venerdì 23 dicembre 2011

INTERVISTA DI DUE RAGAZZE MUSULMANE DI "YALLA ITALIA", IL BLOG DELLE SECONDE GENERAZIONI

E AUGURONI A TUTTI DI BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO! A PRESTO!

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giovedì 17 novembre 2011

PER CHI HA FACEBOOK

Carissimi, è parecchio che non aggiorno il blog. Un po' forse perchè i post sono troppo lunghi, un po' perchè non si prestano a commenti, vedo che siete intervenuti solo in uno degli ultimi.
Per ora sto continuando a postare solo su Facebook, su cui ho un gruppo omonimo. Invito chi vuole e può, a seguirmi lì e a chiedere di iscriversi al gruppo ( lo riconoscerete dalla foto di due ragazze velate, una delle quali fuma). Prima o poi, probabilmente, riprenderò anche qui. Un salutone a tutti! Leggi tutto ...

mercoledì 19 ottobre 2011

27 DONNE TRA I TERRORISTI GIA' RILASCIATI DA ISRAELE IN CAMBIO DEL SOLDATO GILAD SHALIT

Tra loro:



Muna Awana, condannata all'ergastolo nel 2001 per aver adescato su Internet con avances sessuali un 16enne, Ofir Rahum, fingendosi israeliana come lui. Il ragazzo l'ha seguita a Ramallah, dov'è stato ucciso da alcuni complici della ragazza e tenuto legato al cofano di un'auto. "L'assassina internauta", com'è soprannominata in Israele, è accusata di aver avuto "comportamenti violenti" (poi vedremo quali) con alcune compagne di cella e non vuole tornare a Gaza perchè teme vendetta. Rimarrà in Egitto.


Ahlam Tamimi il 9 agosto 2001 la studentessa giordana Ahlam passeggia a Gerusalemme vestita all’occidentale insieme a un amico, Ezzedin. Lui ha una chitarra. Notarono una pizzeria affollata, l’ordine di Hamas, della quale lei è stata la prima donna arruolata per una missione suicida, era quello di fare una strage di ebrei. Lei si accomiatò, lui si diresse verso la pizzeria e fece una strage con l’espolivo nascosto nella chitarra. Furono 16 i morti, Ahlam venne condannata a 16 ergastoli. Lei ai giudici disse che le vittime israeliane erano poca cosa rispetto a quelle palestinesi. I genitori di Malki, una ragazza di neanche 20 anni uccisa da Ahlam, chiedono ora di non dimenticarla.





Un'altra, Wafa al-Bis, ha voluto attorno a sè tanti bambini, che ha abbracciato, baciato e ai quali, soprattutto, ha detto che vorrebbero che seguissero il suo esempio e diventassero "shahid". Wafa è stata arrestata nel 2005, a 21 anni, perchè ha tentato di "immolarsi per Allah", parole sue all'epoca. Nascondeva dieci chili di esplosivo in pantaloncini confezionati per seminare la morte all'ingresso dell' ospedale Soroka di Beer Sheva (Neghev), dove la studentessa di sociologia a Beit Lahya (Gaza), era stata curata sei mesi fa in seguito a gravissime ustioni provocatale dalla esplosione accidentale in casa di una bombola di gas. «Da noi era stata curata con dedizione, accudita giorno e notte» aveva detto allora il direttore dell'ospedale, il dottore Eitan Hay-Am.

Ha "vinto" anche Nihad Zakut, che, bambina nel 1998, aveva commosso Clinton in visita a Gaza. L'ex presidente americano le aveva promesso che in un mese avrebbe fatto liberare suo padre, in carcere a vita e condannato all'ergastolo per aver uccuso un'israeliano. Ora Nihad ha 24 anni, 2 figlie, e il padre è libero.
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SE IL NOBEL PER LA PACE VA A UNA "SORELLA MUSULMANA", di Valentina Colombo

«Nel nome di Dio Clemente, Misericordioso, alla sorella Tawakkul 'Abd al-Salam Karman [nella foto], presidente dell’organizzazione "Giornaliste senza catene", membro del Consiglio direttivo del Raggruppamento yemenita per la Riforma, saluti e stima. Con immensa gioia abbiamo ricevuto, in seno al Raggruppamento yemenita per la Riforma, l’annuncio del conferimento alla vostra persona del Premio Nobel per la Pace come prima donna araba che riceve questa onoreficenza e prima personalità yemenita a godere di questo attestato di stima internazionale. Ci congratuliamo per questo raggiungimento storico e riteniamo che questa vittoria sia di sostegno alla rivoluzione pacifica yemenita e alla donna yemenita che combatte e che è consapevole della propria capacità di vincere nonostante gli ostacoli dell’arretratezza e il retaggio della tirannide che separano il nostro popolo dal progresso».
Questo è l’incipit del comunicato dell’8 ottobre 2010 a firma di Muhammad ibn Abd Allah al-Yadumi a seguito dell’annuncio della vincita del Premio Nobel per la Pace all’attivista yemenita Tawakkul al-Karman. Ebbene, molti di noi hanno gioito perché finalmente una donna araba, tra l’altro simbolo della "primavera" yemenita, vedeva riconosciuto il proprio sforzo, il proprio coraggio. Hanno esultato anche intellettuali laici yemeniti come la politologa Elham Manea, di origine yemenita e attualmente residente in Svizzera, e Ali al-Muqri, scrittore e intellettuale yemenita.
Purtroppo, come ha ricordato oggi Mashari al-Dhaidi sul quotidiano internazionale arabo Asharq al-awsat, non andrebbe mai dimenticato che il Premio Nobel per la pace è un premio politico, «fa parte degli strumenti di pressione morbida per realizzare uno specifico percorso di pace o stabilità, secondo una prospettiva occidentale». È sufficiente sapere che il Raggruppamento yemenita per la Riforma è il partito che rappresenta i Fratelli musulmani in Yemen e che Tawakkul Karman è figlia di 'Abd al-Salam Khalid Karman, membro dello stesso partito. Il partito per la Riforma, come si evince dal programma politico pubblicato sul sito ufficiale, agisce in nome dell’islam e vuole l’applicazione della sharia, propugna l’uguaglianza tra i credenti senza distinzione di sesso, ma la shari’a prevede che la donna vale la metà dell’uomo. Tawakkul Karman è sì un'attivista, ma un'attivista politica. Non c’è dubbio che sia il simbolo di una rivoluzione, ma si situa nel continuum delle "primavere" arabe che stanno assistendo al predominio dei movimento dei Fratelli musulmani, organizzati ed economicamente forti.
C’è anche chi ha esaltato la Karman come la donna che si è strappata il velo. Si tratta di una mezza verità: nel 2004 durante una conferenza sui diritti umani la vincitrice del Nobel per la pace si è tolta il velo integrale nero, indossato dalla stragrande maggioranza delle donne yemenite, ciononostante lo ha sostituito con il velo semplice che lei definisce "islamico". Anche il comunicato pubblicato sul sito del suo partito a seguito di una manifestazione per festeggiare il Nobel recita che il premio è «fonte di vanto e onore non solo per la donna yemenita, ma per la donna araba e il velo islamico». Quindi la Karman ha sostituito il velo nero tradizionale, "non islamico", a favore di un velo variopinto che è non tanto il simbolo della donna musulmana, quanto della donna legata al movimento dei Fratelli musulmani o per lo meno che indossa il velo come simbolo politico e/o identitario. Il Premio Nobel segue l’International Woman of Courage conferitole dal Segretario di Stato americano Hillary Clinton e dalla first lady Michelle Obama. Tutto conferma la politica statiunitense e occidentale volta allo sdoganamento del movimento dei Fratelli musulmani. E quale miglior esponente e simbolo di una donna giovane e determinata come la Karman. In un’intervista rilasciata nel giugno 2010 aveva dichiarato che sarebbe arrivato il giorno in cui «i violatori dei diritti umani pagheranno per quel che hanno fatto nello Yemen». Non posso che concordare se si riferisce al presidente yemenita Saleh, ma mi domando se i diritti umani previsti dalla sharia che il suo partito vorrebbe introdurre a tutti i livelli del paese corrispondono a quelli universali.
Ha ragione Mashari al-Dhaidi quando afferma che «Tawakkul Karman non è Madre Teresa, ma un’attivista politica che agisce in accordo alle direttive e alle esigenze politiche e sociali del proprio partito». Ancora una volta l’occidente ha scelto tra gli eroi e le eroine della “primavera araba” quella più politicizzata e soprattutto più vicina alle proprie politiche miopi nel Medio Oriente (e di fatto anche antioccidentali!). (Fonte: http://www.labussolaquotidiana.it , 13/10) Leggi tutto ...

sabato 8 ottobre 2011

A TRE DONNE IL PREMIO NOBEL PER LA PACE

Da sinistra: la yemenita Tawakkul Karman, la Presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf e la sua connazionale Leymah Gbowee

Assegnato ad Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia, alla sua concittadina Leymah Gbowee e all'attivista yemenita Tawakkul Karman il premio Nobel per la pace 2011.

