani che hanno contratto matrimonio con israeliane». Al Quds al Arabi, sostiene che gli egiziani che rischiano di perdere la cittadinanza originaria sarebbero oltre 30mila persone. La legge egiziana non ammette la doppia cittadinanza che invece è permessa in Israele.
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FECE UCCIDERE POP STAR: IMPICCATO


Condannato a morte, insieme al killer che aveva assoldato, l'imprenditore e parlamentare egiziano Hisham Talaat Mustafa che pagò 2 milioni di dollari per l'uccisione della cantante libanese Tamim (foto), avvenuta a Dubai il 28 luglio 2008. (Fonte: Libero News)
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CONVERTITI

Noi musulmani dunque non vedo perché non dovremmo cercare delle scappatoie per poter praticare in pace la poliginia, e conosco fratelli che lo fanno serenamente e senza avere alcun problema di diritti delle loro seconde, terze e quarte mogli, perché semplicemente le sposano in paesi islamici e poi le portano in Italia. Dunque se ho capito bene loro sono legalmente poligami anche davanti allo Stato italiano! qui (Fonte: Unpoliticallycorrect )
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mercoledì 20 maggio 2009

ANCORA DUE CASI DI VIOLENZA SU DONNE ITALIANE DA PARTE DI UOMINI ARABI E MUSULMANI

18:00 Varese: picchia e cerca di stuprare ex moglie. Arrestato

MILANO - L'ha picchiata con una mazza e poi ha tentato di violentarla dopo averle stracciato i vestiti. Un 29enne tunisino e' stato arrestato a Busto Arsizio con l'accusa di sequestro di persona, tentata violenza sessuale aggravata e lesioni personali aggravate nei confronti dell'ex moglie, una sua coetanea italiana. L'uomo l'aveva intercettata a Legnano, dove lei era andata a vivere con i due figli dopo averlo lasciato, l'ha fatta salire in macchina e l'ha chiusa in casa sua. La donna e' riuscita a sfuggirgli e a rifugiarsi in casa di un vicino, da dove ha chiamato la polizia. (Agr)

19:40 Lecco: picchia donna incinta, arrestato.

LECCO - L'hanno trovata stesa a terra in casa sua. A Lecco una donna italiana di 35 anni al sesto mese di gravidanza e' stata picchiata da un uomo di origini marocchine. Lui l'avrebbe aggredita per le resistenze di lei a vivere secondo i precetti musulmani. A trovare la 35enne un vicino di casa che aveva sentito le grida: l'uomo e' stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, mentre la vittima e' ancora ricoverata in ospedale dove attende i risultati degli esami sulle condizioni del feto. (Agr)

Grazie a Stefania per questa segnalazione.

Purtroppo ancora brutte notizie... . Leggi tutto ...

martedì 19 maggio 2009

TENTA DI STRANGOLARE LA MOGLIE: ARRESTATO

DOMENICA, IN VIA PANFILO CASTALDI.

«Voleva portare i figli al parco». Arrestato operaio egiziano. Frequenti i litigi tra l'uomo e la donna, incinta.

MILANO - Ha tentato di strangolarla, stringendole un foulard attorno al collo per trascinarla lontano dalla finestra verso la quale era corsa per chiedere aiuto. Ma le sue «strazianti grida d'aiuto» e il pianto delle due bimbe di tre e due anni è stato udito dai condomini che hanno chiamato la polizia ed evitato il peggio. I litigi tra Mohammed M., 31 anni, un operaio egiziano regolare, incensurato, e sua moglie, una marocchina di 34 anni, erano frequenti. Ieri il motivo che ha scatenato l'ira è stata la decisione della donna di portare le bimbe ai giardinetti nonostante l'opposizione del marito. Quando gli agenti di polizia sono entrati nel monolocale all'ultimo piano di una palazzina in via Panfilo Castaldi, dove la famiglia vive, hanno trovato cocci di bottiglia rotti, la porta socchiusa, la serratura infranta, la casa a soqquadro e la donna, sotto choc a terra in lacrime, con vicino le figlie che piangevano e cercavano protezione. E ripetevano: «Papà cattivo». La donna, al quarto mese di gravidanza, presentava evidenti segni rosso-violacei sul collo e uno zigomo gonfio. Alla vista degli agenti, l'uomo, che era ancora vicino alla moglie, ha fatto un balzo indietro e si è seduto sul divano, facendo finta di essere sempre stato seduto. Ma la sua messinscena non ha convinto gli agenti che l'hanno arrestato e portato a San Vittore con l'accusa di tentato omicidio e maltattamenti in famiglia. La donna è stata medicata per contusioni multiple al San Raffaele e dimessa con una prognosi di 5 giorni. Agli agenti, ha raccontato che non era la prima volta che veniva picchiata ma non aveva mai denunciato nulla perchè l'uomo l'ha minacciata più volte di portare i figli in Egitto e di ucciderla. (Fonte: "Corsera")
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lunedì 18 maggio 2009

KUWAIT: ELETTE LE PRIME 4 PARLAMENTARI


Le donne avevano ottenuto il diritto di voto e di candidarsi solo nel 2005.
Per la prima volta da quando esiste l'Assemblea nazionale vi accedono 4 candidate di sesso femminile.

