lunedì 29 settembre 2008

KANDAHAR, UCCISA LA POLIZIOTTA DELLE DONNE, SIMBOLO DEL RISCATTO FEMMINILE IN AFGHANISTAN

Un gruppo di taliban ha fatto fuoco davanti a casa sua. Ferito gravemente un figlio. Dirigeva il Dipartimento per i reati sessuali nella terra del fondamentalismo religioso.

Presa di posizione dell'Unione europea: "Per tutte le afgane serviva da esempio".

PIANGIAMO E ONORIAMO MALALAI!

KANDAHAR - Era la prima donna divenuta poliziotto a Kandahar dopo la caduta dei taliban. Un'eroina nazionale, simbolo della rinascita femminile in Afghanistan. L'hanno uccisa stamane, davanti alla porta di casa. Stava andando a lavorare. E' rimasto ferito gravemente anche uno dei suoi figli. Malalai Kakar era la poliziotta più famosa del paese, un simbolo del riscatto femminile nella terra che fu culla del movimento fondamentalista religioso. Aveva rinunciato a portare il burqa due anni fa e i taliban l'avevano minacciata più volte. Con una telefonata all'agenzia di stampa France Press gli studenti integralisti hanno rivendicato il delitto: "Oggi - ha dichiarato un portavoce del gruppo - siamo riusciti ad eliminare un nostro bersaglio".
Contro i reati sessuali. Malalai non aveva mai chinato la testa: "Era una donna molto coraggiosa", dicono adesso i suoi colleghi. Dirigeva il Dipartimento reati contro le donne nella roccaforte dei taliban e sapeva di essere nel mirino dei fondamentalisti. "Girava sempre con la pistola - racconta un agente del suo Dipartimento - e sempre insieme a un uomo della sua famiglia". Anche la precedente responsabile del Dipartimento crimini contro le donne di Kandahar era stata uccisa due anni fa.
Quella volta che uccise tre killer. Stamane non le è servito essere armata. Le hanno sparato alla testa ed è morta sul colpo. Aveva quarant'anni ed era madre di sei figli. Suo padre e suo fratello erano poliziotti come lei. Nelle forze dell'ordine era entrata già alla fine degli anni Ottanta, ma poi l'ascesa dei taliban l'aveva costretta a fuggire in Pakistan. Era rientrata alla caduta del loro regime nel 2001 e aveva assunto il comando del Dipartimento con il grado di capitano. Scampata a numerosi tentativi di assassinio, la sua fama era dovuta a quella volta in cui uccise i tre killer che volevano ucciderla.
La condanna della Ue. "E' un omicidio ripugnante", ha detto Ettore Sequi, rappresentante speciale della Ue per l'Afghanistan. Associandosi al tono dei commenti espressi dalla presidenza di turno francese dell'Unione europea, Sequi ha giudicato "ripugnante l'uccisione di una donna che prestava servizio non solo al paese, ma a tutte le afgane per cui serviva da esempio".
"Ho liberato molte donne". In una recente intervista a una cronista occidentale, Malalai Kakar ammise che i "crimini alle donne sono reati su cui i miei colleghi maschi non vogliono investigare. Ricordo di quella volta che scoprii una donna e sua figlia incatenate al letto. La donna era vedova e i familiari l'avevano passata in moglie al cognato che però l'aveva legata al letto per dieci giorni a pane e acqua. Ho liberato molte donne dalla schiavitù dei loro uomini e questo mi è valsa una certa notaritetà tra le donne che mi amano e mi fanno sentire forte contro le minacce di morte".
Settecento agenti uccisi in 6 mesi. Da quando la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti li ha cacciati dal potere, i taliban hanno lanciato una vera e propria guerriglia mortale. Malgrado la presenza di 70mila soldati delle forze multinazionali, da due anni le violenze sono aumentate di intensità. Negli ultimi sei mesi i fondamentalisti hanno ucciso 720 agenti. Prima di Malalai Kakar, un'altra donna poliziotto è stata assassinata in Afghanistan nel giugno scorso. Anche allora, la polizia locale di Herat aveva accusato dell'omicidio i taliban. (Fonte: "Repubblica")
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domenica 28 settembre 2008

ISLAM/FIGLIA PREDICATORE FA LA BALLERINA NEI BAR DI LONDRA (SUN)


Bakri, chiamo' "magnifici 19" gli attentatori dell'11 settembre.

Roma, 26 set. (Apcom) - Si è fatta cambiare il nome da Yossra a Yasmin. Per ora fa la ballerina nei bar di Londra, ma la sua vera aspirazione è quella di diventare sbogliarellista. Nulla di strano se non fosse che Yasmin sia la figlia di Mohammed Omar Bakri, il noto predicatore islamico di origini siriane definito "l'ayatollah di Londra" perche dalla donne pretendeva che si coprissero "dalla testa al piede". Oggi il giornale britannico The Sun, pubblica le foto della figlia del predicatore che nel 2005 ha dovuto lasciare la Gran Bretagna e vive da tre anni a Tripoli nel Libano. "Non ho nessuna rapporto con mio padre e non sono mai stata d'accordo con il suo modo di vivere ne con le sue opinioni estremiste", afferma Yasmin, madre di un figlio di tre anni da un matrimonio finito male con un marito turco. (Fonte: Notizie Msn.com)
Il quotidiano di Londra, riporta la reazione incredule del padre che sembra non avere notizie della figlia da diversi anni: "Se fosse vero quello che mi dite, sarei profondamente scioccato". Tuttavia, l'uomo noto per le sue posizioni contro la "perversione" degli occidentali si mette da parte e afferma "Mia figlia è sposata ed è suo marito il responsabile di Lei" e aggiunge: "non sono io a doverla perdonare, ma è il padreterno che perdona tutto, ma non che abbia cambiato fede".
© APCOM
Bakri, non sa quindi che la bionda Yasmin, è invece divorziata dal marito turco con cui viveva in Turchia. Un suo amico racconta al Sun: "se suo padre vedesse quello che fa Yasmin, gli verrebbe subito un infarto". Fth
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ISLAM/FATWA SAUDITA: DONNE GUARDINO DA UN SOLO OCCHIO


Uomini impongano a moglie un niqab monofessura.

Roma, 26 set. (Apcom) - Sono troppi, davvero troppi i centimetri di pelle che il niqab - il velo integrale islamico - permette di vedere. La sensibilità d'un uomo potrebbe essere turbata osservando le fessure che mostrano gli occhi, spesso truccati, delle donne. Quindi, il noto dotto islamico Sheikh Mohammed al Habdan ha invitato i pii mariti a fare pressione sulle loro mogli per utilizzare un niqab con una sola fessura e, possibilmente, piccola: in fondo, guardare da un solo occhio è sufficiente per non inciampare.
Il sito web della tv al Arabiya riporta estesamente il nuovo editto religioso del predicatore, molto noto per le sue apparizioni televisive. "Una donna pia non esce di casa truccata anche se coperta con il niqab", premette il dottore della legge. (Fonte: Notizie Msn.com)
Quindi è opportuno che le donne indossino un velo che non permetta d'intravedere la lascivia del trucco. Cioè, "un niqab con una sola fessura, possibilmente piccola, giusto per non inciampare quando si cammina". La controversa "fatwa" è stata pronunciata in una trasmissione dell'emittente satellitare religiosa, al Majd. L'imam ha invitato gli uomini a "fare pressione sulle proprie donne" perché adottino il niqab monocululare. E ha dato diverse motivazioni. Una delle quali di carattere economico. "La donna, per abbellire la zona intorno agli occhi, spende un sproposito", ha affermato il religioso, con un'argomentazione che fa pensare a esperienze vissute in prima persona.Ma l'argomento più forte è quello sessuale. Le donne, con quel filo di trucco che s'intravede tra le fessure del niqab, "inducono in tentazione i giovani, facendo loro salire il sangue al cervello". Non parliamo del "colmo" di quelle donne, anche sposate, che osano truccarsi sotto il velo. "A che pro lo fanno?" chiede lo sceicco, facendo intendere d'essere ben informato sugli scopi reconditi d'un comportamento così "provocatorio".Come si rimedia, allora? Facile, le donne guardino da un solo occhio e indossino niqab all'uopo realizzati. L'imam sostiene che bisognerebbe vietare "la vendita dei niqab non consoni alla Shariya islamica", i quali "hanno ben due fessure e, per giunta, sono spesso talmente grandi da fare intravedere le guance".Bisogna, continua il dotto, ritornare ai saggi discepoli del Profeta, che hanno imposto alle loro donne un velo casto "con una fessura piccola per un solo occhio". In fin dei conti cosa è peggio? "Inciampare su una pietra per la strada, oppure fare incendiare le voglie d'un giovane, guadagnandosi la dannazione eterna?" Fth/Mos
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IRAN, TRA LE BAMBINE BARBIE BATTE LA SUA RIVALE ISLAMICA

''E' il segno del fallimento della politica del governo''. Sara non riesce a sfondare nei giochi e nei desidere delle piccole iraniane. A rivelarlo è il sito Tabnak. Stessa sorte anche per gli eroi che avrebberto dovuto scalzare i cartoni animati occidentali.

Sara non ce la fa. La versione islamica di Barbie non riesce a surclassare nel cuore delle bambine di Teheran l'amata bambola americana, bionda e con gli occhi azzurri. A rivelarlo è il sito iraniano Tabnak - vicino all'ex comandante dei Pasdaran, Mohsen Rezaii - che, in un articolo dedicato alla riapertura delle scuole, mette in evidenza come, sia alle scuole elementari che alle medie, una bambina su due ha fatto il suo ingresso in classe con zaini, quaderni e quant'altro firmati da Barbie. Sara, dunque, è praticamente assente dai giochi e dagli oggetti desiderati dalle bambine islamiche. Ma non se la passa meglio neanche l'eroe maschile Dara, lanciato in Iran qualche anno fa nel tentativo di oscurare cartoni animati occidentali come Sherk, le Tartarughe Ninja o l'Uomo Ragno. Insomma, i bambini iraniani continuano a preferire i miti occidentali, il che - scrive Tabnak - rappresenta il segno evidente del fallimento della politica adottata dal governo per fermare l'invasione occidentale. ign (Fonte: "Liberali per Israele")
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ARRIVA IMAN: LA MUSULMANA FORMATO MANGA