Come ha riferito il portavoce da Oslo, il premio è stato assegnato a Ellen Johnson Sirleaf, Leyman Gbowee e Tawakkul Karman "per la loro lotta non violenta per la sicurezza delle donne e per i loro diritti ad una partecipazione piena alla costruzione della pace". Si tratta di un riconoscimento del rafforzamento del ruolo delle donne, in particolare nei paesi in via di sviluppo.
Ellen Johnson Sirleaf e' la prima presidente donna di uno stato africano, eletta nel 2005; economista formatasi ad Harvard, è stata condannata a dieci anni di prigione per aver criticato pubblicamente il regime militare, ma è stata liberata dopo poco. Al momento della sua elezione ha pronunciato uno storico discorso chiedendo agli Stati Uniti di aiutare la Liberia a "divenire un faro splendente, un esempio per l'Africa e per il mondo di cosa può ottenere l'amore per la libertà".
Leymah Gbowee, anche lei liberiana, avvocato, e' un'attivista pacifista che ha contribuito a mettere fine alle guerre civili che hanno dilaniato il suo paese.Ha fondato un gruppo di donne cristiane musulmane per sfidare i signori della guerra in Liberia.Tra le iniziative più note dell’attivista, nota anche come la “guerriera della pace”, va ricordato “lo sciopero del sesso”, che costrinse il regime di Charles Taylor ad ammetterla al tavolo delle trattative per la pace. Nel 2009 ha vinto il Profile in Courage Award.
Yemenita è invece Tawakkul Karman, giornalista e fondatrice dell'associazione "Giornaliste senza catene" che si occupa di diritti delle donne e democrazia nello Yemen, paese negli ultimi mesi in preda a gravi conflitti sociali e politici. E' la leader della "primavera araba" yemenita e a gennaio è stata arrestata. E' membro del partito islamico conservatore "Al-Islah", primo gruppo d'opposizione, ma nel 2004 si toglie il niqab, preferendo il "semplice" hijab e si è scontrata con coloro che sono favorevoli ai matrimoni tra minori, di bambine in particolare, una vera piaga in Yemen. (Fonte: http://www.perlapace.it/ , 7/10)


E in più: LA LUNGA MARCIA DELLE AFRICANE DIVENUTE ARTIGIANE DELLA PACE


http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/15c229af0e3e5fabef8092929a5d5d96.pdf

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IRAN, FIDANZATI SI SUICIDANO DOPO UN INGIUSTO ARRESTO: IL WEB SI RIBELLA AD AHMADINEJAD



Messi in cella per un'amicizia scomoda. Lei è stata minacciata di stupri. Si sono uccisi a un mese di distanza l'uno dall'altra.

- Li hanno definiti i "Romeo e Giulietta" di Teheran, si chiamavano Nahal Sahabi e Behnam Ganji e sono morti suicidi a distanza di poche settimane l'una dall'altro. Lei 28enne maestra d'asilo, lui 22enne studente. Ganji è stato arrestato perché vicino ad un attivista, otto giorni di galera che lo hanno distrutto fino al suicidio. Un dolore che la bella Nahal non ha potuto sopportare. La loro storia, denunciata dagli attivisti, è diventata un simbolo.
Il Times online racconta come la tragica fine dei "Romeo e Giulietta" iraniani si sia diffusa rapidamente sui siti web e abbia scioccato gli iraniani: "E' la storia di due giovani che non avevano nulla a che fare con la politica, che si amavano e volevano vivere, ma hanno trovato, a causa del carcere, una fine improvvisa", dice Amir, che era amico della coppia. "Ognuno si può identificare con loro. Ognuno sente che può succedere anche a lui. Nessuno si sente al sicuro".
Ganji, 22 anni, era studente all'Università di Teheran. Viveva con Koohyar Goudarzi, 26 anni, un amico che era stato arrestato nel corso delle manifestazioni seguite alla controversa rielezione del presidente Ahmadinejad nel 2009. Goudarzi era stato un anno in prigione, espulso dall'università e con il divieto di riprendere la sua attività politica.

Arrestati per un'amicizia "scomoda" al regime


E' stata questa la causa della sfortuna di Ganji. Nella notte del 31 luglio agenti della sicurezza hanno fatto irruzione nel loro appartamento, hanno arrestato entrambi e li hanno trascinati nella tristemente nota prigione di Evin a Teheran. Non molto dopo sono state arrestate anche la fidanzata Sahabi e la madre di Goudarzi, nella città di Kerman. Ganji è stato detenuto per otto giorni, alcuni dei quali in isolamento. Ciò che gli è accaduto in quel periodo non è chiaro, ma quando è uscito era un uomo distrutto.
Si rifiutava di parlare del suo calvario. Non voleva vedere i suoi amici nè rispondere alle loro telefonate. Aveva il terrore di essere arrestato di nuovo e, la notte del primo settembre, si è suicidato nel suo appartamento con una overdose di medicinali.

La minacciavano di "disonorarla" (alcune fonti riportano che i due ragazzi sono stati violentati entrambi, ndr)


Sahabi, 28 anni, è rimasta nel carcere di Evin per tre giorni e, secondo l'amico Amir, coloro che la interrogavano l'hanno ripetutamente minacciata di "disonorarla". La ragazza viveva nel continuo incubo di essere violentata. Il suicidio del suo ragazzo l'aveva sconvolta. Dal suo blog emergeva sempre di più il dolore e lo strazio, ma anche il senso di colpa per non aver potuto fare nulla per aiutare il suo ragazzo.
"Forse, se tu sapessi quanto qualcuno ti ama, potresti tornare dalla morte", scriveva Sahabi. Poi, giovedì mattina, si è suicidata nella sua stanza, in casa dei genitori a Teheran. Come il suo ragazzo, lo ha fatto con un'overdose. E lo ha fatto nello stesso giorno della settimana, martedì. Le ultime parole sul suo blog sono state di qualche giorno prima: "E' di nuovo giovedì. Vieni Behnam. Balliamo insieme ancora una volta di giovedì".


San Valentino dedicato a loro


E i giovani blogger iraniani hanno gridato la loro disperazione sulla rete. "Da ora in avanti il nostro San Valentino sarà di giovedì, giorno in cui i due innamorati si sono riuniti", ha scritto Hope, 'Speranza'. "Coloro che hanno fatto questo ai nostri giovani non sono umani. La storia li ricorderà come terribili tiranni", è il post di Afsaneh. "Nahal era una ragazza che amava l'amore. Lunga vita all'amore. Lunga vita alla vita. Morte al dittatore", ha scandito Darius. (http://www.tgcom.mediaset.it/ , 2/10)
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sabato 1 ottobre 2011

DALL'IRAN... ALL'ITALIA

IRAN: POLIZIA A PARTY, RAGAZZA CADE E MUORE

http://www.corriere.it/notizie-ultima-ora/Esteri/Iran-polizia-party-ragazza-cade-muore/25-09-2011/1-A_000251731.shtml

MACEDONE 15ENNE PICCHIA LA SORELLA "PERCHE' VIVE TROPPO ALL'OCCIDENTALE"

http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/2011/27-settembre-2011/macedone-prende-calci-sorella-perche-vive-troppo-occidentale-1901656453795.shtml Leggi tutto ...

CONVERTITE

“(…) Il niqab è un qualcosa in più rispetto al velo e non vi sono evidenze che provino una sua solo supposta obbligatorietà. Tuttavia va detto che velo, niqab o anche burqa, qualora indossati, devono essere una questione unicamente tra Dio e la donna, senza intromissioni.Nè da parte degli uomini di casa, né da parte della società. Ogni donna deve poter scegliere da sola se conformarsi ai precetti coranici o meno: davanti a Dio il Giorno del Giudizio sarà da sola,non ci saranno i parenti o i parlamentari italiani a parlare per lei. Perciò è giusto che scelga liberamente. (…) Altrimenti è inutile criticare i metodi dittatoriali dell’Arabia Saudita che vietano alle donne di guidare e poi avere qui in italia lo stesso atteggiamento irrispettoso dei diritti della donna. Se è sbagliato vietarle di guidare, è sbagliato anche vietarle di velarsi.” Silvia Olivetti, Movimento per la tutela dei diritti dei musulmani. (Fonte: http://www.unpolitically.wordpress.com , 30/9) Leggi tutto ...

LO SAPETE GIA', MA IN ARABIA SAUDITA...

DONNE AMMESSE AL VOTO, MA DAL 2015

http://it.euronews.net/2011/09/26/arabia-saudita-donne-ammesse-al-voto-ma-dal-2015/

DONNA GUIDA: CONDANNATA A 10 FRUSTATE, MA RE ABDULLAH LA GRAZIA

http://www.tgcom.mediaset.it/mondo/articoli/articolo1022798.shtml Leggi tutto ...

mercoledì 21 settembre 2011

LA MADRE DI 4 TERRORISTI SCELTA PER PRESENTARE ALL'ONU LA DOMANDA UFFICIALE DI RICONOSCIMENTO DELLO STATO PALESTINESE


L'autorità palestinese ha scelto la madre di quattro (veramente otto, ndr) terroristi, di cui uno ha ucciso sette civili israeliani ed ha tentato di ucciderne altri dodici, come simbolo della sua campagna per il riconoscimento di uno Stato palestinese all'ONU.

In occasione di un evento in gran parte mediatizzato, l'autorità palestinese a chiesto alla signora Latifa Abu Hmeid di condurre il corteo verso gli uffici dell'ONU a Ramallah e rimettere personalmente, una lettera per il segretario generale Ban Ki Moon.

La Gazzetta ufficiale dell'autorità palestinese PA daily riporta che è stata scelta per lanciare la campagna per l'ONU, sottolineando che è„ la madre di 7 prigionieri e di uno "shahid" (martire), Abd Al-Mun'im Abu Hmeid.

Tuttavia il giornale non cita che 4 dei suoi figli in prigione sono condannati per omicidi.