KUWAIT (CITY) - Giornata storica per il Kuwait, dove quattro donne sono state elette per la prima volta in Parlamento, la Majlis al-Umma (assemblea nazionale unicamerale). Le donne avevano ottenuto il diritto di voto e di candidarsi nel 2005, ma sia nelle elezioni del 2006 che in quelle del 2008 non era mai accaduto che una donna fosse eletta. Questa volta l’esercito velato si è dato da fare. Le donne erano il 57% sul totale degli aventi diritto al voto, 16 candidate per conquistare almeno un seggi. Nella precedente consultazione solo il 30% delle aventi diritto era andato alle urne e sul fallimento elettorale era pesata la tradizione tribale di negare la preferenza a qualsiasi candidata donna.
LA SITUAZIONE - Nell’emirato conservatore, fra le rarissime democrazie del Golfo, il Parlamento conta 50 seggi, il trono è ereditario e il sovrano nomina il primo ministro. Sempre l’Emiro decide quando sciogliere la Camera. I risultati ufficiali delle consultazioni di sabato sono stati annunciati oggi dalla magistratura ai microfoni della tv di Stato. Il Kuwait guida la regione nella lunga marcia della conquista per i diritti politici del popolo. Diversi osservatori, però, sostengono che la stabilità e l’economia abbiano molto risentito di un ruolo eccessivamente forte del parlamento, che l’ha portato a frequenti scontri con i ministeri del governo che sono ancora selezionati e governati dalla famiglia reale. Il voto di sabato è risultato da uno di questi conflitti, che ha portato l’emiro a sciogliere il parlamento e convocare le elezioni, per la seconda volta in un anno.
CRISI POLITICHE - Una delle elette, Massouma al-Mubarak, era stata anche la prima ministra donna del governo nel 2005. Le altre sono l’attività per i diritti delle donne Rola Dashti, l’insegnante di pedagogia Salwa al-Jassar e la professoressa di filosofia Aseel Al-Awadhi (Nell'ordine, a partire dall'alto. Aseel Al-Awadhi, qui che riceve fiori e congratulazioni dai suoi sostenitori, è stata criticata dagli estremisti perchè non porta l'hijab, ndr). Entrambe candidate liberali, Awadhi e Dashti hanno in comune anche un passato di studi negli States. Dal voto di ieri è emersa anche un’importante perdita di consenso dei fondamentalisti musulmani, che sono passati da 24 seggi ai 16 attuali. Il Kuwait non riconosce ufficialmente i partiti. I candidati possono essere indipendenti, appartenere a gruppi o rappresentare semplicemente le loro tribù. I kuwaitiani alle urne hanno detto di essere stanchi delle contese fra deputati e membri dell’esecutivo, che hanno portato a tre elezioni e addirittura cinque governi in tre anni. Le crisi politiche hanno di fatto congelato lo sviluppo nel ricchissimo paese petrolifero in un momento in cui si trova ad affrontare la pesante congiuntura economica globale e sono crollati i proventi delle vendite dell’oro nero, che rappresentano il 90% delle entrate del Paese arabo. Fonte: Corsera)

Ma anche l'anno scorso c'erano due ministri donne... Il ministro dell’educazione, Nouriya Al-Subeeh e quello per lo sviluppo amministrativo Mudhi al-Humoud, delle quali avevo parlato anch'io: IL CORAGGIO DI UNA DONNA: SENZA VELO IN PARLAMENTO e NON INDOSSANO IL VELO, DUE DONNE MINISTRO KUWAITIANE RISCHIANO DI ESSERE "DIMESSE" .

Delle neo-elette avevo parlato anche nel post: ELEZIONI IN KUWAIT, LE DONNE NON CE LA FANNO, MA NON DEMORDONO .