Iman è nata per mostrare al mondo che con la preghiera tutto è possibile. È una giovane eroina musulmana che ama aiutare la gente in difficoltà. Ha una grande fede in Dio, è praticante ed ogni volta che prega assume una forza potente. Spiega agli altri il Corano e gli aspetti positivi dell’Islam, come religione tollerante e rispettosa verso il prossimo. Iman è la prima super eroina musulmana, la storia è tratta dalla collana di libri dal titolo “Le avventure di Iman”. Iman è bella, atletica, simpatica, religiosa, tutto quanto può piacere ad un pubblico di bambine musulmane. Porta l’hijab e una collana con su scritto il nome di Allah.
L’idea di realizzare la serie è della 34enne Rima Khoreibi. Il primo libro è intitolato “As One”. Iman dice che il razzismo non ha niente a che fare con l’Islam e nel secondo libro l’eroina aiuta un amico ad allontanarsi dalla droga. Iman non è solo per le ragazze musulmane e non solo per arabe, poiché lei non ha una nazionalità. L’autrice della serie è convinta che i suoi figli avranno molto da imparare da Iman. (Fonte: "Liberali per Israele")
Rima è nata a Sidon, in Libano ed ha trascorso la sua infanzia in Arabia Saudita. All’età di 11 si trasferì con la famiglia a Toronto (Canada). Sposò all’età di 24 anni un giordano e si trasferì con lui in Giordania. Dopo la nascita dei figli si trasferirono a Dubai, dove Rima si occupa dei diritti delle donne nell’Islam e dei suoi libri. Le avventure di Iman sono distribuite in Giordania, Libano, Egitto, Palestina, Marocco, Siria ecc … L’Artwork è ispirato ai Manga giapponesi.
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MAROCCO: NOZZE A 9 ANNI, CHIUSO SITO

(ANSA) - RABAT, 26 SETT - Le autorità marocchine hanno annunciato la chiusura del sito web del teologo Magraoui che autorizza il matrimonio delle bimbe di 9 anni. Lo ha reso noto l'agenzia di stampa Map. Contro la fatwa si è pronunciato il Consiglio superiore degli ulema del Marocco definendo Magraoui un 'agitatore e un mistificatore'. Il Consiglio, presieduto dal re, ha ricordato che 'l'età legale del matrimonio, 18 anni, è stata approvata dal Parlamento ed elaborata con la partecipazione degli ulema'. (Fonte: "Arabyya")

Recentemente re Mohammed VI ha inaugurato anche un centro antiviolenza sulle donne. Leggi tutto ...

sabato 27 settembre 2008

RWANDA: DONNE IN MAGGIORANZA NEL PARLAMENTO

Donne rwandesi al voto

RWANDA, 18 SETT - Dai risultati preliminari delle elezioni, il Rwanda risulta essere il primo Paese in cui il numero delle donne supera quello degli uomini in Parlamento.Le donne si sono aggiudicate 44 degli 80 posti e il numero potrebbe salire se i tre posti riservati ai disabili andassero alle donne.Il Rwanda, la cui costituzione post-genocidio assicura alle donne il 30% del totale dei seggi in Parlamento, aveva già fatto registrare il record per la più alta percentuale di donne in Parlamento.Si tratta delle seconde elezioni parlamentari dal genocidio del 1994, in cui vennero uccise 800mila persone in soli 100 giorni. (Fonte: "Arabyya")
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OLANDA/ POLIGAMI NON AVRANNO LA CITTADINANZA

Roma, 26 set. (Apcom) - Su richiesta dei sindaci delle più grandi città olandesi (Amsterdam, Rotterdam, Utrechet, l'Aia) il governo del paese ha emanato un decreto legge che d'ora in avanti impedirà ai poligami di ottenere la cittadinanza olandese. Sino ad ora i funzionari del paesi bassi avevano normalmente regolarizzato centinaia di poligami con tutte le loro spose partendo dal principio che nei loro paesi d'origine la prativa era legale.
Il caso è partito nel mese scorso da un'inchiesta del quotidiano Ncr Handelsblad dove si dimostrava come il comune di Rotterdam riconoscesse 'de facto' la poligamia benchè questa sia proibita dalla legge olandese.
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venerdì 26 settembre 2008

AD AMSTERDAM ESISTONO 173 MATRIMONI POLIGAMICI DEBITAMENTE REGISTRATI IN COMUNE


Segno dell' islamizzazione strisciante dei Paesi Bassi. Da notare che i musulmani rappresenterebbero ormai il 24% della popolazione di Amsterdam (fonte eumap). Ricordiamo inoltre che in Francia si conterebbero circa 30.000 famiglie poligame, sovvenzionate - sembrerebbe - dalle prestazioni sociali che versano gli organismi sociali che preferiscono chiudere gli occhi.

Secondo le statistiche del comune di Amsterdam, l'Olanda riconosce la bigamia e la poligamia, con 173 residenti di Amsterdam registrati come bigami e due come trigami. La registrazione di situazioni bigami e poligami, nonostante la loro illegalità, con i municipi delle principali città, ha generato proteste in questi ultimi mesi. Ad Amsterdam la VVD (Volkspartij voor Vrijheid in Democratie, parte del popolo per la libertà e la democrazia) ha chiesto chiarificazioni ed ha ottenuto statistiche per la prima volta in Olanda. Secondo i regolamenti in vigore, la città di Amsterdam accorda la registrazione ai matrimoni poligami a condizione che siano legali nel paese d'origine. I residenti che passano l'esame d'integrazione non possono diventare cittadini olandesi finché hanno più di un coniuge. Sui 173 poligami, 31 hanno la nazionalità olandese oltre alla loro nazionalità d'origine. Avere molti coniugi non sembra essere un ostacolo al conseguimento della cittadinanza Olandese, se si tiene conto della risposta del comune di Amsterdam alle questioni del VVD. Attualmente, coloro che contraggono matrimoni multipli nel loro paese d'origine possono ottenere la nazionalità Olandese. Gli Olandesi, loro, sono vietati di matrimoni multipli, anche contratti all'estero. (Fonte: "Scettico" e foto da "Liberali per Israele")
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NEL MALI LE "DONNE DEL KARITE' ", STORIA DI UNA BATTAGLIA (VINCENTE) AL FEMMINILE


PROGETTO DI CESVI E JUST ITALIA


Corsi di formazione e attrezzature per rendere più dignitoso il lavoro nella comunità del distretto di Kati.


MILANO - Burro di karité. Si chiama così la speranza di un gruppo di donne del Mali, e precisamente del distretto di Kati, nel Koulikoro. Il loro lavoro si scontra ogni giorno con l'arretratezza dei mezzi e delle tecnologie che non permette di valorizzare quella che è diventata una risorsa fondamentale per il Paese: il burro di karité appunto, un ingrediente di uso comune in cosmetologia, noto per le sue proprietà emollienti, protettive, idratanti e antiossidanti. Sono loro, le donne di Kati (soprannominate «donne di karitè») le destinatarie di un progetto di Cesvi, organizzazione umanitaria di Bergamo, e Just Italia, azienda veronese di cosmetici e prodotti naturali. Obiettivo: sostenere il lavoro e i diritti delle donne maliane attraverso percorsi di formazione, costruzione di opere, acquisto di attrezzature e materiali per un valore di 40mila euro. (Fonte: "Corriere")
«UN PICCOLO MIRACOLO» - Ad oggi nel Mali le donne raccolgono le noci a mano, ad una ad una; l’estrazione della farina e del burro avviene con sistemi rudimentali e faticosi. Il progetto punta a dar loro una formazione professionale, costruendo anche un magazzino centrale e 15 piattaforme di essiccazione, fornendo attrezzature per la lavorazione e conservazione del burro di karité: dai barili ai teli di plastica fino alla pesa e ai contenitori necessari per lo stoccaggio. Quella del karité è una storia di donne che fanno squadra, che lavorano con altre donne lottando per una migliore qualità della vita. «Il progetto è partito anche grazie alla determinazione delle donne che producono il karité - spiega Agata Romeo, responsabile Cesvi del progetto -. Le donne stesse mi hanno spiegato quale fosse la sfida: si tratta di migliorare la qualità del burro e di venderlo affinché anche le donne possano contribuire al sostentamento economico di tutta la famiglia. Donne che hanno un reddito: una specie di rivoluzione se si pensa al ruolo cui esse sono confinate nella cultura Bambara (l’etnia di maggioranza in questa parte del Mali). È una rivoluzione anche per gli uomini che consentono questa attività e che ultimamente la appoggiano esplicitamente. Quello che si sta producendo in questi villaggi è un piccolo miracolo».
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MISOGINIA: SVOLTA STORICA SUL DIRITTO DI ASILO DELLE DONNE IN FUGA DALL'IRAN

Si chiamano Donya Elahi, 23 anni; Bahareh Kanaminij, 29 anni; Farah Ussefi, 23 anni; Farah Hashemi, 21 anni; Parisa Elahi, 34 anni; Mariam Karimi, 20anni; Nahal Pardhash, 23 anni. I loro nomi sono meno famosi di quello di Pegah Emambakhsh ma proprio insieme a Pegah saranno ricordati per l'evento storico che hanno scatenato, il riconoscimento del Diritto di Asilo per cause legate, tra le altre cose, alla persecuzione per motivi misogini.
Fuggite dall'Iran alcuni mesi fa e riparate in Gran Bretagna, hanno rischiato il rimpatrio forzato che nel loro caso avrebbe voluto dire una lunga carcerazione e per alcune di loro la condanna a morte in quanto accusate di reati contro la morale religiosa e contro il regime dei Mullah, in particolare Mariam Karimi e Parisa Elahi erano accusate di aver chiesto pari Diritti per le donne, un reato da pena capitale in quanto va contro la morale religiosa del regime iraniano.
Quando ci è stato segnalato il loro caso alcune ragazze iraniane erano già state deportate nel silenzio più assordante e di loro non ne sappiamo più niente. Appena saputo della possibilità che anche queste giovanissime ragazze, tra cui alcune leader della rivolta studentesca che da mesi si protrae in Iran, avrebbero potuto essere deportate ci siamo immediatamente attivati garantendo loro una adeguata assistenza legale e un rifugio sicuro, anche da eventuali ritorsioni iraniane. Abbiamo inviato un esposto all'Unione Europea contro la Gran Bretagna e contemporaneamente siamo riusciti a bloccarne l'espulsione.
A distanza di soli tre mesi alle ragazze è stato riconosciuto lo status di rifugiato ma, cosa più importante, viene per la prima volta menzionata tra le motivazioni per cui lo status di rifugiato è stato concesso, la parola misoginia. Viene infatti riconosciuto che la persecuzione misogina del regime dei Mullah è stata la causa, o una delle maggiori cause, per cui le ragazze nel loro Paese avrebbero rischiato seriamente la loro vita e per questo costrette alla fuga. (Fonte: "Secondo Protocollo")
L'evento è storico a livello europeo e a questo punto pone un problema di carattere prettamente giuridico in quanto in nessun Paese europeo, Italia compresa, esiste un reato specifico ricollegabile alla misoginia, fatto questo che denota una gravissima mancanza e al quale va posto al più presto un rimedio efficace.