Nasser Abu Hmeid - comandante del ramo armato del Fatah, “brigate dei martiri Al-Aqsa Martyrs„ a Ramallah, condannato 7 volte alla prigione a vita per l'omicidio di 7 civili israeliani e 12 tentativi di omicidi.

Nasr Abu Hmeid - membro "del Tanzim", fazione terroristica del Fatah. condannato 5 volte alla prigione a vita per partecipazione a due attentati e per traffico di armi.

Sharif Abu Hmeid - membro di un'unità terroristica comandata da uno dei suoi fratelli, responsabile di attacchi contro civili e soldati. Ha accompagnato un terrorista-suicida fino al luogo dall'attentato nel marzo 2002. condannato 4 volte alla prigione a vita.

Muhammad Abu Hmeid - implicato in molti attentati - condannato 2 volte alla prigione a vita + 30 anni.

Il quinto figlio, Abd El-Mounim Muhammad Yusuf Abu Naji Hmeid, quello designato come "martire", era membro dell'ala militare del Hamas, le brigate Izz A-Din Al-Qassam, ha progettato ed effettuato l'assassinio di un ufficiale delle informazioni israeliane.

Palestinian Media Watch (Fonte: "Scettico", 19/9)

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LETTERA DI UNA PRIGIONIERA POLITICA IRANIANA AL RELATORE SPECIALE DELLE NU, AHMED SHAHEED


5 Settembre 2011

Per la prima volta scrivo questa lettera al Sig. Ahmed Shaheed, Relatore Speciale delle Nazioni Unite, in quanto una giovane studentessa imprigionata.

Sig. Ahmed Shaheed

Si parla del suo viaggio nel mio Paese. Un Paese in Oriente, precisamente nel Medio-Oriente. Una regione che, negli ultimi anni, ha cominciato ad attirare l’attenzione di molti e dalla quale ci si aspetta un nuovo evento in qualsiasi momento. Non ho niente a che fare nè con il Medio-Oriente né con coloro che stanno a guardarlo con attenzione. Mi preoccupo di una nazione nel sud-ovest dell’Asia che nella mappa mondiale ha la forma di un gatto. Un Paese per il quale, stando alle ultime risoluzioni delle Nazioni Unite, le è stato richiesto di fornire un rapporto sulle condizioni dei diritti umani. Sì, le sto parlando dall’Iran e dal suo cuore pulsante, la prigione di Evin. In questi giorni i circoli politici, i media, le informazioni … e diverse posizioni ufficiali di vari governi parlano tutti del suo viaggio in qualità di Speciale Rappresentante dei Diritti Umani e della sua decisione di scrivere il tale rapporto.

Non sono sicura, per un Paese dove il Presidente,Ahmadinejad, ha più volte dichiarato, nell’ambito di conferenze sugli affari interni ed esteri, “C’è libertà assoluta in Iran” e “l’Iran è il più democratico Paese della regione”, cosa ci potrebbe essere, allora, dietro alla scena per obiettare la venuta di un rappresentante dei diritti umani? In un Paese libero(!) dove ogni critica e protesta affronta l’intimidazione e la minaccia, in un Paese libero dove ogni difesa delle opinioni e religioni diverse da quelle dei governanti corrisponde alla detenzione, l’incarcerazione e l’incatenamento, in un Paese libero dove ogni difesa da parte degli avvocati nei riguardi dei loro clienti innocenti - persino nei processi farsa - corrisponde alla prigione, a sentenze aspre e al loro allontanamento dal pubblico esercizio. In un Paese libero dove l’intimidazione ed il clima di terrore e la dimostrazione di potere è resa evidente dalle pubbliche nelle piazze, non c’è niente che si possa nascondere.

Sig. Ahmed Shaheed

Che comprendere o meno questa situazione sia semplice o no per lei, questi sono i fatti delle nostre vite. Siamo imprigionati per le nostre opinioni in un Paese dove le autorità esprimono il loro dispiacere per gli abusi dei diritti della gente di altri Paesi, persino quelli più lontani, ogni minuto ed ogni giorno, e dichiarano la solidarietà a quella gente, criticando i governanti dispotici delle altre nazioni e ammonendo i dittatori ad ascoltare la loro gente, perché il popolo cambierà il corso della storia.

Discutono del trattamento degli studenti e parlano della libertà parola e d’opinione. In queste circostanze mi chiedo “Chi sono io?” Io che sono stata imprigionata per le mie opinioni, i miei pensieri, le mie compagne di cella, donne innocenti con un modo diverso di vedere la realtà, ci collochiamo in quale parte di questo puzzle? “Perché, allora, voi non riuscite a sentire la nostra voce?”

Dopo vari tentativi per far si che i funzionari sentano la tua voce, puoi concludere il discorso dicendo “La morte è buona, ma per i nemici”. Quindi quando la tua voce non è ascoltata, piangi e parli dei diritti perduti, piangi affinché qualcuno possa sentirla, persino qualcuno al di là dei confini. Piangi per far sì che quelle coscienze sensibili ti risveglino dai tuoi dolori e dai tuoi lamenti e che la mia lettera a Lei possa essere come quel pianto da una montagna di dolore e sofferenza. Le parlo quale ragazza iraniana di 24 anni, una studentessa di Scienze Informatiche dell’Università di formazione per insegnanti a Teheran, che è stata in carcere assieme a suo fratello per aver cercato giustizia , libertà e dignità umana dal 19 febbraio del 2009. Una ragazza che, nei due anni e mezzo di prigionia, ha sperimentato il servizio segreto d’informazioni del carcere, sezione 209 e sezione pubblica della prigione di Evin, la prigione di Rajai Shahr e la prigione Gharechak di Varamin. Le sto parlando quale studentessa iraniana.
Mentre le persone della mia età, negli altri Paesi, vengono supportate dai loro governi a seguire la via del successo in tutti i campi di dominio sociale e scientifico, io sto lottando, dietro le sbarre, per avere il minimo dei diritti umani. Per il diritto di pensare, il diritto di esprimere i miei pensieri e persino il diritto di respirare. In un Paese dall’ampio cielo e dal vasto territorio dove, grazie all’avanguardia della tecnologia e delle camere a circuito chiuso, la mia porzione di diritti si riduce all’angolo di una gabbia dove anche il mio respiro viene contato, ed il mio unico mezzo di comunicazione, con il mondo esterno, in questa era della comunicazione, sono i soli 20 minuti che trascorro in una parlatorio con la mia famiglia dietro ad un vetro sporco e con l’ausilio di un telefono. Il mio unico spazio è un angolo angusto di una gabbia senza aria fresca. Quando gli atti di valore per la scienza e la tecnologia sono bersaglio dei governanti, ti chiedi cosa significhi allora la prigionia degli studenti? Eccetto centinaia di persone che vengono private del loro diritto a continuare gli studi solo per ciò in cui credono. L’aspetto più doloroso di questi comportamenti è che non si limita agli studenti ma si allarga fino a toccare i medici, gli ingegneri, gli avvocati, gli insegnanti, le casalinghe, i giovani ed gli anziani, gli uomini e le donne!

Sig. Ahmed Shaheed!

Quando sfoglio il libro della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, non ho altro che rimpianti dal momento che non posso trovarne alcun esempio nel mio Paese. Al fine di provare la nostra umanità con qualsiasi opinione e religione, dobbiamo sottometterci a questa dura lotta e pagare il prezzo solo per l’umanità. Sono in grado di dare esempi di violazione per ciascuna delle sezioni della congiunta Dichiarazione dei Diritti Umani. Io e mio fratello ( Farzad) siamo stati interrogati in celle solitarie della sezione 209 della prigione di Evin, non solo per le nostre personali opinioni ma, anche, per quelle di alcuni membri della nostra famiglia. Ho visto alcune delle donne della baha’i in questa stessa sezione 209 che sono state detenute solo per il loro modo di pensare. Ho visto i giornalisti che sono stati imprigionati per aver dato notizie in merito alla situazione esistente. Ho assistito al processo ingiusto di mio fratello ed al mio, condannarci a cinque anni di prigione in Iran nei posti più esemplari d’esilio.

Sì Sig. Shaheed, abbiamo una così lunga ed amara storia che posso solo menzionarne alcuni punti. Ho vissuto in prigione da quando avevo solo 21 anni assieme a drogati, assassini, spacciatori e prostitute, tutte vittime del sistema ingiusto ed infernale di questa terra.

Ho sperimentato la peggior specie di situazioni possibili. Situazione di vita orribile a Rajai Shahr, avendo solo due bagni, un lavandino e due docce per 200 persone rappresenta il più tangibile e al limite degli esempi di questa situazione. Ho visto tante cicatrici e pene su queste persone sofferenti. Mi sono seduta con loro, sofferto con loro, e pianto per la loro solitudine e mancanza d’aiuto. Vorrei le vedesse anche lei, vedesse come non solo i loro diritti basilari di detenuti al centro di detenzione di Share Ray (Prigione di Garechak) vengono ignorati ma, anche e soprattutto i loro basilari diritti umani. Che lei vedesse le donne indifese detenute in un luogo che non ha alcuna relazione con gli standards di una prigione. Ora dopo essere stata esiliata nella prigione di Rajai Shahr sono stata trasferita nuovamente ad Evin. Assieme ad altre 32 donne innocenti sto trascorrendo giorni bui di detenzione in un posto che secondo gli stessi ufficiali della prigione non può nemmeno essere riconosciuto come una “sezione” con i minimi mezzi di comunicazione e situazione di sicurezza.

Sig. Shaheed!