Iran: ladra confessa sei omicidi. Vittime donne di mezza età strangolate negli ultimi due mesi.
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TURCHIA: PUNITA PER ADULTERIO, MOZZATI NASO E ORECCHIE

ANKARA - Ancora un "delitto d'onore" in Turchia, ma stavolta di un'efferatezza senza precedenti, tanto che il Paese, pur abituato a questo cruento fenomeno, è sotto shock: una donna di 23 anni è stata mutilata del naso e delle orecchie, accoltellata all'addome e abbandonata in un campo a morire dissanguata per "lavare l'onore" della famiglia che la sospettava di avere una relazione extraconiugale. Ne ha dato notizia oggi, sdegnata, la stampa turca riferendo che teatro della raccapricciante vicenda è un villaggio nella provincia di Agri, una regione a grande maggioranza curda nella Turchia orientale alla frontiera con l'Iran e l'Armenia. La giovane, di cui sono state rese note solo le iniziali, Y.A., è stata trovata in fin di vita e ricoverata in ospedale, dove versa in gravi condizioni. La polizia ha sinora fermato otto persone ritenute responsabili delle atroci torture inflitte alla donna e della sua tentata uccisione. Secondo la stampa si tratterebbe di membri della famiglia del marito della donna, che risulta irreperibile ed è ricercato. La questione dei delitti d'onore è stata sollevata dall'Ue, che ha sollecitato la Turchia a impegnarsi per debellare questa piaga sociale in vista della sua adesione al blocco europeo. Il governo di Ankara ha in effetti inasprito le pene per i responsabili di questo genere di crimine. Ha eliminando allo stesso tempo la possibilità di riconoscere, come avveniva in passato, l'attenuante della "grave provocazione" e ha equiparato la responsabilità dei mandanti a quella degli esecutori materiali, visto che le famiglie erano solite affidare il compito di uccidere a membri minorenni (non imputabili) del clan familiare, in modo da lasciare il delitto impunito. Inoltre negli ultimi tempi il governo e le associazioni per i diritti umani hanno intensificato gli sforzi nella lotta al fenomeno, anche istituendo "squadre speciali" formate da esperti nel campo sociale e familiare, insegnanti, infermiere e religiosi che operano nelle aree a maggiore rischio. (Fonte: http://temporeale.libero.it/libero/fdg/2862648.html )

E sempre in Turchia: Barbie vietata nelle scuole turche Gazzetta di Parma .

Ma da noi: una "femminista" intervista e ATTACCA Souad Sbai:

http://www.souadsbai.com/souadfaccia.mp3 .
In non pochi casi è avvenuto che donne sono state uccise soltanto perché "colpevoli" di aver rivolto la parola a un estraneo, per aver richiesto la trasmissione di una canzone alla radio o, peggio, per essere state violentate. Tuttavia, a detta di molti esperti, la pratica dei delitti d'onore in Turchia è particolarmente persistente anche per la sovrapposizione di usi tribali con interpretazioni antifemminili della lettera di alcune prescrizioni del Corano da parte degli imam di campagna. Di fatto però i delitti d'onore non sono tollerati solo nel sud-est rurale del Paese a maggioranza curda, dove si registrano con maggiore frequenza, ma anche tra le fasce della popolazione meno abbiente e meno istruita di Istanbul dove, stando a un rapporto presentato venerdì nella metropoli turca da John Austin, membro britannico dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, almeno una persona a settimana è vittima di un delitto d'onore. In tutta la Turchia nel quinquennio 2003- 2007 i morti per questo crimine sono stati oltre 1.100.
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SEGREGA E PICCHIA MOGLIE INCINTA

L'uomo e' stato arrestato dai Carabinieri a Vobarno.

(ANSA)- BRESCIA, 18 MAG - Segregata in casa per mesi, picchiata, una donna pachistana incinta e' riuscita a fuggire e a rivolgersi ai Carabinieri a Vobarno (Brescia). Il marito e' stato arrestato. La donna era arrivata nei mesi scorsi per ricongiungersi al coniuge, ma da quando ha messo piede in casa le e' stato impedito d'uscire e requisito il cellulare. Solo sabato scorso l'immigrata, approfittando del figlio del marito che rincasava da scuola, e' riuscita a fuggire mentre il ragazzo apriva il portone. (Fonte: http://temporeale.libero.it/libero/news/2009-05-18_118375958.html )
E nel Paese dei protagonisti di questa vicenda: Ma le donne no .
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domenica 17 maggio 2009

MAURITANIA: LE VITTIME DI STUPRO FINISCONO... IN PRIGIONE !

L'organizzazione WLMUL (Women living Under Muslim Laws, cioé (donne sotto la legge musulmana) denuncia le ingiustizie di cui sono vittime le donne in terra d'islam. I diritti delle donne sono regolarmente beffati in Mauritania, dove l'islam, religione ufficiale, è praticata dal 99% della popolazione.