Nei mesi scorsi avevamo avanzato una proposta di legge contro la misoginia inoltrandola a diversi parlamentari italiani, ma al momento la cosa non sembra aver attecchito o comunque non le è stata data quella importanza che invece meriterebbe. Dopo questo importantissimo precedente riteniamo invece che sia il caso di valutare attentamente l'introduzione di un efficace strumento legislativo contro la misoginia, più diffusa di quanto si possa pensare anche nel nostro Paese.
Nei prossimi giorni le ragazze iraniane saranno in Italia per continuare quella lotta pacifica, iniziata mesi fa, volta a garantire alle donne iraniane gli stessi Diritti di cui godono gli uomini, ma soprattutto contro il regime di Teheran, un regime che sopprime nel sangue qualsiasi richiesta di maggiore libertà e di maggiore fruizione dei Diritti Umani. Noi, come loro, siamo convinti che il regime dei Mullah si possa abbattere in maniera democratica e dal suo stesso interno, senza guerre o azioni violente, ma per fare questo è necessaria la collaborazione di tutti gli Stati democratici e dell'Unione Europea. Un primo passo è stato fatto, ora occorre proseguire su questa strada a partire dalle 54 ragazze iraniane attualmente in Grecia ospiti di associazioni umanitarie che stanno collaborando con la nostra organizzazione. Anche a loro va garantito immediatamente lo status di rifugiate così come ad alcuni studenti uomini che sono riusciti a sfuggire al cappio del boia dei Mullah. La strada è aperta, ora occorre solo percorrerla.
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giovedì 25 settembre 2008

UN'ASPIRANTE KAMIKAZE QUINDICENNE IRACHENA RACCONTA LA SUA STORIA

Anche se, in realtà, definirla "aspirante" non è molto corretto, soprattutto nei suoi confronti! Nella foto Ranya, questo è il nome della ragazzina, quando si consegna spontaneamente agli agenti per farsi disinnescare la cintura esplosiva e sotto il video del suo racconto-confessione.


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mercoledì 24 settembre 2008

"SECONDE MOGLI" E FIRST LADY. LA RIVINCITA DI HAYA E LE ALTRE

Oltre il velo: le "prime donne arabe" sono protagoniste nel sociale. Hanno mariti poligami, ma non restano nell'ombra.

A sinistra Haya di Giordania e degli Emirati Arabi Uniti, in basso
Sheikha Mozah del Qatar e nella foto piccola a destra Sheikha Sabika del Barhein.

WASHINGTON - Mozah e Haya sono, a loro modo (molto "a loro modo"! Il commento è mio), delle "rivoluzionarie", anche se i loro mariti hanno conti bancari uguali a tesori. Nel senso che provano a rompere gli schemi di un mondo maschilista che lascia poco spazio alle donne. E' un cambiamento dei piccoli passi - e per giunta controllati - ma non per questo meno apprezzabile. Mozah è la moglie - anzi una delle molte (tre) - dello sceicco, Hamad Al-Khalifa Al-Thani, l'uomo che guida il Qatar. Ed è una consorte particolare. Alternando il velo nero agli abiti occidentali, consapevole di cosa sia permesso a una donna del Golfo, si è conquistata un ruolo impensabile fino a pochi anni fa. E' lei a guidare la raccolta fondi contro la disoccupazione e a prendere la parola davanti a una platea di uomini d'affari. Non solo first lady ma anche promotrice di un progetto per una città dell'educazione a Doha; destinata ad accogliere prestigiose università americane. Per i nostri parametri può sembrare poca cosa, ma, come sottolinea la sociologa Rima Sabbah: "Mozah ha rotto tutte le barriere culturali" affiancando il marito nell'idea di trasformare il Qatar in un punto di riferimento internazionale. Una sfida che non è passata inosservata: la rivista Forbes l'ha inserita tra le 100 donne più influenti del pianeta.Un elenco dove non sfiguererebbe un'altra protagonista di questa mini-rivoluzione rosa. E' la principessa Haya, 34 anni, figlia del re Hussein di Giordania (deceduto nel 1999) e oggi consorte dello sceicco Mohammed Rashid Al-Makhtoum degli Emirati Arabi Uniti (io aggiungerei seconda moglie!). Raramente l'hanno vista in abiti tradizionali, ha un sito Web, gira il mondo per sostenere l'idea di un cambio. Nel 2000 ha fatto parte del team giordano di equitazione alle Olimpiadi in Australia ed è alla testa della federazione internazionale. Di nuovo, il suo impegno è nel sociale, nell'attività umanitaria (Fonte: "Corriere della Sera").

Ma la vera rivincita sarebbe che i mariti lasciassero le altre mogli per loro o, meglio ancora, che "Haya e le altre" chiedessero il divorzio... però mi sembra un tantino improbabile e non solo per il conto in banca delle dolci metà!
Per gli scettici è un'emancipazione di facciata e l'impegno assomiglia a quello delle dame di carità. Ma il poco sembra tanto se paragonato a quanto avviene nella vicina Arabia Saudita, dove le donne non hanno il diritto di voto e la richiesta di prendere la patente è davvero un miraggio nel deserto. Divieti che hanno fatto nascere un movimento di protesta sotterraneo, a volte sostenuto con grande cautela da Wajeha Al Huwaider, alla quale hanno concesso di guidare nelle zone rurali, e da un paio di principesse coraggiose.Ma non tutto è nero come le lunghe tuniche che devono indossare le donne da queste parti. Il Barhein, altro stato del Golfo, ha nominato come ambasciatrice negli USA una parlamentare di religione ebraica, Hoda Nono.

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ALTRO CHE SENSUALITÀ, IL VELO È UNA GALERA


VÉNUS KHOURY-GHATA


Dire che il velo ha liberato la donna è doloroso per coloro che lo indossano come una prigione, un sarcofago, un feretro ambulante. È un'offesa per le donne afgane imbavagliate dalla paura, che contano sulle loro sorelle occidentali con la speranza che possano battersi per loro, per liberarle dal velo. Dire che il velo ha liberato le donne farà sanguinare il cuore di Maryamou di Mechhed, di Azadée di Teheran, delle studentesse che indossano il velo all'università diretta da religiosi ma che, non appena rientrate a casa, strappano via il tchador come una pelle da rimuovere per ritrovare la loro vera pelle. Dire che il velo ha liberato le donne, rende amareggiate le afgane rese cieche dal burka che indossano, rasentate dalle automobili, uccise dalle automobili che vedono soltanto all'ultimo momento. Dire che il velo ha liberato le donne è un'offesa per coloro che si erano battute nel corso del secolo per liberare le donne dal velo, per renderle uguali all'uomo che cammina con il viso scoperto al sole. Un dolore per coloro che vorrebbero mostrare la loro chioma, considerata dagli adepti del velo come la capigliatura del sesso. È possibile definire il velo come liberatorio delle donne quando ostacola tutti i loro gesti e le rende pari a dei muli che circolano nella strada con delle fessure per gli occhi che impediscono di guardare di lato? Dieci anni fa, su richiesta di una parlamentare europea, ho condotto un sondaggio in Libano, il mio paese, presso alcune donne che hanno frequentato l'università, al fine di conoscere i motivi per i quali hanno iniziato ad indossare il velo mentre prima non lo portavano. La prima, direttrice di un'agenzia di PTT, ha detto di indossare il velo per essere rispettata dai suoi confratelli che considerano come prostitute qualsiasi donna senza velo (questa donna viveva in una città del sud del Libano, diventata islamica dopo l'uscita di Hezbollah). La seconda indossava il velo per motivi economici: i figli delle donne con il velo possono entrare in ospedale senza pagare in anticipo, altrimenti sono respinti (problema cruciale in un paese in cui la previdenza sociale non esiste). La terza ha dichiarato che senza il velo, tra un vestito di Dior e un vestito acquistato in un negozio monoprezzo non c'è nessuna differenza. Camminando per la strada, è al pari della moglie del deputato e della moglie del sindaco della sua città. La quarta indossava il velo per beneficiare dell'acquisto di un appartamento pagato in venti anni senza interessi. Si tratta degli appartamenti costruiti da Hezbollah, finanziati dall'Iran e che hanno trasformato gli stabili di due piani in grattacielo. La quinta, una ragazza bizzarra, giornalista per un quotidiano arabo islamico, mi ha detto di indossare il velo per prendersi gioco di sua madre che si era battuta più di trent'anni fa per liberare le donne dal velo. Dichiarare di amare il velo mi fa pensare a una parigina eccentrica che si era fatta realizzare delle manette in oro da un gioielliere, che esibiva la domenica pomeriggio quando ci offriva il tè. Bisogna scendere in strada per conoscere la povertà, diceva il ricco Sénèque. Bisogna aver vissuto con donne che indossano il velo per avere il diritto di parlare a nome loro. Bisogna soprattutto intervistarle lontano dallo sguardo del marito, del padre, del fratello, i quali si trasformano in lapidatori non appena ritengono che il loro onore sia stato infangato. (Fonte: il blog di Barbara", articolo de "La Stampa", 17/9/'08)

Le donne afgane imbavagliate dalla paura, che contano sulle loro sorelle occidentali con la speranza che possano battersi per loro, per liberarle dal velo. E invece le loro sorelle occidentali, le donne progressiste di sinistra, le femministe che da una vita si battono per vedersi riconosciuti pari diritti, pari dignità, pari rispetto, pari libertà, non esitano un solo istante a voltare loro le spalle: è la loro cultura, e dunque che si fottano.
Non potrò mai dimenticare l'immagine di una donna lapidata dagli uomini della sua famiglia perché sospettata di aver avuto una relazione con un'altra donna, agonizzante sotto le pietre mentre suo fratello la filmava con il cellulare. Il fratello filmava con una mano e tirata le pietre con l'altra. Le donne che portano il velo non l'hanno per forza scelto. Alcune credono di averlo scelto perché risponde al voto o alle imposizioni del marito o dell'uomo amato. Si sono ritrovate di fronte al loro destino. Molte l'hanno scelto per sottomissione, perché credono che l'uomo sappia cosa vada bene, cosa sia meglio per loro. L'uomo pensa per loro che non sanno pensare. Come dice un proverbio arabo, la sottomissione è generatrice di felicità. La schiavitù può essere volontaria. L'asservimento può essere voluto per conservare il cuore di un uomo, il suo rispetto, il rispetto della sua comunità fa credere ad alcune donne che il velo le protegge, il velo è la loro scelta. Il libero arbitrio non esiste per queste donne. Sono condizionate e ignorano che la scelta cessa di essere una scelta quando è il riflesso del desiderio altrui, il frutto dell'autorità altrui. Il velo è una prigione, un feretro, un sarcofago.
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martedì 23 settembre 2008

LA TRAGICA STORIA DI SADIA


Lunedì 22 ottobre 2007, la nostra compagna di classe ed amica, Sadia Sheikh, belga d' origine pakistana, è stata selvaggiamente abbattuta per avere rifiutato il marito pakistano che si voleva imporle. Sadia aveva 20 anni, sgranocchiava la vita con i denti ed era piena d' ambizione, era come tutte le giovani donne della sua età, viveva all' occidentale senza tuttavia avere abbandonato la sua cultura. Di fronte ad un marito che le si voleva imporre, prese il coraggio a due mani e lasciò il domicilio familiare. Sadia viveva la sua vita come lei l' intendeva anche se la separazione familiare sarebbe stata penosa. Dopo enorme insistenza da parte dei familiari, ritornó per rendere piccole visite. Ma ahimè mentre era ad una cena familiare il 22/10/2007,si ritrovó di fronte a l' arma di suo fratello . Sadia forte e coraggiosa si è battuta fino al 24/10/2007, giorno in cui è morta… . Il caso di Sadia è tutt'altro che isolato... .
Sadia è la ragazza che si cita nel post precedente, dedicato al libro di Karima.