Non so come sarò trattata dopo aver scritto questa lettera, perché nella prigione di Rajai Shahr mi è stato impedito d’incontrare e telefonare alla mia famiglia per ben quattro mesi, dal 14 ottobre 2010, poiché li avevo informati delle mie condizioni critiche. Ora sono quasi due mesi che mio fratello Farzad Madadzadeh con altri tre amici, Saleh Kohandel, Behrouz Javid Tehrani e Pirouz Mansouri sono stati trasferiti dalla prigione di Rajai Shahr alla sezione di massima sicurezza della prigione di Evin. Da quel momento non abbiamo più avuto loro notizie. Ma abbiamo imparato questa valida lezione a costo degli anni della nostra giovinezza. Ora che ha avuto il compito di testimoniare tutte queste sofferenze personali, forse sprecando un po’ del suo prezioso tempo, potrà informare il mondo di loro utilizzando la sua coscienza e consapevolezza e forse prevenire di continuare queste crudeltà.

Sign. Shaheed ci sono molte cose da dire e queste sono solo una piccola parte del mare di sofferenza e di dolore. Dal momento che questo piccolo raggio di speranza esiste nella sofferenza del popolo iraniano e in tutti i cuori dei prigionieri, il suo rapporto potrebbe rappresentare gli sforzi di realizzazione del sogno di tutti coloro che hanno messo assieme la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e portare ad una situazione di miglioramento. Ovviamente esiste anche la paura che questa possibilità venga assorbita dai giochi politici come migliaia di altre questioni. Ora tutti gli occhi sono su di lei. Non permetta che questo accada.

Shabnam Madadazadeh

Prigione di Evin

Settembre 2011


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martedì 20 settembre 2011

EGITTO, IN CAMPO PER LE PRESIDENZIALI CI SARA' ANCHE L'EX ANCHORWOMAN

Bothaina Kamel vuole abbattere i pregiudizi che sembrerebbero ostacolare una sua elezione. Nel frattempo, dopo essersi dimessa platealmente dalla tv di Stato durante la rivolta di piazza Tahir, gira il Paese in lungo e largo. «Voglio conoscere e farmi portavoce dei problemi della gente: l'Egitto è la mia agenda».

Se, dopo la primavera, sbocciarà una vera rivoluzione, lo si capirà solo dall'urna. Quando, assieme a tutti gli anni di regime e di oppressione, l'Egitto avrà dimostrato di dare un calcio e saper superare anche molti dei suoi pregiudizi. Già, perché c'è anche una donna tra i candidati a guidare il dopo-Mubarak. È Bothaina Kamel, 49 anni, l'ex giornalista tv divenuta famosa quando si dimise nel pieno delle proteste democratiche in dissenso dal regime. Ora ha deciso di partecipare alle presidenziali che dovrebbero tenersi all'inizio del 2012. Per questo sta già percorrendo il lungo e in largo il Paese per fare campagna elettorale: vuole raccogliere le richieste della gente e farsene portavoce.
L'obiettivo di Bothaina è sfidare i «big» in corsa, dall'ex direttore dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, Mohamed elBaradei, all'ex segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa. «Prometto che, per quando si voterà, sarò la più informata di tutti sul popolo egiziano: conosco i bisogni dei beduini, del popolo dell'Egitto Superiore, del cristiani copti, dei lavoratori e delle altre diverse minoranze», ha dichiarato alla Cnn.
Ma lo scoglio più arduo da superare sarà la disponibilità degli egiziani ad accettarla come candidata: «All'inizio la gente era scioccata, poi non mi hanno dato peso, adesso mi prendono più seriamente. Mi avevano detto che non avrebbero mai accettato una donna presidente, ma ora accettano me: lo stereotipo è che gli egiziani non voteranno mai una donna, ma la gente vota qualcuno che li può aiutare. Se sono pronta ad aiutarli, mi voteranno. Sono persone molto pratiche». Qualche esempio, nel mondo dove i pregiudizi sono più forti esiste: da Indira Gandhi a Benahzir Butto.
La carriera della Kamel è iniziata in radio e televisione subito dopo la laurea all'università del Cairo, dove era una studente molto attiva in politica: prima, per sei anni, la conduzione di uno show radiofonico a tarda notte intitolato «Confessioni Notturne», poi bruscamente sospeso; quindi, per 10 anni, uno show televisivo chiamato «Argook Efhamni» («Per favore, capitemi») sulla tv di proprietà saudita Orbit , finché anche quello fu sospeso. Ma nel 2005, Kamel insieme a due amiche fondò un movimento chiamato «Shayfeen», («Vi stiamo guardando») per vigilare sulle prime elezioni multi-partitiche nel Paese e da quell'esperienza nacque un documentario.
Adesso Kamel sta facendo lo stesso: nei suoi tour in giro per il Paese, la accompagna ovunque un cameramen. Lo slogan della campagna -«L'Egitto è la mia agenda»- nasce dalla sua esperienza durante i 18 giorni della rivoluzione, tra gennaio e febbraio. «Eravamo in piazza Tahrir e la stampa diceva che eravamo frutto dell'agenda di un Paese straniero; e allora io deciso: "l'Egitto è la mia agenda"». (Fonte: "Il Giornale", 14/9) Leggi tutto ...

domenica 18 settembre 2011

VELO INTEGRALE E SHARIA. LA NUOVA LIBIA SOGNATA DAI GRUPPI INTEGRALISTI

TRIPOLI — La clinica universitaria è vuota di studenti e piena di fervore. L'aula magna viene divisa in settori: da una parte gli uomini, dall'altra le donne, nascoste dal velo integrale, guanti e garza nera sugli occhi. Annuisconoo almeno sembraquando il relatore proclama al microfono che la sharia ha garantito l'equilibrio tra i sessi. I volontari distribuiscono i volantini preparati dal neo-movimento della gioventù islamica. Stampati verde su giallo, illustrano il decalogo per costruire la nuova Libia, quella che vorrebbero i duecento militanti seduti sulle gradinate.
L'organizzazione è nata a Bengasi, come la rivoluzione che ha deposto Muammar Gheddafi dopo quarantadue anni. «Non siamo un partito e non vogliamo diventarlo», ripetono i fondatori. Che discutono di democrazia e modelli di Stato — la Turchia guidata da Recep Tayyp Erdogan è considerata troppo laica — e apprezzano quell'articolo determinativo inserito nella Costituzione provvisoria: le norme islamiche sono «la» fonte principale della legislazione, invece dell'indistinto «una delle» che avrebbero preferito alcuni ministri del nuovo governo.
La scelta è approvata anche da Salwa el-Deghali, l'unica donna rimasta nel Consiglio nazionale di transizione: «La Libia è un Paese musulmano e le istituzioni della nazione verranno consolidate attorno all'islam moderato» (voglio vedere...) . Sei giorni fa, nel primo discorso dall'arrivo a Tripoli, il presidente Mustafa Abdul Jalil ha ripetuto che non accetterà nessuna «forma di ideologia estremista, né da destra né da sinistra».
I ribelli che hanno assaltato le ville dei figli di Gheddafi hanno requisito bottiglie di vodka e di whisky, quel Johnny Walker etichetta nera simbolo di status in tutto il Medio Oriente. Quello che era ammissibile per Saadi, Hannibal e gli altri fratelli non lo è nei negozi o nei ristoranti di Tripoli e Bengasi. La famiglia di regime — malgrado l'imponente moschea ancora in costruzione voluta da Safiya, la seconda moglie del Colonnelloconduceva una vita ben lontana dalle famiglie libiche, che restano molto tradizionaliste e conservatrici. I predicatori come Ali Sallabi non sentono il bisogno di discutere della sharia, perché sanno che è già accolta dalla società. «Questa è la rivoluzione del popolo — dice al quotidiano New York Times — e il popolo è musulmano. I laici possono partecipare alle elezioni, vedremo chi vince. Se una donna diventasse presidente, siamo pronti ad accettarlo» (sì, voglio vedere anche questo...) .
Sembra convinto della forza del partito che ha deciso di fondare. Non ha ancora un nome, ma già contende il potere a Mahmoud Jibril: il primo ministro — urla lo sceicco nei comizi e via satellite su Al Jazira — non può restare altri otto mesi. «Sta piazzando gli amici e i parenti nei posti chiave. Non vogliamo ritornare alla dittatura». Nel 2005 è stato Sallabi a negoziare con il regime un programma di riabilitazione per i miliziani fondamentalisti del Gruppo combattente islamico libico. Saif, il primogenito del Colonnello, si era accorto della sua influenza e aveva deciso di trattare con lui.
Il consiglio di transizione, sparpagliato in queste settimane tra la capitale e l'est del Paese, si riunisce oggi a Bengasi proprio per discutere delle pressioni che arrivano dalle formazioni islamiste. Jalil deve convivere con il potere armato di Abdel Hakim Belhaj, il veterano jihadista nominato governatore militare di Tripoli per acclamazione dei suoi miliziani. E con il potere ombra di Etilaf, uno dei gruppi religiosi dominanti in città. Agisce come una guida rivoluzionaria del popolo, semi-clandestina. All'inizio del mese ha appeso i suoi manifesti-proclami ai cancelli degli ospedali: «Entro sette giorni tutti gli uffici pubblici devono essere diretti da una persona decorosa». (Fonte Corsera) Leggi tutto ...

sabato 17 settembre 2011

... MA PER LE DONNE IL NILO E' ANCORA UNA CONDANNA

"Siamo in prima linea eppure ci negano ruoli pubblici" spiega Mansoura Ez Eldin

Una saga familiare nell’Egitto rurale, dove l’esistenza è scandita dalla superstizione e dagli spiriti del Nilo. Due donne lasciano il villaggio per trovare se stesse: Gamila, che ha il coraggio di sperimentare il sesso e l’amore, e da ragazzina ombrosa diventa altera e vincente; e Salma, costretta a far ritorno nelle campagne immobili per chiudere vecchi conti emotivi, arginando con la scrittura la follia che la insegue.
Dice di ispirarsi a Kafka, Borges e Virginia Woolf, la scrittrice egiziana Mansoura Ez Eldin, e infatti nel suo ultimo romanzo Oltre il paradiso (in libreria il 1° settembre per Piemme, trad. di Valentina Colombo) il realismo della vita sul delta del Nilo si colora di sogno e viaggi della mente. “Uno stile che i lettori arabi non si aspettano da una donna araba” sorride lei, che a 35 anni è già considerata fra gli intellettuali più interessanti del Paese.
Giornalista del settimanale culturale Akhbar Al-Adab, sposata con lo scrittore Yasser Abdel Hafez, Mansoura è stata l’unica donna finalista al prestigioso premio letterario Booker Arabo 2010, e anche editorialista per il New York Times dopo la rivoluzione del 25 gennaio.