Le donne mauritane che denunciano un'aggressione sessuale si espongono al rischio di essere imprigionate a causa delle leggi mal definite e di un fenomeno di stigmatizzazione, che attribuisce alle vittime la responsabilità del crimine.
Lo stupro resta un argomento tabù in Mauritania, a tal punto che non è affrontato nella legge e che la parola non appare in alcun documento governativo, secondo l'Associazione mauritaniana per la salute della madre e del bambino, un'organizzazione non governativa (ONG) con sede a Nouakchott, la capitale. "Il problema, per discriminare la vittima, è che, la legge non definisce lo stupro. Come punire gli aggressori se il crimine stesso non è stato chiarito? ''si interroga Bilal Ould Dick, consulente giuridico dell'associazione.
Per fare riferimento alle violenze sessuali nei loro documenti ufficiali, il ministero della sanità usa il termine "ferite'', ed il ministero degli affari sociali, dell'infanzia e della famiglia, quello di "violenze domestiche'', secondo Zeinebou Mint Taleb, presidente dell'associazione.

Onore

Aminetou (un pseudonimo), 22 anni, ha spiegato a IRIN che la polizia l' aveva accusata di non avere alcun onore dopo avere denunciato loro che era stata violentata, una notte, in casa sua, da uno sconosciuto. " I poliziotti mi hanno detto che se io (non fossi stata consentente) a dare (la mia verginità), non avrebbero potuto prenderla da soli''. A 22 anni, ha perso il suo onore, ha smesso di seguire il suo programma di studio d'informatica, e non può più sposarsi perché ha tentato di sporgere denuncia, dice.
"Nessuno mi vuole più. Nella mia comunità, pensano semplicemente che mi piaccia il sesso e che per avere peccato così, io meriti di perdere tutto'', ha dichiarato.

Crimine sessuale

Secondo il dott. Dick, solo due articoli di legge proibiscono un atto sessuale: i rapporti sessuali fuori matrimonio. È per questo che, ha spiegato, un buon numero di vittime presunte di stupro sono accusate di avere infranto la legge. "La (donna) sarà accusata e punita anziché essere protetta dalla legge.''
La situazione è ancora più grave per le donne incinte, ha proseguito, essendo la gravidanza considerata come la "prova'' della loro colpevolezza. Sette donne sono state imprigionate nel 2009 per avere infranto la legge contro i rapporti sessuali fuori dal matrimonio, dopo avere tentato di denunciare i loro presunti aggressori, secondo l'Associazione mauritaniana per la salute della madre e del bambino.
Secondo la signora Taleb, presidente dell'ONG, quando degli uomini sono interrogati o incarcerati, sono rapidamente rilasciati "in mancanza di prove''. Matty Mint Doide del ministero degli affari sociali, dell'infanzia e della famiglia, ha spiegato a IRIN che il governo stava rivedendo il codice penale per definire e proibire lo stupro, e "applicare le convenzioni internazionali a riguardo (contro la violenza sessuale) ''. Fra le convenzioni contro le violenze sessuali e sessiste: la convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, e la convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
Mohamed Lemine Ould Dadde, commissario ai diritti dell'uomo, ha dichiarato a IRIN che il governo si era impegnato a difendere i diritti della donna. Ha negato che tentando di dare l'allarme alle autorità, le donne della Mauritania erano ingiustamente considerate colpevoli delle violenze sessuali che avevano subito, ed hanno spiegato che, come tutti i paesi, la Mauritania cercava di incoraggiare le vittime a sporgere denuncia .
Da 2003,430 casi di violenza sessuale sono stati denunciati in Mauritania, contro 28.000 casi di violenze domestiche, secondo il governo. Le vittime hanno fatto reclamo soltanto nel 20 per - cento dei casi, secondo il ministero degli affari sociali.
Eyer Chaim dell'Associazione mauritaniana per la salute della madre e del bambino, lavora al commissariato di polizia di Nouakchott, nell'ambito della cellula di lotta contro i crimini sui bambini; a suo parere, il numero di vittime reale è molto più importante rispetto a quanto mostrino i registri pubblici. "Ho conosciuto tante vittime che hanno rifiutato di dare l'allarme alla polizia o andare a farsi curare. Preferiscono soffrire in silenzio per nascondere la loro vergogna in una Comunità dove i pettegolezzi non mancano. ''
Nourra Mint Semane giornalista della regione, ha spiegato a IRIN che era difficile parlare di stupro, apertamente, in Mauritania. "I miei programmi radiofonici sono censurati quando parlo di storie di stupro. Per la società mauritaniana, lo stupro è una vergogna che deve essere sepolta e colei che si considera come prima criminale, è la vittima stessa. '' (Fonte: wluml, Scettico) Leggi tutto ...