Preso dal blog dedicatole: http://sadia12.skyrock.com/4.html (Fonte: "Scettico").
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" INSOUMISE E DEVOILEE" ( LIBERA E SVELATA)

Il lavoro di Karima (che tutt'oggi è vive con la paura delle minacce di morte dei suoi parenti) belga musulmana di 32 anni, resterà in libreria. È in sostanza ciò che risulta alla decisione del tribunale delle procedure per direttissima di Verviers che ha reso la sua ordinanza martedì. Quest'azione in giudizio era stata iniziata dai genitori e sorelle dell' autrice. Auspicavano che il libro fosse ritirato dalla vendita per eliminare i passaggi che minacciavano la loro vita privata. Questo libro illustra la lotta condotta da Karima per uscire dalla dittatura familiare che le era imposta. Spiega come ha girato le spalle alla sua famiglia che l' ha picchiata ed umiliata e sposata di forza in nome dell'islam. Il tribunale ha tenuto conto del carattere di emergenza ed ha dichiarato l'azione ammissibile ma non fondata. Il giudizio rileva che il resoconto è la prova di una vita intera e non soltanto centrata sulla vita di famiglia. Non poteva di conseguenza fare astrazione dei genitori e sorelle. Il tribunale sottolinea anche che i termini utilizzati dal autore non hanno volontà di pregiudicare i diritti dei richiedenti e che non si tratta affatto di un atto accusatore diretto contro la sua famiglia. " Il libro conclude con parole di speranza e di amore" , sottolinea ancora il tribunale. "Posso perdonare, ma dimenticare, quello no, é impossibile…". (Fonte: "Scettico")
Karima, 32 anni, accarezza il suo piccolo cuore sulla collana. Senza enfasi nel tono, labbra truccate, uno sguardo franco e determinato. "libera e svelata", come il titolo del suo libro da pubblicare nelle edizioni Azimut? È ovvio. Lontano, molto lontano, dell'immagine della povera vittima che si deplora sulla sua sorte. Infanzia rubata, matrimonio forzato, sequestri, violenze familiari… Karima ha tuttavia attraversato l'impensabile. E questo libro, é la sua "terapia"; l'occasione per lei “di raccontare la sua vita, non la loro".
"A 13 anni, scrivevo già. Una pagina, poi altre, e le strappavo. Per timore di essere scoperta quando i miei genitori frugavano la mia camera." Il suo manoscritto, lo ha sottoposto a venti case d'edizione. In Belgio, in Francia ed in Svizzera. Frédéric Allard, piccolo editore indipendente, decide di sostenerla: "La forza del suo resoconto, la sua determinazione, il suo dinamismo ed il suo buon senso lo ha immediatamente sedotto."
Il libro non è uscito, ma in un fine settimana, più di 200 internauti reagiscono sul suo blog. Messaggi positivi, ma anche delle minacce e degli insulti: "Ciò che cerchi, è di uccidere tua madre e di farti uccidere" (…) "Psicopatica, ladra, prostituta (…) sporca tossicomane".
Karima si prepara a rompere un tabù: rendere pubblica la sua storia privata. A Verviers, dove risiede, il telefono arabo ha funzionato in pieno". La settimana scorsa, riceve minacce di morte per telefono dove il suo interlocutore gli dice "tu hai dimenticato ciò che è successo a Sadia?" (questa giovane pakistana assassinata da suo fratello a Lodelinsart, NDLR). Prende timore. Previene la polizia, il sindaco, e stanca di vedere che niente si muove abbastanza rapidamente, chiama la stampa .
La polizia giudiziaria federale apre un'indagine. (L'elaboratore crimine unità) osserva le reazioni sul blog e traccia gli indirizzi IP. Poco a poco, una rete di sostegno si organizza. Gli Imam, il collettivo delle donne battute "ne puttane ne sottomesse"… Karima non è più sola. Il suo libro, la cui uscita ufficiale è prevista il 15 marzo prossimo, a Verviers, non resterà lettera morta: "Voglio che si sappia perché questo non succeda più", ci dice, dal proprio piccolo appartamento verviétois. Questo venerdì, nell'ora di predica, al centro islamico di Verviers, la più grande moschea della Wallonie, l' imam ha denunciato "pratiche nocive, come i matrimoni forzati o l'imposizione del hijab", come pure "qualsiasi minaccia contro la nostra sorella, il suo editore o anche la sua famiglia". Karima "non ha timore", ma si prepara a traslocare fuori di Verviers e cambiare i suoi bambini di scuola. E suo marito veglia al suo fianco, "La lascio fare come ha sempre fatto: libera e determinata. Ma sono ansioso, soprattutto per i nostri quattro bambini."
Karima, sesta figlia di una famiglia di dieci: tre ragazze, sette ragazzi. Un padre originario di Nador (Marocco), operaio delle miniere, esiliato nel 1968. Una madre analfabeta. Infanzia ad Anversa, quindi trasloco a Verviers. La sua famiglia? Musulmani praticanti, niente di più.
Ma Karima non è flessibile ed obbediente, come la vogliono i suoi. Fin da otto anni, suo padre le impone di portare il velo. "Temeva cosa avrebbero detto alla moschea, ma lo toglievo prima di entrare a scuola". Rifiuta "di essere una donna tutto fare". Colpi di cinghia, certificato medico falso per costringerla a restare a casa, pressioni, insulti… aiutare i genitori, pulire, servire i fratelli. "Volevo vivere."
La scuola, i servizi d'aiuto alla gioventù, la polizia… ma Karima prosegue sola il suo calvario. Fino alla sistemazione in una casa d'accoglienza, per un mese, a Namur. Fino al ritorno fra i suoi ed un viaggio sistemato in Marocco.
"Dinanzi ad un notaio, mio padre ha contratto un matrimonio per procura verbale con un mio cugino." Karima rifiuta quest'amore. I colpi e le minacce riprendono. Fugge, ottiene un posto in un rifugio, prima di annullare questo matrimonio, e di ottenere il divorzio. Una prova lunga e dolorosa…
Quattro bambini, dei piccoli lavori, il suo libro… Karima vuole ora ricostruirsi una vita. Senza odio né rimproveri.
"Musulmana fedele, ma ormai libera e svelata".
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MODA, SESSO, HI TECH: LE MILLE DOMANDE DELLE ITALO-ISLAMICHE


Ragazze saudite a Jeddah


Donne e ragazze musulmane pongono domande e si danno risposte sul forum di un sito internet in italiano gestito da un giovane genovese convertito.


Sessualità, moda, tecnologia'Cosa può fare una donna islamica?'


Sì ai tacchi purché non "la camminata non diventi ondeggiante"Sì anche al rossetto, ma chattare tra ragazzi e ragazze può essere sconveniente.


Le scarpe coi tacchi? "Una musulmana le può indossare. Basta che il tacco non sia troppo alto, sennò la camminata diventa ondeggiante e questo non sarebbe dignitoso". E i pantaloni? Li può mettere una donna? "Sì, basta che siano larghi e che non lascino intravedere le forme. Anzi, a volte vanno pure meglio del vestito lungo, che magari si sposta e lascia scoperte le caviglie". E le infradito? E lo smalto? E msn "per comunicare col mio ragazzo? E' lecito oppure è proibito"? Amore, sessualità, moda. E il tentativo di coniugarli con i precetti della religione.
Si chiama "Discussioni sull'islam" il forum che, lanciato un anno fa sul web, sta diventando un punto di riferimento per le donne musulmane italiane (o meglio italofone, visto che molte scrivono anche dall'estero). Studentesse e lavoratrici, donne sposate, fidanzate con un credente oppure single, già musulmane oppure fresche d'islam. Donne, insomma, che vogliono sapere come si fa, nel ventunesimo secolo, ad essere perfettamente praticanti e pienamente donne. Come si può continuare ad essere trendy senza però commettere peccato.
Lanciato un anno fa da uno studente genovese di 23 anni convertito all'islam (si chiama Umar Andrea Lazzaro, è anche titolare di un blog antiamericanista e per le sue posizioni radicali è stato più volte contestato all'interno di altri forum, non musulmani), il sito è una raccolta di pensieri, domande e risposte sulla religione e su come farla combaciare con la vita di tutti i giorni. Più di 400 gli utenti, oltre 7mila i messaggi arrivati dall'apertura ad oggi, trenta i macro argomenti su cui chi si registra può intervenire e lasciare il suo post. Tra questi, appunto, la sezione dedicata alle donne: "Islam al femminile". E' dentro quelle pagine che, dal giugno dell'anno scorso, tante ragazze esternano i loro dubbi. Chiedono e si danno consigli facendo riferimento al Corano e cercando risposte nei siti di esperti accreditati che hanno interpretato le sacre scritture.
Topic più gettonati? "Vero", utente senior, ha chiesto dove poteva trovare parrucchiere per le donne che, anche durante il taglio, non possono mostrare i capelli a un uomo che, eventualmente entrasse nel negozio. Parrucchieri dotati di paraventi o "chiusi" al sesso maschile? "Sicuramente non ci sono strutture islamiche specifiche che offrano tali servizi - le ha risposto "Pensosa", la moderatrice - tuttavia puoi sempre cercare delle sorelle esperte nel campo". Oppure, le dice qualcun'altra, chiedere alla parrucchiere di non far entrare uomini mentre ti fai la piega.
"L'importante, infatti, è che orecchie, collo e capelli non vengano esposti ad estranei dell'altro sesso - chiarisce l'amministratore - oppure, secondo le interpretazioni più restrittive, di fronte a donne non musulmane". (Fonte: Liberali per Israele, articolo di "Repubblica")
Maria, che abita a Bologna, chiede invece dove si possono trovare negozi che vendono l'abbigliamento adatto. Dino vuole sapere se le donne possono indossare le infradito ("sì, purché il piede non sia nudo - fa sapere Talib - perché le uniche parti che una donna può tenere scoperte sono il viso e le mani"). Justroby si vuole mettere lo smalto, ma non è sicura che si possa fare ("Lo puoi fare - è la risposta - ma come ogni altro trucco e abbigliamento, non lo possono vedere gli estranei ma solo tuo marito. E comunque, lo devi togliere per le abluzioni").
Mouslima è una studentessa e dice che vorrebbe tanto indossare il velo a scuola ma ha paura delle battutine dei compagni, e teme di non riuscire ad affrontare le lezioni di educazione fisica. E poi c'è Ucaoe che, da Varese, chiede se secondo i precetti dell'Islam si può usare msn: "un ragazzo e una ragazza che abitano lontani, si vedono una volta alla settimana e vogliono sposarsi, possono usare msn per comunicare?".
Una domanda cruciale, di questi tempi, e anche insidiosa su cui il forum, per un attimo, ha oscillato. "Non credo ci siano problemi - le ha risposto Ummah - basta che sia usato in maniera costruttiva.. Ma le vostre famiglie lo sanno?". La drizzata è arrivata però dall'amministratore, con tanto di link a "sapienti" in lingua inglese a confermare le sue risposte: "L'utilizzo di msn, come di qualsiasi altro mezzo elettronico, la chat eccetera, tra estranei di sesso diverso è proibito - dice - ma capisco quanto sia difficile tra fidanzati. Sarebbe meglio allora utilizzare il telefono con lo scopo di conoscervi un po' ma senza esagerare nella durata, e mantenendo sempre una comunicazione modesta ed halal (cioé "che sta dentro le regole"; ndr). Premessa di tutto ciò: i genitori devono saperlo, ed il ragazzo aver fatto la proposta di matrimonio".
La domanda, però, nasce spontanea: e il forum? "Questo spazio - ha spiegato Andrea Lazzaro - grazie a Dio e al suo permesso è diventato il forum islamico in italiano più frequentato e visitato". Un modo, insomma, per diffondere la cultura islamica. Ma non è anch'esso un mezzo elettronico che fa comunicare estranei di sesso diverso?
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NEL MESE DEL RAMADAN SCOPPIA DELLE TELENOVELE ARABE