Cosa ci racconta della società egiziana e delle radici della rivoluzione, il suo nuovo libro?

Rileggendolo dopo gli eventi di piazza Tahrir, ho compreso perché la rivoluzione fosse così necessaria. La nostra società era morta, costellata di vite sprecate. Anch’io sono nata sul delta del Nilo, vivo al Cairo solo da 15 anni, e il romanzo è stato una scontro con la mia memoria. Ero ossessionata dal potere della mitologia nelle campagne, dove la barriera tra immaginazione e realtà è fragilissima, come se si vivesse dentro le Mille e una notte. Ricordo una zia che non iniziava la giornata se prima non aveva interpretato i propri sogni. Volevo rileggere questo vecchio mondo attraverso gli occhi moderni di Salma e Gamila.


La battaglia delle protagoniste per l’emancipazione riflette la sua?

Ho lottato per ogni traguardo raggiunto, sostenuta da mia madre, e anche per liberarmi del velo islamico. Vengo da una famiglia religiosa e conservatrice, sono stata la prima ragazza a lasciare il villaggio per vivere da sola al Cairo. Non mi è mai piaciuto indossare il velo, ma faceva parte dell’uniforme scolastica. Verso i 21 anni, al Cairo, ho pensato che non avesse più senso portarlo visto che non sono religiosa. E alcuni amici mi hanno voltato le spalle: chi è nato in città, non avendo dovuto battersi per i propri diritti, a volte è più tradizionalista della gente di campagna.

La stampa occidentale spesso cristallizza la donna araba in due stereotipi opposti: velata e oppressa, oppure odalisca come una Sheherazade. La infastidisce?

Certo, ma detesto anche gli stereotipi attraverso cui il mondo arabo guarda alle donne occidentali. Forse dovremmo tutti leggere più autori stranieri, perché i grandi scrittori svelano il cuore di una società.

Un mese fa le femministe egiziane hanno manifestato per la parità di diritti, che sembra lontana. Perché la rivoluzione non ha cambiato la condizione femminile?

Le donne sono state in prima linea, in piazza Tahrir, ma ora molte voci negano il loro ruolo. Nel governo c’è una sola donna, Fayza Aboul-Naga, ministro della cooperazione internazionale. E il partito islamico dei Salafiti ha dichiarato che dobbiamo tornare a occuparci della casa e dei figli, invece di lavorare e aspirare a ruoli pubblici. Molti uomini, in Egitto, pensano che difendere i diritti delle donne significhi ridurre i propri.

L’Egitto affronta due eventi cruciali: il processo a Mubarak e le elezioni previste in novembre. Intanto manifestate contro il regime militare che ritarda le riforme. Cosa si aspetta che accadrà?

La rivoluzione non è finita: dobbiamo riprenderla da capo, e ci vorrà un altro anno per vedere veri risultati. Mubarak non era il problema principale: l’esercito doveva liberarsi di lui e dei suoi figli per restare padrone del Paese. Oggi il regime militare accusa il movimento “6 aprile” di essere al soldo degli stranieri, ha tutti i media dalla propria parte: dobbiamo liberarci di loro, abbiamo già versato troppo sangue per il nostro sogno di democrazia. Ma spero che i partiti democratici si preparino bene alle elezioni, perché i Salafiti e i Fratelli Musulmani sono già pronti: non vorrei mai liberarmi dei militari per essere sorpresa da un regime salafita.

Sul New York Times lei ha scritto: “La rivoluzione non è un appuntamento galante”. Che significa?

Dopo la “rivoluzione del gelsomino” in Tunisia, sostenevo che anche l’Egitto avrebbe conosciuto una rivolta, ma senza profumo di fiori. La rivoluzione non è una festa: conoscevo tanti che sono morti sulle strade, anche un mio caro amico. E’ nostro dovere continuare la rivoluzione e restare ottimisti. A gennaio non avevamo che i nostri sogni, oggi siamo più forti: dobbiamo ricominciare da questo. (Fonte: "IO DONNA", 20/8) Leggi tutto ...

giovedì 15 settembre 2011

RICORDIAMO SANAA A 2 ANNI DALL'ASSASSINIO


Mentre il 11/8 sono stati 5 anni dall'assassinio di Hina. Leggi tutto ...

domenica 11 settembre 2011

SIT- IN A MILANO PER RIAVERE MARTINA, RAPITA A MAMMA MARZIA DAL PADRE TUNISINO

Dal sit-in al Consolato Tunisino di sabato 10/9/2011



Al centro, con in mano la foto della piccola Martina, la sua mamma, Marzia Tolomeo, 31 anni


PER LA TUNISIA E LA FARNESINA SIAMO DIVENTATI GIA' DHIMMI?

Oggi (ieri, ndr), come avevamo programmato, abbiamo realizzato il sit-in in favore del ritorno di Martina, bimba italiana di poco più di 2 anni, rapita dal padre Hassen Abdeljelil, tunisino, ex compagno di Marzia Tolomeo,( madre della piccola) e fatta emigrare con un inganno che gli ha permesso di rapire la figlia portandola in Tunisia, nonostante la sentenza del tribunale, che in attesa di giudizio definitivo, era affidata presso il domicilio della madre e il permesso di visita al padre per 2 sere la settimana.
Tanto è bastato al tunisino, che con un bliz ferino, l'ha rapita lasciando nella disperazione la madre e i nonni.
Hassen Abdeljelil, che da 7 anni viveva in Italia come immigrato irregolare, (senza permesso di soggiorno) ha dimostrato di disprezzare il Paese che gli aveva aperto le porte e ha portato a termine un'azione che trova la sua ispirazione nella shari'a, la legge islamica fondamentalista, che non tiene in nessun conto i diritti umani, in quanto nessun Paese islamico ha sottoscritto la dichiarazione universale dei diritti umani.
E' gravissimo è il fatto che una cittadina italiana, per giunta minore, abbia dovuto subire la violazione dei suoi diritti, che sono primari, poiché la bimba è stata rapita in territorio italiano e fatta emigrare attraverso documenti, che per quanto riguarda le leggi italiane sono stati realizzati in spregio alla sovranità nazionale italiana e all'ordine preciso di un Tribunale italiano, che vietava ad entrambi i genitori di portare la bimba oltre frontiera, fino alla sentenza definitiva, che era programmata fra pochi giorni (il 20 settembre)

Aiutate da una funzionaria della questura di Milano, che ha saputo sfoderare, riuscendoci, tutte le sue qualità diplomatiche, con la madre Marzia Tolomeo, siamo state ricevute dal Console tunisino, con il quale avevo già avuto qualche "piccolo scontro verbale" nei giorni precedenti in quanto secondo la sua opinione, noi, cittadini italiani, non avremmo avuto il diritto di fare un sit-in senza la sua autorizzazione, mostrandosi anche stupito del fatto che la Questura di Milano ci avesse dato il permesso senza rivolgersi alle autorità consolari tunisine e questo rendeva impossibile il dialogo fra noi, rifiutandosi di riceverci e di farsi portatore presso il Governo tunisino della petizione che avevamo preparato per chiedere di ristabilire i diritti violati.
Così l'incontro ha avuto luogo, nonostante il pregiudizio del Console tunisino che con "gentilezza", ha respinto la nostra petizione in quanto i toni con cui era stata scritta, sarebbero stati, secondo lui e l'assistente traduttrice che l'affiancava, troppo duri nella forma.... motivazione?
Semplice: lui si era insediato nel ruolo di Console da una sola settimana, perciò noi che stiamo subendo un'ingiustizia gravissima da alcuni mesi (Martina è stata rapita il 29 maggio, ndr), per la quale abbiamo già seguito le procedure suggeriteci, entrando in contatto prima con il Console che lo ha preceduto, e in seguito attraverso un viaggio anche con il Governo tunisino, senza arrivare a nulla di concreto, avremmo dovuto ricominciare daccapo, ricorrendo ad una estrema cautela, poiché è apparso chiarissimo che pretendere il rispetto dei propri diritti, appaia agli occhi tunisini una forma irrispettosa e poco ripagante, mentre questuarlo come favore, sottomettendoci alle regole tunisine, potrebbe anche riuscire a produrre un risultato in nostro favore e chissà, magari le autorità tunisine ci concederanno la grazia. (Fonte: Lisistrata)

http://www.lisistrata.com/cgi-bin/lisistrata3/index.cgi?action=viewnews&id=1172

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lunedì 22 agosto 2011

LIBIA: GIORNALISTA IN TV CON LA PISTOLA

"Siamo tutti armati e pronti a difenderci e pronti al martirio", ha detto con enfasi dallo studio la presentatrice, una ragazza sui trent'anni, non velata. Il video, è stato caricato subito su YouTube da diversi utenti e sta facendo il giro del web, suscitando decine di commenti, soprattutto anti-Gheddafi.
Una presentatrice della tv di Stato libica è andata in studio in diretta tenendo in mano una pistola e minacciando i ribelli che stanno dando l'assalto alla capitale di non provare ad avvicinarsi all'edificio della tv di Stato.

http://www.youtube.com/watch?v=Wwmcpk13v9I

LIBIA, ARRESTATA LA GIORNALISTA CON LA PISTOLA

http://www.corriere.it/esteri/11_agosto_22/libia-giornalista-arresto_eedf451c-cccb-11e0-8c25-58bcec909287.shtml
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domenica 21 agosto 2011

LA MINISTRA PACHISTANA FA SCOPPIARE LA PACE (PER UN GIORNO) CON L'INDIA

IL PERSONAGGIO. I GIORNALI DI NEW DELHI "INNAMORATI" DI HINA RABBANI KHAR, 34 ANNI, PRIMA DONNA A CAPO DELLA DIPLOMAZIA DI ISLAMABAD.



Moda e politica I giornali indiani sedotti dallo stile della ministra: occhiali da sole Roberto Cavalli e borsa di Hermès

La 34enne pachistana Hina Rabbani Khar ha il viso incorniciato da un velo trasparente. L' indiano S. M. Krishna, 35 anni più anziano di lei, rilassato, le stringe la mano tra ampi sorrisi. «Questa è una nuova era nella cooperazione bilaterale» tra India e Pakistan, hanno promesso i due ministri degli Esteri l' altro ieri a New Delhi, due anni e mezzo dopo l' attacco di Mumbai con oltre 160 morti, che aveva spinto le due potenze nucleari sull' orlo di un conflitto. Ma è stata lei, Hina, la prima donna a capo della diplomazia di Islamabad (da appena 10 giorni), a conquistare i riflettori in India. E ieri i temi più dibattuti dai giornali di entrambi i Paesi non erano le questioni di politica estera ma piuttosto: gli occhiali da sole Roberto Cavalli, la borsa Birkin di Hermès e il filo di perle che la ministra indossava sull' elegante completo blu. «Raffinata... classica... splendida», commentava il Daily Times di Lahore, mentre la blogger pachistana Amara Javed sosteneva che Hina è «più glamour di Kate Middleton». «Bomba pachistana atterra in India» titolava ironico il Mumbai Times , «è un' arma di distrazione di massa» per l' Hindustan Times , l' attrice di Bollywood Gul Panag twittava elogi sul suo stile e i designer indiani la definivano «impeccabile eppure dinamica», la nuova musa dopo Michelle Obama e Carla Bruni. Solo qualcuno ha obiettato che «indossare una borsa da 10 mila dollari forse non è un' ottima idea in un Paese devastato»: per la giornalista Sagarika Ghose, della tv Cnn in India, «Hina Rabbani Khar è bellissima, ma ovviamente è parte di una élite pachistana distaccata dal popolo». Ma la ministra ha anche i suoi fan. «Vorrei che la stampa da entrambi i lati del confine le prestasse il rispetto che merita, anziché trasformarla in un "oggetto" e mettere in dubbio la sua professionalità sulla base del sesso», commentava Mehreen Kasana, blogger e disegnatrice pachistana ventenne popolarissima tra i giovani. In Pakistan alcuni politici hanno espresso dubbi relativi all' età della ministra e sulla sua inesperienza in politica. Il presidente Ali Asif Zardari (vedovo dell' ex premier Benazir Bhutto) dichiara che la scelta prova «l' impegno nel portare le donne alla ribalta nazionale». Hina, però, non sta dove si trova per carisma o abilità politica - osserva la giornalista pachistana Huma Imtiaz di Foreign Policy - ma perché viene da una famiglia di proprietari terrieri della provincia del Punjab. Tre figli, master in economia alberghiera conseguito negli Usa, «se ne intende in quel settore perché al suo ristorante "Polo Lounge" di Lahore si mangia benissimo». Ma non ha mai fatto campagna per il seggio in Parlamento, che ha ereditato dal padre. Alcune donne deputate - sono oggi il 22% - si impegnano contro i delitti d' onore, le persecuzioni delle minoranze, fanno campagna elettorale sfidando le minacce di morte, dimostrano di valere al di là del fatto di essere figlie di buona famiglia. Le pachistane istruite giudicheranno Hina Rabbani Khar dai risultati. Sui giornali, intanto, non è passato inosservato il suo incontro a New Delhi con i leader separatisti kashmiri, criticato da fonti governative in India. I due vicini hanno combattuto tre guerre, due delle quali a causa del Kashmir. I due ministri hanno promesso di facilitare i movimenti di merci e di persone tra i due lati della regione himalayana. Piccole concessioni ma significative - osserva il New York Times - come lo è il fatto che l' incontro si sia tenuto nonostante le bombe esplose a Mumbai due settimane prima (24 morti, oltre 100 feriti, nuovi sospetti). Gli Usa vogliono il dialogo, e vogliono che il Pakistan si concentri nella guerra ai talebani. Che dirà la ministra? Istruita e fotogenica, per ora fa buona impressione in un momento difficile tra Islamabad e Washington dopo il blitz Usa contro Bin Laden. Ma in Pakistan, le decisioni di politica estera, in particolare sui rapporti con l' India e gli Usa, sono da decenni controllate dai militari e dall' intelligence. (Fonte: http://www.archivio.corriere.it/ , 29/7) Leggi tutto ...

MEETING / LA VOLONTARIA MUSULMANA : NOI E I CRISTIANI, UNITI PER COSTRUIRE UN'OPERA PIU' GRANDE

Samar Kassem, musulmana, ha 25 anni, vive al Cairo dove è impiegata in una agenzia di assicurazioni. E' arrivata a Rimini, per partecipare al Meeting lavorando come volontaria. Si occupa, come tanti altri ragazzi e ragazze di tutto il mondo, di pulizie. Ma Kassem prima di venire al Meeting di Rimini aveva già preso parte a un altro Meeting, quello che si è tenuto proprio al Cairo lo scorso anno e dove già aveva lavorato come volontaria. "Il mio più grande desiderio è che ci possa essere un altro meeting al Cairo come quello cui ho già preso parte" ha detto a IlSussidiario.net che l'ha incontrata per chiederle come mai questo viaggio fino in Italia. "Ero curiosa" ci ha detto. "L'esperienza che avevo fatto al Meeting del Cairo mi aveva colpito molto. Ciò che mi aveva affascinato di più era stato vedere come tanti ragazzi di nazionalità diversa, egiziani e italiani, avessero potuto lavorare insieme senza problemi". Che cosa l'aveva colpita maggiormente? "Il fatto che ci aiutavamo, che ognuno traduceva per l'altro, che ci si sosteneva senza alcun problema. E che alla fine fossimo riusciti nell'intento, quello di fare qualcosa di bello, di poter portare a termine una esperienza così impegnativa. La cosa fondamentale perché ciò sia stato possibile è stata di aiutarsi gli uni con gli altri, nessuna differenza tra noi egiziani e gli italiani". E cosa si aspetta dal Meeting di Rimini? "La stessa cosa, anche se qui, essendo in tantissimi, sarà diverso, ma proprio per questo sono curiosa di vedere cosa succederà e come riusciremo nel nostro compito. La possibilità, ritengo, è la stessa del Cairo". In passato Kassem aveva già lavorato come volontaria per varie situazioni. Sin dai tempi del liceo, infatti, ci ha detto, è stata impegnata con varie attività, ad esempio al Museo egizio del Cairo, poi nel turismo. "Ho sempre voluto aiutare gli altri" ha detto. Proprio in questo periodo dell'anno i musulmani osservano il ramadan, cioè il digiuno totale fino al tramonto del sole. Lavorare in queste condizioni è faticoso? "No" dice Kassem. "Sono abituata a lavorare durante il ramadan anche in Egitto, non è faticoso per me". Al Meeting di Rimini ci sono persone di tante fedi religiose diverse: "E' uno dei motivi per cui sono voluta venire" spiega.
"Volevo conoscere persone di fedi diverse, voglio imparare dagli altri e guadagnare esperienze nuove dal rapporto con gli altri, è una cosa che mi aiuta tantissimo". In conclusione: dopo il Meeting del Cairo che cosa è nato fra i volontari che vi hanno preso parte? "Una bella amicizia. Continuiamo a vederci e a fare cose assieme, anche fra chi abita in città diverse, al Cairo o ad Alessandria". (Fonte: http://www.ilsussidiario.it/ )
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DUE DONNE IRANIANE IN PERICOLO DI MORTE PER APOSTASIA DALL'ISLAM

Sono state arrestate nel marzo scorso, anche se la conversione sembra risalire ad almeno dieci anni fa. Finora in Iran non è mai stata eseguita una condanna a morte con questa motivazione. Le autorità temono una diffusione del cristianesimo: sequestrate 6500 bibbie.