Sheherazade narrava le sue storie al sultano al calar della sera e smetteva quando faceva giorno, lasciando sospeso il finale e curioso il suo ascoltatore. E al calar della sera, in una versione moderna della raccolta di novelle orientali, milioni di arabi si stringono in questi giorni sul divano, assieme ai familiari, per assistere alle sempre più celebri telenovele di Ramadan. È il mese più sacro dell’anno islamico, momento di digiuno, preghiera, meditazione e anche di vita in famiglia. Pochi minuti prima della rottura del digiuno, il traffico delle grandi capitali arabe diventa ancor più caotico: tutti corrono verso le proprie case, dov’è già imbandita una ricca tavola. Poi, sulle strade, scende improvvisamente la tranquillità e dalle finestre delle case e dai caffè arriva il profumo dei cibi, del fumo dolce dei narghilè, il rumore delle chiacchiere, delle posate e in sottofondo la voce della televisione. Da qualche anno, infatti, alle tradizioni religiose del Ramadan se ne aggiunge una meno ortodossa: dopo il pasto tanto atteso, è il momento di mettersi davanti alle soap opera preparate dai produttori di tutto il mondo arabo. La nuova abitudine ha però attirato le critiche di alcuni uomini di religione che accusano i produttori di svuotare con anticipo le moschee e di togliere al mese del digiuno l’atmosfera di meditazione e sacralità che lo caratterizza. Gli arabi restano però incollati allo schermo per un altro episodio di Bab el Hara (La porta del quartiere). Come l’anno scorso, la celebre soap siriana, ambientata nella vecchia Damasco sotto i francesi, fa impazzire tutti. A farne le spese è stato perfino il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, popolare in tutta la regione. Incauto, nonostante la sua sapienza mediatica, aveva tenuto nel 2007 un discorso televisivo alla stessa ora della serie. Palestinesi e libanesi avevano preferito Bab el Hara e l’auditel aveva inchiodato lo sceicco più di ogni strategia del rivale israeliano. E poca voce hanno avuto sui palinsesti le femministe arabe che accusano la soap di dipingere una donna sottomessa. Anche quest’anno i dibattiti non mancano: Asmahan è una serie sulla vita della cantante siriana che secondo gli sceneggiatori sarebbe stata una spia britannica in Egitto. Quanto basta per smuovere la famiglia, che ha intentato una causa. (Liberali per Israele)

Questo post non riguarda propriamente le donne, ma secondo me getta a modo suo una luce interessante sulle società arabe e quindi anche sulle donne.
In Arabia Saudita, una serie sulle antiche lotte tra due tribù della penisola arabica avvenute tre secoli fa ha attizzato battaglie reali tra i due clan ancora esistenti, obbligando le autorità a fermarne la messa in onda. Nel 2007, la soap su re Farouk, il monarca egiziano costretto ad abdicare nel 1952, in seguito al colpo di Stato degli «Ufficiali liberi» di Gamal Abdel Nasser, dipinto dal regime come un sovrano corrotto, grasso, donnaiolo e debosciato, nella soap saudita revisionista diventava un patriota: una sorta di sfida al rais Hosni Mubarak, erede di quegli ufficiali che misero fine alla monarchia. Le telenovele di Ramadan hanno anche creato screzi tra Paesi: nel 2003 la serie siriana in onda in Egitto, Cavallo senza cavaliere, fortemente antisemita, basava il racconto sui Protocolli dei Savi di Sion, falso zarista che sostiene l’esistenza di un complotto ebraico per controllare il mondo. Provocò le condanne d’Israele e l’indignazione dei governi occidentali. Politica e attualità giocano spesso un ruolo: nel 2006, un episodio della popolare serie satirica saudita, Tash ma Tash , che prendeva in giro i terroristi islamici, attirò le ire dei fondamentalisti e gli attori ricevettero minacce di morte. Il tema del terrorismo era centrale anche nella serie siriana al Mariqun - disertori - del 2006. Matabb, la nuova telenovela palestinese, è stata appena messa fuori onda perché considerata dai vertici politici non sufficientemente anti israeliana.
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INNAMORARSI NEL WEB ISLAM

L'amore potrebbe diventare la prossima materia preziosa da esportazione del mondo arabo, ora che gli sceicchi del Golfo consapevoli che le riserve di petrolio si assottigliano, cercano di diversificare le loro economie. «L'esportazione araba che riscuote più successo non è il fondamentalismo ma il romanticismo», sostiene lo psicologo clinico Frank Tallis, occidentale cosmopolita e lungimirante, che ha insegnato all'Istituto di Psichiatria del King's College di Londra. A suo dire, per quanto Oriente e Occidente siano ugualmente ossessionati dall'amore romantico, il primo sarebbe meglio equipaggiato per soddisfare alla domanda su scala planetaria, proprio perché «gli arabi cadevano preda dell'amore seicento anni prima degli inglesi, che iniziarono a farlo solo quando lo studioso John Palsgrave introdusse l'espressione "to fall in love" nel sedicesimo secolo». E indovinate dove inciamparono, Palsgrave e gli altri studiosi britannici, per scoprire il mistero dell'amore come caduta? Ebbene, che lo crediate o meno, gli occidentali scoprirono il romanticismo leggendo in traduzione i trattati sull'amore scritti da autori arabi andalusi, tra cui Ibn Hazm, nell'undicesimo secolo. Fu questa la fonte di ispirazione per i cantori itineranti francesi del tredicesimo e quattordicesimo secolo, i famosi trovatori, troubadours, «termine verosimilmente derivato dall'arabo tarab, che significa intrattenimento musicale». (...)Se le forze dell'amore spingono musulmani e musulmane dotati di coraggio a spiccare un salto così pericoloso, gli imam, dal canto loro, hanno il compito di aiutarli a risalire la china. Nemmeno un intellettuale brillante come Ibn Hazm avrebbe mai potuto immaginare baratro più pericoloso di internet, terreno di sfida di imam moderni come Yusuf al-Qaradawi, star di Al-Jazeera, leader e ispiratore del sito IslamOnline e avveduto quanto basta per capire che il solo modo di salvare i musulmani è puntare sull'amore universale. L'unica salvezza planetaria immaginabile è la trasformazione di internet in una sorta di Arca dell'Amore, e gli arabi hanno tre elementi per guidare la navigazione. Primo: terrore del consumismo. Secondo: una vasta e sofisticata letteratura medievale sull'amore che continua a affascinare le giovani generazioni. Terzo: il petrolio, con lauti proventi da investire nel progetto.Per avere un'idea del terrore suscitato tra i genitori del mondo arabo dall'onda consumistica che ne lambisce le coste, basta guardare le copertine delle riviste da Baghdad a Casablanca: dal prestigioso periodico egiziano «Rose al-Yusuf», creato nel 1925 dalla femminista Fatema al-Yusuf, al più recente «Teens Today» con sede a Abu Dhabi. Il rischio più terrificante lo corrono le donne più giovani, come ripete costantemente «Teens Today»: «Adolescenti nella trappola di Bluetooth». (...) (Fonte: Liberali per Israele, articolo di Fatema Mernissi)
Un modo di sviluppare la responsabilità personale è trasformare l'amore consumistico, artificiale ed egocentrico, nell'amore altruistico per cui Ibn Hazm si è battuto secoli fa. Alla luce delle ansie che attraversano il mondo musulmano, si può arrivare a capire perché i trattati sull'amore, come Il collare della colomba, riscuotano tanto successo in Rete: quando sei spaventato, hai bisogno di qualcuno che ti paventi una soluzione. Ibn Hazm – arabo spagnolo vissuto in tempi difficili come i nostri, sbattuto in prigione dopo essere stato visir, quando i califfi omayyadi sovrani di Andalusia perdevano potere – giunge alla conclusione che il solo rimedio è l'amore autentico, che ti apre ai rischi dell'incontro con l'altro. La sua conclusione è anche la mia.Il consumismo disorienta i giovani perché manipola le loro emozioni, inducendoli a confondere l'amore con l'acquisto e lo sfoggio di beni di lusso. Per Ibn Hazm, invece, la tenerezza è una forza cosmica che ti trasforma in una straordinaria fonte di premurosa generosità. (...)In una religione che, a differenza del Cristianesimo, non liquida il sesso come peccato, gli imam hanno sempre avuto il compito di aiutare i credenti a controllare le emozioni: cosa che ha spinto molti di loro, tra cui Ibn Hazm, a scrivere trattati sull'amore. Né è sorprendente che l'imam al-Qaradawi chiami in suo aiuto un esercito di esperti di discipline moderne. E non crediate si limiti a psicanalisti, sociologi e medici maschi: nel suo sito web si affida in larga misura anche alle donne. I membri dei suoi team, che si occupano di "Problemi dei Giovani e Soluzioni", non esauriscono la loro funzione mettendo in Rete le risposte. Hanno denaro quanto basta (al-Qaradawi vive nel Golfo!) per pubblicare domande e risposte in manuali agili ed economici, come Internet e l'Amore o Il Matrimonio e l'Amore, accessibili a genitori e figli. Non dimentichiamo che, quando diciamo "musulmani", parliamo di milioni di giovani con il solo desiderio di innamorarsi e di sposarsi; cosa che spiega il gran numero di siti concorrenti di IslamOnline.Ciò mi riporta all'altra ragione alla base del terrore musulmano per il consumismo: come scrive lo psicanalista francese Charles Melman, «l'approccio, spesso e volentieri pseudo-commerciale, alle relazioni amorose» impedisce all'individuo di aprirsi all'altro come elemento di un gruppo, con la consapevolezza che ognuno è parte di un sistema cosmico Quando i musulmani leggono il libro di Melman, L'Homme sans gravité. Jouir à tout prix (L'uomo senza gravità: godere a ogni costo), scoprono che anche gli occidentali sono allarmati dal consumismo, e – questa è la novità! – gli imam sono avveduti quanto basta per rendersi conto che l'era del culturalismo tribale è tramontata: la sola strategia vincente per il futuro è quella che s'inserisce in un orizzonte universale. Grazie a internet, i musulmani scoprono che milioni di occidentali spaventati dal consumismo, che rifiutano perché contrario alla loro etica, condividono il loro stesso desiderio di amore universale, e lo considerano l'unica, urgente soluzione per la sopravvivenza. Non può esserci scontro di civiltà, se l'amore universale diventa l'obiettivo di una globalizzazione etica. Per chiarire questo punto, lasciatemi concludere con un esempio. Molti occidentali sono d'accordo con i musulmani nel ritenere irrazionale il rigetto della vecchiaia, che spinge molti e potenti manager di multinazionali, che dovrebbero preoccuparsi di problemi seri, a cercare di apparire eternamente giovani tramite costosi trattamenti contro la calvizie. «Dalle stime relative al 1999 emerge che gli uomini hanno speso 900 milioni di dollari in trattamenti medici contro la calvizie», spiega Peter Conrad nel suo allarmante testo The Medicalization of Society(La medicalizzazione della società). Stando alle sue fonti, «un trapianto di capelli può costare da duemila fino a più di diecimila dollari, a seconda della quantità di capelli trapiantati». Di fronte a questo consumismo malato, lo scontro di civiltà del signor Huntington scompare, per lasciare il posto a un pianeta unito nel suo rifiuto e nel desiderio di un amore cosmico, altruistico come quello di Ibn Hazm.
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lunedì 22 settembre 2008

FRANCIA, NON VUOLE CHE SPOSI UN CRISTIANO, MADRE FERISCE LA FIGLIA


Una madre di famiglia, 49 anni, algerina e musulmana, ha ferito la figlia 20enne, promessa in sposa a un ragazzo francese cristiano. Sarebbero state incompatibilità religiose a scatenare l'ira della donna, che, armata di un coltello rovente, ha provocato un'ustione di secondo grado alla figlia. Da qui la denuncia e la sentenza della procura: sei mesi di detenzione con la condizionale e un periodo di cura di 3 anni.
La donna che vive a Mulhouse, cittadina nel nord della Francia, aveva più volte intimato alla figlia di rompere la relazione con il giovane, arrivando persino a minacciarla di morte. La ragazza temeva che prima o poi la madre sarebbe passata alle vie di fatto. E così è successo.
Agli inquirenti del tribunale cittadino che l'hanno interrogata l'algerina ha ammesso le minacce ma ha aggiunto che non sarebbe mai andata oltre quel gesto. La donna ha espresso poi il proprio rimpianto per quello scatto di violenza. (Fonte: "Liberali per Israele")
Quanto alla figlia, ora è in imbarazzo: "Voglio bene a mia madre" ha detto la 20enne. "La mamma - ha aggiunto la ragazza - aveva incontrato i genitori del mio fidanzato e io speravo che le cose potessero risolversi, ma alla fine mi ha detto che, anche se lui si fosse convertito, il suo sangue sarebbe rimasto quello di un cristiano".La comprensione della figlia tuttavia non è bastata: la procura ha chiesto per la madre sei mesi di detenzione e un periodo di prova e cura di tre anni in una clinica psichiatrica. Il 26 ottobre il giudice vaglierà il caso.
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MOGLI DEVOTE...

Le mogli dell'ottantaquattrenne (ultra)poligamo nigeriano Muhammadu Bello Masaba, arrestato per non aver ripudiato 82 delle sue 86 mogli (per averne solo quattro come consente la sharìa) si sono presentate alla polizia accompagnate da 20 dei 170 bambini avuti in totale dall'uomo, per chiedere la liberazione dell'amato. Lui stesso è sotto i riflettori dopo aver rivelato alla stampa di avere questa "famiglia allargata!". Lo ha spiegato Habibu Lukman, un responsabile al ministero della giustizia dello Stato nigeriano di Niger (centro): "“Sono arrivate al ministero con tre autobus ed hanno protestato con veemenza contro l'arresto e la detenzione del marito,mostrando cartelli con la scritta “siamo legalmente sposati".
Jamatu Nasr egli Islam (JNI), ha lanciato il 21 agosto una sentenza di morte contro il poligamo. Ma gli enti locali hanno deciso di concedergli un termine di due giorni per mettersi in conformità con la legge o, in caso contrario, lasciare il territorio dello Stato. Due settimane fa, il signor Masaba si era finalmente impegnato e promesso di divorziare da 82 delle sue mogli ma non ha tenuto la sua promessa. (Fonte: www.20min.ch ).

Grazie a Vituccio per la segnalazione.

Quello che scriverai al posto di questa frase apparirà dopo aver premuto "Leggi tutto ...".

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domenica 21 settembre 2008

NONIE DARWISH RACCONTA DEL SUO INDOTTRINAMENTO AL JIHAD DURANTE LA SUA INFANZIA A GAZA

Molti di voi conoscono già Nonie Darwish e la sua storia, ma ho deciso di riproporvela.




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LIBANESE GRATA A ISRAELE

Nel 1975, allo scoppio della guerra in Libano, la sua casa venne distrutta dalle formazioni islamiche libanese che si scontrarono con le milizie cristiane. “Vivevo in una cittadina a sud di nome Marjayoun al confine con Israele. Nell’esplosione io sono rimasta ferita, la mia casa è stata distrutta e mio padre è diventato cieco”. Brigitte Gabriel, giornalista e scrittrice di fama internazionale nonché fondatrice di Act for America, spiega in un’intervista al VELINO cosa l’ha spinta a scrivere “They must be stopped”, un best seller fra i più discussi contro l’islamismo. “Fui ricoverata in ospedale per due mesi, durante i quali mi domandavo. ‘Perché ci fanno questo?’. I miei genitori rispondevano: perché siamo cristiani e i musulmani ci considerano ‘infedeli’. A dieci anni capì che mi volevano morta per il semplice fatto di essere di fede cristiana e di vivere in una città cristiana”.
Quella bomba ha cambiato per sempre la sua vita. “Vissi i sette anni successivi in un rifugio senza elettricità, acqua e cibo. Siamo sopravvissuti senza sapere se avremmo visto il giorno seguente”. Da cristiana e da araba, Brigitte parla al suo popolo dell’amore verso lo stato ebraico. “Israele fu l’unico paese che comprese ciò che stava accadendo in Libano e venne in aiuto dei cristiani cercando di ridare loro la democrazia ed espellere i gruppi islamici radicali che avevano conquistato il paese. Israele fu l’unico luogo dove recarci per le cure, dal momento che il Libano ci aveva escluso in quanto associati a Israele. Yasser Arafat aiutava i gruppi terroristici usando il Libano come base da cui attaccare Israele, uccidere gli ebrei e ricacciarli in mare. Israele salvò le nostre vite”. (Fonte: Esperimento, da "Il Velino")
Un amore così forte da spingerla a seppellire i genitori in terra ebraica. “Li portai a Gerusalemme perché volevo onorarli. È quella la Terra Santa dove molti vorrebbero essere sepolti. Volevo inoltre che il mio gesto parlasse da sé e che spiegasse a coloro che non vi sono nati cosa significhi Israele: l’unico paese in Medio Oriente che rappresenta la democrazia, i diritti umani, l’illuminismo, il progresso e la civiltà”.
Quanto alle minacce che le sono arrivate da gruppi radicali, Brigitte taglia corto: “Se non parliamo adesso, quando?”. Ha un debito anche per l’America. “Sono stata così fortunata a crescere i miei figli negli Stati Uniti. L’America è il sogno diventato il mio indirizzo. Mi sveglio al mattino e ringrazio Dio. Non c’è posto simile all’America dove poter vivere, esprimere le proprie opinioni. È il paese dell’opportunità, il cielo è il suo unico limite. Il momento più bello è stato quando in tribunale ho giurato come cittadina americana”.
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sabato 20 settembre 2008

IL CORAGGIO DI DENUNCIARE

Mehwar significa baricentro, ma per le palestinesi vittime di abusi significa speranza.