Teheran (AsiaNews/Agenzie) – Due donne iraniane, rinchiuse nella famigerata prigione di Evin per essersi convertite dall’islam al cristianesimo potrebbero affrontare una condanna a morte per apostasia. La notizia è stata diffusa da radio Farda. Amir Javadzadeh, giornalista di un emittente cristiana londinese, ha dichiarato che le due donne potrebbero essere condannate a morte anche se “non erano politicamente attive. Volevano solo servire il popolo in base alla Bibbia”.
Marzieh Amirizadeh, 30 anni, e Maryam Rustampoor, 27 anni, sono state arrestate a marzo, anche se la conversione data a 10 anni fa. Javadzadeh ha aggiunto che sono diventate cristiane dopo “aver speso molto tempo studiando testi religiosi e aiutando gli altri”. La legge iraniana non prevede la pena di morte per apostasia, ma alcuni tribunali locali l’hanno comminata di recente (anche se non è mai stata eseguita) basandosi su testi religiosi.
Le autorità sembrano preoccupate per un aumento della diffusione del cristianesimo, soprattutto evangelico. In questo contesto si colloca il sequestro di 6500 bibbie annunciato ufficialmente da Majid Abhari, consigliere del Comitato per gli affari sociali del Parlamento iraniano. Abhari ha attaccato “quei missionari che hanno a disposizione grandi somme di denaro e ,cercando di deviare i nostri giovani, hanno cominciato una grande campagna per sviare l’opinione pubblica. Quelle bibbie, a formato tascabile, stampate con la migliore carta del mondo, ne sono la prova”. (16/8) Leggi tutto ...

domenica 7 agosto 2011

VELO INTEGRALE IN ITALIA

BURQA E NIQAB, VERSO IL DIVIETO IN ITALIA

http://donne.virgilio.it/attualita/pinkpoint/burqa-niqab-verso-divieto-in-italia.html

STRAPPA IL VELO A DUE ISLAMICHE: "MI FATE PAURA"

http://www.corriere.it/cronache/11_agosto_07/coppola-strappa-velo-islamiche_d7d96a60-c0d6-11e0-a989-deff7adce857.shtml Leggi tutto ...

TORINO: IRANIANE DI SUCCESSO IN CAMICE BIANCO

Nahid Ziariati, ginecologa




Nasrin Nosrati, tecnico di radiologia





Sheila Fares, cardiologa





Dina Neda Sabet, nutrizionista



Sono arrivate negli anni Settanta per fare l’università in Europa, sono rimaste a lavorare in ospedale. Dimostrando di essere più brave dei maschi. E degli italiani.

Con la tipica cerimoniosità e cortesia persiana la ginecologa Nahid Ziarati ci fa accomodare nel suo studio medico di Settimo, vicino a Torino. Mi chiama affettuosamente "cara" che sarebbe la traduzione di azizam, termine persiano molto usato, unico elemento che rimanda alla sua origine iraniana. Con i suoi lunghi riccioli castani, infatti, non si direbbe che non è di queste parti. E invece arriva da un Paese lontano non tanto per la distanza geografica, quanto per ciò che rappresenta culturalmente.
«Le persone si stupiscono perché immaginano l’Iran come una sorta di inferno delle donne, luogo di fanatici, che magari si spostano ancora con i cammelli» scherza. «Ora, dopo tanti anni di lavoro lascio perdere, ma quando ero più giovane cercavo di smontare tutte le loro convinzioni: dicevo che noi in inverno sciamo sulle montagne di Teheran, che le università iraniane sono piene di donne, che non siamo poi così arretrati…». Come Nahid, già dai primi anni Settanta, centinaia di giovani iraniani sono venuti in Italia a studiare, considerando il nostro Paese una tappa intermedia prima di raggiungere luoghi più ambiti, come gli Stati Uniti. Ma poi gli eventi della vita, matrimoni, opportunità di lavoro e la rivoluzione islamica del 1979, hanno trasformato l’Italia nella loro meta definitiva.
Era stato lo scià di Persia a volere che i rampolli delle famiglie altolocate andassero a istruirsi all’estero per tornare poi a casa con lauree occidentali. Faceva parte del sogno di modernizzare velocemente l’Iran, e questa trasformazione dipendeva moltissimo dalle donne, perché «l’arretratezza di un Paese - sosteneva lui stesso - si vede da quanto sono ignoranti, velate, e relegate in casa le sue donne ». Così chi poteva permetterselo mandava figli e figlie a studiare all’estero. Questi ultimi poi però finivano per non tornare più in patria, soprattutto dopo gli anni della rivoluzione e della guerra con l’Iraq. «Appena arrivati si studiava italiano all’università degli stranieri di Perugia. Era divertente perché noi stranieri eravamo pochissimi e gli italiani facevano a gara per invitarci alle feste» ricorda con il sorriso sulle labbra Nasrin Nosrati, tecnico di radiologia all’ospedale di Chieri.
Gli italiani erano ben dispostinei loro confronti, non era difficile integrarsi: «Poi noi non siamo come gli altri immigrati, che fanno comunità. Gli iraniani sono diffidenti tra loro, per motivi politici e per la religione… Così ci siamo divisi e "mimetizzati"».
Oggi l’Iran è uno dei Paesi che negli ultimi decenni ha esportato più cervelli al mondo, in particolare cervelli femminili. Il fenomeno ha ormai una portata tale che qualche anno fa il governo canadese ha ufficialmente ringraziato i suoi immigrati iraniani (100mila medici) dicendo che per produrre una tale cifra di specialisti avrebbe impiegato almeno 30 anni. Una bella fatica, e tanto denaro, risparmiati.
Sheila Fares è cardiologa ad Alessandria, ed è di religione bahai, fede monoteista nata nell’Ottocento in Iran e quasi sempre perseguitata come eresia, soprattutto dopo la rivoluzione islamica. Formatasi tra Parigi e l’Italia, ci racconta che per le donne iraniane è molto più difficile farcela all’estero: «La mia carriera me la sono dovuta sudare doppiamente, dimostrando prima di essere brava quanto gli uomini e poi quanto gli italiani… Quando dici che arrivi dall’Iran anche i colleghi più colti ti trattano come una che viene dal terzo mondo, che deve essere sottomessa, e allora tiri fuori le unghie e fai vedere che sei capace, che non ti manca niente rispetto a loro». Con il suo caschetto biondo Sheila è tenacissima anche perché l’unica vera caratteristica culturale comune a tutti gli iraniani è la fierezza. «Abbiamo religione e credo politico diversi, ma siamo sempre stati un popolo orgoglioso, discendente di un grande impero e soprattutto non arabo».
E il velo? «Il velo è diventato obbligatorio in Iran per volere dell’ayatollah Ruhollah Khomeini dal 1982, mentre era stato scoraggiato dagli scià del passato» ci racconta Dina Neda Sabet, nutrizionista alle Molinette di Torino. Cresciuta in Italia, spiega come prima della rivoluzione molte donne non lo indossassero, soprattutto quelle della sua famiglia, che non erano di fede islamica: « È proprio per l’imposizione del velo e per l’ossessivo controllo sulla sessualità che molte studentesse sono fuggite in quegli anni».
Oggi, nella confusione politica che continua a caratterizzare la Repubblica islamica, le giovani iraniane continuano a emigrare, quasi come se i versi della grande poetessa persiana Forugh Farrokhzad fossero profezia: «Nella mia piccola notte c’è l’ansia di rovina / il vento ci porterà via». (Fonte: "IO DONNA", 6 - 19 agosto 2011)
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martedì 12 luglio 2011

VIETAVA LA MUSICA ALLA FIGLIA. ASSOLTO IL PADRE MUSULMANO

Per un anno scolastico intero la bambina non aveva potuto frequentare le lezioni a scuola, perché considerate fonte di corruzione. Per il giudice è innocente perché il fatto non costituisce reato.

Per un intero anno scolastico aveva vietato alla figlia, una bambina di 11 anni, di andare a scuola ogni volta che c’era lezione di musica. Motivo per cui la piccola allieva, che frequenta la scuola media in un Comune del Valdarno, aveva accumulato talmente tante assenze da costringere gli insegnanti a bocciarla, anche se era diligente e andava bene nelle altre materie. Il padre, un immigrato di stretta fede musulmana convinto che la musica sia fonte di corruzione, era finito sotto processo per inosservanza dell’obbligo scolastico. Ma alcuni giorni fa è stato assolto con la formula "il fatto non costituisce reato" dal giudice di pace di Pontassieve Salvatore Corsico. Sulla decisione ha pesato con ogni probabilità il fatto che nel frattempo il genitore era stato convinto dalle autorità scolastiche a consentire alla figlia di assistere alle lezioni di musica, purchè con i tappi o con le cuffie sulle orecchie. E infine, grazie all’iniziativa del coordinatore della Lega Nord Valdarno, il medico Costantino Ciari, che nel dicembre scorso aveva denunciato pubblicamente la vicenda, la ragazzina è stata liberata dalle cuffie e ora frequenta regolarmente la scuola. Resta però, sottolinea il dottor Ciari, la perdita di un anno scolastico e la lesione del diritto costituzionale alla istruzione della bambina. (http://www.firenze.repubblica.it , 6/6) Leggi tutto ...