Ghadeer, Suzan, Lina, Inas, Amira, Feda, Bahia, Dalal, Nisreen, Noha, Rania, Habela, Marleen, Neven, Rana, Gherda. Sono le ospiti del centro antiviolenza Mehwar, di Beit Sahour, cittadina ai piedi di Betlemme. Ragazze dai 15 ai 30 anni, scuri occhi tristi e sguardi duri, accomunate da terribili storie di violenza, soprattutto da parte dei padri, ma anche da altri familiari e dai mariti. Ma queste giovani donne oggi condividono anche il fatto di aver trovato un centro, il proprio centro dentro di sé che si rafforza con la condivisione e la solidarietà; un baricentro insomma: questo del resto il significato letterale della parola Mehwar.
“Il centro è stato aperto nel febbraio dal 2007, grazie al sostegno del ministero affari sociali dell’ANP, della cooperazione italiana e del centro antiviolenza Differenza Donna di Roma” spiega Najin, una delle operatrici, “è una risorsa molto importante, poiché l’unica soluzione che l’ANP aveva per le donne abusate era la prigione”. (Fonte: articolo + 1 foto da "Peace Reporter", 4/8/2008)
Sembra assurdo, ma una donna vittima di abuso che scappa o che denuncia, normalmente non trova sostegno nella società, e l’Autorità Palestinese per ora è capace di mettere a disposizione solo i luoghi più sicuri che dispone, le prigioni appunto. Fortunatamente oggi una alternativa c’è, ed è appunto Mehwar, che finora ha ospitato 79 donne, provenienti da tutta la Cisgiordania. La maggior parte dei casi è di incesto, quindi di padri che violentano le proprio figlie, di solito quando queste hanno tra i 6 e i 12 anni, praticando preferibilmente violenza anale perché così, nella perversione del loro ragionamento e delle regole patriarcali che li sostengono, queste bambine restano vergini, quindi ancora idonee per essere immesse sul mercato dei matrimoni e smerciate al miglior offerente. E’ ciò che è successo a Dalal, una delle ospiti del centro, venduta a 12 anni in sposa ad un uomo di 50 anni, e, dopo un anno, tolta al marito dal padre che l’ha ceduta ad un altro uomo, ovviamente in cambio di una cospicua somma, con il nome della sorella. Questo secondo marito, uno spacciatore, ha violentato e picchiato Dalal per molti anni, fino a che lei ha trovato il coraggio di scappare con i suoi 4 bambini.
“Sull’esempio dei padri” prosegue Najin, anche fratelli o altri parenti abusano delle bambine, consapevoli delle protezione famigliare e sociale di cui godono: se una bambina riesce a trovare il coraggio di raccontare alla madre, o alle donne della famiglia, la violenza subita, spesso riceve l’ordine di tacere per non macchiare l’onore del clan. “Dopo i famigliari vengono i mariti” aggiunge Najin, e questo di solito accade alle ragazze dai 15 anni in su. Qui sono arrivate mogli che hanno subito violenza fisica, psicologica, economica per anni e che poi, magari anche dopo vent’anni, hanno avuto il coraggio di venire a Mehwar. Infine ci sono anche ragazze che vogliono sposare un ragazzo scelto da loro e quindi si rivolgono al centro per essere sostenute in questa scelta anti-tradizionale.
Il centro e’ un edificio formato da due blocchi uno con i servizi, l’altro con le case. I servizi offerti sono di tipo assistenziale: consulenza psicologica, medica e legale, ma anche ludica e sociale; ci sono un nido per i bambini, una palestra, aperta anche alle donne della zona, e una caffetteria che è diventata luogo di ritrovo anche per le donne che non vivono nel centro. Il secondo blocco è formato dalle casette dove vivono le ragazze: stanze da letto che variano a seconda del numero dei figli, soggiorno e tutti i confort della società moderna, dalla lavatrice a internet. Ci sono poi anche gli spazi in condivisione, poiché a Mehwar il metodo di vita è comunitario: le faccende domestiche sono svolte a rotazione da tutte le donne, che di volta in volta si occupano delle pulizie, dei pasti, del giardino, ma anche dell’organizzazione dei corsi di inglese, informatica, ceramica. Una volta a settimana c’è un momento assembleare in cui vengono discusse tematiche quali la figura del padre, l’amore, la libertà, lo studio, per lavorare assieme al cambiamento di se stesse. Se all’interno il clima è di armonia e solidarietà ben diverso è il rapporto con l’esterno che è “uno dei punti più problematici” spiega Amina, un’altra delle operatrici: “le nostre ospiti all’inizio erano viste come dei mostri, solo perché avevano lasciato la famiglia e il ruolo delle tradizioni e dei clan familiari è ancora di primaria importanza nella nostra società. Però piano piano siamo riuscite a smantellare questo pregiudizio” conclude Amina “aprendo il centro alla comunità di Beit Sahour e di Betlemme e ora tre ragazze che stanno per lasciare Mehwar stanno cercando casa assieme, fatto pressoché inimmaginabile qui. Le vite di queste donne grondano di dolore, rabbia, ma anche di speranza, come dimostra il caso di Inas, 22 anni, un corpo massiccio che cozza contro la dolcezza del viso e della voce: “dalla mia vita vorrei cancellare il ricordo della violenza di mio padre, e del bambino che mi ha fatto mettere al mondo”; Inas ha poi abbandonato questo figlio e ha iniziato a studiare medicina per potere essere utile alle donne che, come lei, hanno subito violenza.
Lina, velo di pizzo nero sul capo, esile e fredda, si ritiene fortunata “perché in questo centro ho trovato aiuto e solidarietà che mi permette oggi di affrontare il passato con forza e avere il coraggio di vivere il futuro”. Lina è una di quelle ragazze che oltre alla violenza del padre, subita dall’età di 14 anni, ha dovuto fare i conti anche con l’omertà della madre, che le ha ordinato di tacere e “questa è una delle cose più brutte della mia vita”. Nonostante tutto Lina sa ancora apprezzare i fatti positivi, come lo studio, il lavoro, e l’opportunità di potere vivere con la sorella, anch’essa ospite del centro. “Non pensavo di trovare il coraggio di denunciare” ammette la piccola Feda, dalle gambe corte corte a causa di una malattia, violentata da un suo vicino di casa. “Invece grazie a Mehwar l’ho trovato, sono andata in tribunale e sono davvero fiera di averlo fatto, vorrei che tutte le donne denunciassero e che la legge facesse finalmente giustizia”.
Giustizia: questa la domanda avanzata da queste giovani e il loro esempio e’ una lezione per tutte e tutti noi: se ancora non si possono evitare, in tutto il mondo però queste violenze si possono combattere; è ciò che sta facendo Amira, che da pochi giorni ha lasciato Mewhar per andare a vivere con i suoi quattro figli in una casa nelle vicinanze, e che in tribunale è riuscita ad ottenere la custodia dei suoi bambini, fatto non comune da queste parti, mentre sta ancora lottando per vincere anche il processo per stupro. Ogni causa vinta è un precedente per le altre donne, che le sprona a denunciare, a battersi per ottenere giustizia e, soprattutto, per iniziare una vita all’insegna dell’autodeterminazione, parola forse un poco stantia alle orecchie di noi occidentali ma che invece ha ancora, qui e non solo, un significato concreto e molto attuale. Non usa questo termine, Hadir, ma il senso è proprio quello, vale a dire la libertà di scegliere la proprio vita: “prima di venire a Mehwar avevo paura di tutti ed ero sempre sottomessa. Qui ho imparato a dire NO, e sarei capace di dirlo anche al primo ministro se mi ordinasse di fare qualche cosa che non voglio!”. Con questa forza Hadir e’ ora pronta per lasciare Mehwar e dalla situazione protetta del centro passare nuovamente alla vita nella società, sicuramente più dura ma pure più stimolante, anche in termini di sfide da vincere.
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venerdì 19 settembre 2008

DONNE ARABE DENUNCIANO IN TV LA LORO SEGREGAZIONE

Il canale satellitare Orbit rompe i tabù dell'ortodossia islamica, e manda in onda otto donne a denunciare la segregazione femminile in Arabia Saudita e chiedere maggiori diritti.
Il programma ha segnato una svolta per un paese considerato tra i più conservatori del mondo musulmano.
Le giovani donne sono andate in Tv coperte da veli colorati, al posto dell'abaya, il tipico velo nero delle saudite.
E hanno parlato di com’è difficile la vita delle ragazze musulmane in Arabia Saudita.
Suad Jaber, una pediatra, ha esordito: "Non abbiamo nessuna delle libertà fondamentali che sono invece garantite alle donne musulmane in altri Paesi; qui dobbiamo chiedere l'autorizzazione di un familiare di sesso maschile anche per ottenere un semplice documento di identità". (Fonte: sito di ACMID-DONNA)
La tradizione saudita costringe le donne a non rivolgere la parola a un uomo che non appartenga alla famiglia, a non camminare sottobraccio ad una persona di sesso opposto. Le donne inoltre non possono far politica e subiscono grosse restrizioni nel campo del lavoro. Non possono inoltre togliersi il velo in pubblico e devono restare coperte interamente da capo a piedi.
"Guidare è una necessità, non un lusso ha lamentato Samar Fatani, un'altra ospite del programma - c'è chi si indebita per dover assumere un autista e pagargli lo stipendio".
Maha Fitaihi, ha chiesto più partecipazione delle donne alla vita. "Il consiglio consultivo, la Shura, non ha nessuna rappresentante donna, neppure quando si tratta di discutere di temi come la disoccupazione femminile", ha detto.
Zein Darandari, un'impiegata di banca, ha invece sollevato il problema della disoccupazione.
"Le donne hanno bisogno di lavorare. Più attenzione dovrebbe essere data alle donne sole e divorziate per le quali è difficile sbarcare il lunario", ha affermato.
Il programma ha avuto un grande successo, e le donne sono state immediatamente invitate in altre trasmissioni.
Da quando è andato in onda il dibattito, sto ricevendo fino a 80 telefonate al giorno - ha detto Maha Fitaihi molte sono venute da donne che ci hanno accusato di non essere state più esplicite, ma ci vuole tempo".
Il dibattito non ha toccato questioni sociali di maggiore importanza come la legge sul divorzio o la violenza domestica. Tuttavia è stato considerato dal pubblico femminile un primo passo fondamentale in direzione di una maggiore libertà, anche nel campo dell'informazione.
"E' la prima volta - ha detto - che donne saudite parlano apertamente in pubblico dei loro problemi e chiedono maggiori diritti", ha dichiarato con soddisfazione Siham Fatani, docente all'università di Gedda.
Dalle pagine dell'Arab News, Abeer Mishkhas - noto editorialista del giornale "ha detto che la trasmissione riflette il nuovo impegno del governo saudita, intenzionato a cambiare l'immagine negativa del regno, soprattutto dopo gli attacchi terroristici del 12 maggio scorso a Riad.
''I media godono una maggiore libertà, possono criticare per la prima volta il governo e le sue decisioni'', ha dichiarato Mishkhas.
''I diritti dobbiamo chiederli, perché nessuno ce li darà. Speriamo che ci siano altri programmi come questo. Dobbiamo avere la possibilità di farci ascoltare", ha commentato Alia Banaja, una delle partecipanti al programma.
Le saudite sembrano sempre più decise a essere protagoniste della lotta per la loro emancipazione.
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giovedì 18 settembre 2008

"IL MIO RAMADAN IN CASERMA"

Caporale Nabila, prima musulmana nell'esercito italiano.



AOSTA, 17 SETT - Il tricolore che sventola alle sue spalle le dona fierezza. Nabila sorride, sotto il cappello degli alpini. La divisa lascia intravedere la freschezza dei diciotto anni e l’orgoglio di essere un soldato. Ultima di dieci figli, Nabila El Habachi è la prima donna musulmana arruolata nell’esercito italiano. «Ho realizzato un sogno che avevo fin da bambina - racconta - Da quando mio cugino è entrٍato a far parte dell’esercito francese anch’io ho desiderato poter servire la nazione a cui appartengo, indossando la divisa. Avevo solo tredici anni e da allora non ho più cambiato idea». La sua famiglia, originaria del Marocco, è arrivata in Italia quarant’anni fa. Dopo un periodo trascorso a Sarno, in provincia di Salerno, si è trasferita a Monzambano, un paese di cinquemila abitanti vicino a Mantova. «Mio padre lavorava
in provincia per un’azienda del posto.
E’ rimasto invalido a causa di un incidente sul lavoro. La mia è una storia positiva, di integrazione riuscita: sono nata in Italia e mi sento italiana a tutti gli effetti. I miei genitori e i miei fratelli, invece, sono nati in Marocco. Ma non hanno mai avuto problemi ad integrarsi né hanno visto limitata la loro libertà di culto. Mia madre e una delle mie sorelle indossano il velo ma a me non l’hanno mai imposto. Così ho scelto non indossarlo». Questo è il mese del Ramadan, in cui i musulmani praticanti debbono astenersi, dall’alba al tramonto, dal bere, mangiare, fumare e praticare attività sessuali. «Io sono credente e quindi anche per me questo è il mese del Ramadan - precisa - rispetto i precetti della mia religione, anche se non sono solita andare a pregare in moschea. Non mangio carne di maiale, ma nelle mense militari trovo sempre una scelta alternativa». Nabila vive e lavora ad Aosta, al centro addestramento alpino, dal 27 maggio scorso. «Sono felice di essere stata assegnata qui. Mi piace questo paesaggio di montagna e mi trovo molto bene con i colleghi. Poi, il mio sogno è sempre stato quello di entrare a far parte del corpo degli alpini e l’ho realizzato». Volontaria in ferma prefissata di un anno, tra poche settimane riceverà il grado di caporale e spera di poter proseguire la carriera nell’esercito. (Fonte: "La Stampa", ACMID-DONNA e Msn News per la foto in basso a destra)
Dopo un anno di servizio Nabila potrebbe partecipare ad una delle missioni militari in cui è attualmente impegnato l’esercito italiano. «E’ proprio quello che mi auguro. Del resto è uno dei motivi che mi ha spinto ad arruolarmi. Sarebbe un’esperienza umana e professionale impagabile». Non dovrebbe essere così difficile per una ragazza che parla correttamente la lingua araba e conosce gli usi e i costumi musulmani, due requisiti che potrebbero rivelarsi molto utili nelle missioni in Afghanistan e in Libano.
I genitori originari del Marocco assistono al giuramento della figlia alla Repubblica. E’ stato difficile comprendere la sua scelta di intraprendere la carriera militare? «No. Anzi. Ne sono felici e mi incoraggiano a proseguire. Il loro sostegno è molto importante per me».
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PROVINCIA DI ROMA SOSTIENE PROGETTO DONNE MAROCCHINE

ROMA, 16 SETT - (Adnkronos) - La Commissione delle Elette della Provincia di Roma ha incontrato un gruppo di donne della Cooperative Femminine Bouzama di Essaouira, un villaggio del Marocco affacciato sull'Oceano Atlantico. Le donne di questa cooperativa gestiscono un piccolo laboratorio che produce l'olio di Argan, ancora oggi lavorato con una tecnica artigianale di millenaria sapienza. La presidente della Commissione delle Elette, Roberta Agostini, la presidente del Consiglio Provinciale, Giuseppina Maturani e la presidente del Comitato per le Pari Opportunità, Flavia Leuci, si sono impegnate a sostenere il progetto per l'ampliamento del laboratorio di lavorazione e commercializzazione del prodotto, utilizzato sia per l'alimentazione che per la cura della persona. "Si tratta di un progetto di grande importanza - dichiara la presidente della Commissione delle Elette, Roberta Agostini - al quale vogliamo dare il nostro sostegno lavorando per costruire una rete di enti locali, insieme con il V Municipio, per uno sviluppo in grado di unire il sostegno al lavoro delle donne alla tutela dell'ambiente e della biodiversità". (Fonte: ACMID-DONNA)
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UNA DONNA SEQUESTRATA IN MAROCCO PER UN MATRIMONIO FORZATO

“Ero stata invitata da una vecchia amica d'istituto universitario, Nadia, e suo marito Rachid, per passare una settimana di vacanze con loro in Marocco. Nadia era riuscita a convincermi nonostante le mie riserve. All'inizio,é andato tutto bene. Ma, dopo tre giorni, il fratello di Rachid, Mustapha, mi ha chiesto di sposarlo. Ho rifiutato, ma non si fermava di chiedermelo,é diventato oppressante", dice Jennifer. Al termine di una settimana, Rachid annuncia che il soggiorno durerà più a lungo. È manager di artisti e gli spiega che si ritiene per firmare contratti e che non può dunque riportarla in Francia come previsto per la partenza. “Ho visto musicisti, contratti, io non mi sono insospettita immediatamente, riconosce la giovane donna. Ma le cose iniziano a rovinarsi. Questa volta, è Nadia che diventa oppressante e lui intima di accettare un matrimonio bianco se non ne vuole uno vero. Jennifer rifiuta sempre ed ottiene la promessa di raggiungere Casablanca il giorno dopo per prendere un autobus quindi una barca per la Francia. “ Ho provato a fuggire ma, con il calore, non ci sono riuscita". (Fonte: "Le Parisien" e Vituccio, 16/9)
Il giorno dopo , direzione Casablanca. Ma è trattenuta nell'automobile mentre Nadia va al consolato Francese per chiedere le carte necessarie per il matrimonio. Jennifer è riportata nel piccolo villaggio. Nel frattempo, la coppia ha preso possesso del suo passaporto e rifiuta di renderglielo. Ormai, la famiglia dà soltanto pane da mangiare a Clara (sua figlia, ndr.) e più questione di avere l'acqua in bottiglia! “Si obbligava a bere l'acqua del pozzo, che non era buona. Clara ha iniziato ad essere malata. Ho provato a fuggire di nuovo,ma con il calore, non ci sono riuscita". A Angoulême, la madre di Jennifer, Patricia, preoccupatissima, chiama il ministero degli esteri, contatta il commissariato, che previene il procuratore. La polizia marocchina è prevenuta. La polizia giudiziaria marocchina viene a cercare Jennifer e sua figlia, ma le lascia in un hotel, senza prevenire il consolato Francese. Sabato scorso, la madre di Jennifer dà l'allarme al consolato, ma il standardista rifiuta di trasferire l'appello al responsabile di permanenza. Dopo l'intervento di un giornalista “della Charente libero", il consolato invia finalmente un emissario a cercare la giovane mamma e sua figlia all'hotel di Khouribga. Jennifer e Clara sono finalmente rientrate in Francia giovedì sera, grazie ad un biglietto d'aereo pagato da Patricia. Clara soffre in particolare di una gastroenterite parassitaria e di un'anemia. Ieri, Jennifer è andata a depositare reclamo per sequestro.
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MANCA L'ACQUA, DONNE IN RIVOLTA: NIENTE SESSO

Ankara - A Kirka, un villaggio al sud della Turchia, c’è carenza d’acqua. La colpa, pare, sia degli uomini del villaggio che non fanno nulla per risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico, costringendo le loro compagne a marciare ogni giorno per ben 13 chilometri di distanza dalle loro abitazioni per raggiungere la sorgente d’acqua più vicina. Ma le signore di Kirka si sono stufate, e hanno indetto uno sciopero originale per costringere i propri mariti ad affrontare l’emergenza: niente sesso finché non ci sarà acqua nel paese.
I maschi, come prevedibile, non accettano di buon grado questa decisione, tanto che il sindaco di Kirka, Osman Arslan, teme che questo sciopero possa diventare il principale motivo di separazioni e divorzi nel paese. […] (Libero)

Ha 86 mogli: condannato»

Un tribunale musulmano in Nigeria ha condannato al carcere un predicatore di 84 anni sposato com 86 mogli. L'uomo si era rifiutato, come ordinato dalle autorità islamiche locali, di divorziare da tutte le donne meno quattro. Il predicatore, che vive con le sue mogli e 170 figli nella città di Bida, si è sempre proclamato innocente. "Non divorzierà da nessuna delle sue mogli. Anzi, intende sposarne altre", ha detto un suo portavoce. Le autorità hanno accusato Mohammed Bello di "credo religioso offensivo" e "matrimoni fuorilegge" dopo che i leader musulmani locali gli avevano concesso tempo fino al 7 settembre per conformarsi alla legge islamica della sharia, la quale dispone che un uomo non può avere più di quattro mogli per volta. (Tgcom)
(Fonte: "Unpoliticallycorrect", 17/9)

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IRAN, CONDANNATE DUE FEMMINISTE "DISTURBANO L'ORDINE PUBBLICO"

La condizionale di 5 anni sospende la condanna di una giovane a 35 frustate e 1 anno di carcere. Si inasprisce la repressione del regime contro le donne che chiedono pari diritti.

TEHERAN - Volevano gli stessi diritti degli uomini, in tema di divorzio, custodia dei figli ed eredità. Ora rischiano la frusta e il carcere. Per le femministe Massoumeh Zia e Marzieh Morteza Langheroudi l'accusa è di "disturbo dell'ordine pubblico". La condanna - confermata oggi in via definitiva dal Tribunale rivoluzionario di Teheran - è di 35 frustate e 1 anno di carcere per Zia e di 10 frustate e una reclusione di 6 mesi per Langheroudi. Ma l'esecuzione della condanna è sospesa a un termine condizionale.Langheroudi, 55 anni, dovrà stare attenta a non "sgarrare" per i prossimi due anni, se non vuole andare incontro all'umiliazione della punizione corporale e alla durezza del carcere. La sua compagna di lotta, la 31enne Zia dovrà comportarsi bene per cinque anni. Certo, non sarà semplice "rigar dritto". Infatti, in concreto, le donne hanno semplicemente fatto un po' di volantinaggio. Hanno cercato di raccogliere firme, hanno espresso un dissenso e scritto articoli femministi sul Web. Hanno chiesto, insomma, di non essere considerate inferiori. La più giovane, Zia, fu arrestata durante un corteo nel giugno del 2006, insieme ad altre 70 attiviste. Langheroudi, è stata arrestata con altre 30 donne quando, poco dopo, si riunirono sotto al tribunale per chiedere la liberazione delle amiche. Si prese la condanna a un anno di carcere anche un uomo,Amir Yaqoubali, per aver manifestato al fianco delle femministe. (Fonte: "Kritikon", 16/9)

La campagna che ha visto incarcerare dozzine di donne si chiamava "un milione di firme". Con le adesioni raccolte (in Iran, ma anche all'estero) le donne avrebbero chiesto l'abolizione delle norme discriminatorie nei loro confronti per quel che riguarda matrimonio, divorzio, custodia dei figli ed eredità. Ma la repressione del regime contro le donne si fa sempre più violenta. La leader delle femministe, la 21enne Hana Abdi, è detenuta in una provincia sperduta dell'Azerbagijan orientale, colpevole di "complotto contro la sicurezza dello Stato". E' attesa la sentenza definitiva, ma questa nuova sentenza non è certo un segnale incoraggiante.
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