IL "CLUB DELLE MOGLI OBBEDIENTI" SPOPOLA IN ASIA

“La felicità di un matrimonio è direttamente proporzionale all’appagamento sessuale del marito": da qualche tempo ci credono anche 800 donne della Malesia, che hanno deciso di iscriversi al “Club delle mogli obbedienti, nato in Giordania ma diffusosi rapidamente soprattutto nei paesi islamici del Sudest asiatico, Malesia e Indonesia, e a Singapore. Al momento la neonata organizzazione conta appena un migliaio di iscritti, ma il club punta ad aprire al più presto nuove sedi anche in Europa: l’obiettivo è aiutare le donne a capire come “essere sottomesse e rendere felici i mariti in camera a letto”, contribuendo in questo modo a mantenere l’armonia all’interno della famiglia e nella società.
Secondo Rohaya Mohamed, vice presidente dell’associazione, “per essere felici in casa i mariti devono essere serviti dalle donne come lo sarebbero da prostitute di prima classe". “Se così fosse”, ha aggiunto la presidentessa del club malese Fauziah Ariffin, “non verrebbero quotidianamente denunciati così tanti problemi sociali legati al sesso, come stupri, incesti, prostituzione e traffici umani di donne e bambine. Ecco perché dobbiamo aiutare le nostre famiglie a ritrovare l’armonia perduta attraverso una rinata intesa sessuale: se fossero soddisfatti, gli uomini smetterebbero di commettere questi turpi delitti cercando sollievo altrove. E secondo una chiara logica di mercato, interrompendo la domanda, anche l’offerta di ’strani servizi’ dovrebbe scomparire”.
Alla critica secondo cui questa associazione stia promuovendo la formazione di donne-oggetto, le coordinatrici del club malese si difendono sottolineando che una prostituta non ama, rende solo un servizio, mentre le donne da loro istruite devono imparare a mostrare affetto, comprensione, a promuovere il dialogo e a lusingare i mariti con piccole premure e parole dolci. “Devono aspettarlo sempre per cena, assicurandosi che al momento del rientro i bambini stiano già dormendo profondamente per non disturbare l’intimità della coppia, vestirsi in maniera sexy, non dimenticare mai di spruzzarsi qualche goccia di profumo, per essere sempre pronte a soddisfarlo sessualmente come e quando l’uomo ne sente il desiderio o il bisogno”.
Ma in Malesia, per fortuna, non tutti condividono il punto di vista del Club delle Donne Obbedienti: altre associazioni di donne ritengono sia ingiusto accusare le ragazze per il fatto che gli uomini non riescano a tenersi lontani dalle prostitute. Infine, c’è chi ricorda che l’azienda che finanzia il Club, Global Ikhwan, nel 2009 aveva già tentato, senza successo, di promuovere nel Sudest asiatico un’associazione favorevole alla poligamia, e si era ritrovata poi ad essere indagata per i suoi legami con Al-Arqam, un gruppo islamico bandito dalla Malesia nel 1994. (Fonte: http://www.blog.panorama.it ) Leggi tutto ...

domenica 19 giugno 2011

"GLI UOMINI DOVREBBERO AVERE DELLE SCHIAVE DEL SESSO: PRENDIAMO LE RUSSE IN CECENIA"




Lo afferma una politica del Kuwait. Sì, una donna.

E’ vero che gli stati a prevalente cultura islamica devono fare parecchi passi avanti nel campo dei diritti accordati alle donne. Ma allo stesso modo è vero che le prime a dover prendere coscienza della loro uguaglianza sono proprio le donne: e se si pensasse che questa è solo una teoria, tornerebbe di certo utile la storia che ci apprestiamo a raccontare e che il Daily Mail recupera dalle cronache del Kuwait. Una donna, già in corsa come parlamentare nel consesso legislativo di Kuwait City, ha affermato che gli uomini dovrebbero avere delle schiave sessuali, e che le prigioniere di ogni tipo detenute nelle carceri (di paesi stranieri, perdipiù), con l’unica limitazione della religione mussulmana, andrebbero più che bene per assolvere alla bisogna.

SCHIAVE DEL SESSO – Tutto vero, e scioccante non poco.

Salwa al Mutairi ha affermato che comprare una schiava del sesso sarebbe di protezione per gli uomini virili, devoti e giusti del Kuwait, che sarebbero così scoraggiati dall’adulterio perchè comprare una compagna di sesso straniera sarebbe un rinforzo per il matrimonio. E ha addirittura avuto un’idea rispetto al dove comprare queste schiave del sesso – scorrendo fra le prigioniere di guerra negli altri paesi.
Ci ha anche messo il carico, Salwa, sostenendo che per le donne oggetto di un tale traffico sarebbe in fondo molto meglio passare la vita da concubine nelle ricche case del Kuwait che passare i loro giorni a morire di fame in paesi non sviluppati e che non potrebbero dar loro le opportunità del piccolo emirato del golfo.

TUTTO A POSTO – L’opportunità, appunto, di diventare schiave del sesso.

“Non è vergognoso e non è proibito dalla Shari’a”, la legge islamica. (…) Mutairi ha inoltre raccomandato che gli uffici aprano i battenti al traffico del sesso proprio come le agenzie reclutano il personale domestico.
Prostituzione domestica e legale, tratta delle donne legalizzata, sfruttamento permesso dalle leggi: lo si chiami come si vuole; il fatto che la proposta arrivi da una donna è un buon termometro della situazione in Kuwait. Anche se, c’è da dirlo, il personaggio in questione ha più volte dato prova di essere controverso, e queste ultime dichiarazioni lo confermano senza dubbio. Ad esempio, perché non si potrebbe fare un bel viaggetto in Cecenia, dove la guerra ha di certo “causato delle prigioniere russe”? Compriamole e diamole, legalmente, agli uomini del Kuwait, così da scoraggiare l’adulterio illegale promuovendo quello legale.

CRITICHE E GIUSTIFICAZIONI – Un sussulto di reazione però arriva.


Alcune tweeter, utenti femminili di Twitter, già rispondono alla proposta di Salwa (“non ci vedo niente di male”, ripete la politica) respingendo l’idea al mittente in maniera sprezzante.
Chissà come si sarebbe sentita durante l’occupazione da parte delle forze irachene, se fosse stata venduta come un bottino di guerra, ciò che lei auspica per le donne cecene” (…) “Sei una disgrazia per le donne di tutto il mondo” (…) Per Muna Khan, responsabile ad Al Arabiya con base in Arabia Saudita, “la parte più buona della torta” nelle proposte di Mutairi è “la visuale pretestuosa, l’asserzione che le sue suggestioni non siano in contrasto con le leggi dell’Islam”. Secondo Mutairi, però, tutto rientrerebbe nel generale obbligo fatto ad un islamico di “conquistare” i paesi non islamici: la Jihad.
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PARTECIPA A UNA GARA DI BELLEZZA, LAPIDATA

Crimea: Katya Koren, 19 anni, musulmana, è stata barbaramente uccisa al suo ritorno a casa



Aveva partecipato a un concorso di bellezza in Ucraina, è stata uccisa, non lontano dalla sua casa, al ritorno nel suo villaggio in Crimea. E' la terribile storia di una ragazzina musulmana, Katya Koren, 19 anni, lapidata per aver violato la Sharia proprio prendendo parte a questo concorso. La polizia indaga sulla sua morte, dopo aver trovato il suo corpo straziato dalle pietre sepolto in una foresta.
Gli amici della giovane hanno raccontato che Katya adorava indossare vestiti alla moda, e che nel concorso in Ucraina si era classificata settima. Il suo cadavere è stato trovato una settimana dopo la scomparsa. La polizia ha aperto un'indagine per omicidio. Nel mirino ci sono tre giovani musulmani, che l'avrebbero uccisa proclamando che la sua esecuzione era dettata dalla legge islamica.
Uno dei tre, Bihal Gaziev, è in arresto e ha raccontato alla polizia che Katya non ha rispettato la Sharia, e che non ha rimorsi per la sua morte.
Sulla lapidazione il mondo musulmano è diviso: alcuni gruppi sono convinti che sia una legge islamica, altri non sono d'accordo. Secondo il report annuale di Amnesty Internationa sulla pena di morte nel mondo, non risultano notizie di esecuzioni mediante lapidazione nel 2010. Ma di recente ci sono state sentenze di morte per lapidazione in Iran, in Nigeria e nel Pakistan. (Fonte: http://www.tgcom.mediaset.it/ , 31/5)


Non è una notizia recentissima, ma la posto lo stesso, perchè ... Leggi tutto ...

CENTINAIA DI SAUDITE SFIDANO AL VOLANTE IL DIVIETO RELIGIOSO

PROTESTA. LE DONNE RIVENDICANO IL LORO DIRITTO A GUIDARE.

Molte fermate, nessuna arrestata


Re Faysal, secondo molti il sovrano più saggio dei Saud e il più amato fino alla morte nel 1975, diceva che «in una generazione l' Arabia era passata dal cammello alla Cadillac, grazie al petrolio». Ora tutti concordano che in meno di una generazione il Paese più conservatore e maschilista del mondo arabo è passato in massa alle nuove tecnologie. Sempre per merito dei petrodollari, distribuiti qui più che altrove. Basta collegarsi a Internet: ieri un' ondata di video, foto, messaggi su Twitter e Facebook, sui siti arabi e del mondo, testimoniava l' inedita e pacifica protesta delle saudite al volante. Un numero imprecisato di signore di ogni età che ha accolto la sfida delle attiviste di Women2Drive di guidare nell' unico Paese al mondo che non rilascia patenti alle sue cittadine. Il 17 giugno, era la «proposta indecente», scendiamo per le strade guidando noi, munite di licenza di guida internazionale, attente a non fare infrazioni, concilianti e senza eroismi. Ma determinate. Quante sono state? Quante sono e saranno visto che la protesta è destinata a durare «fino alla vittoria»? Impossibile dirlo. Oltre 7 mila si erano impegnate a impugnare il volante, certo molte meno hanno mantenuto la promessa. Ma proprio la scelta di preferire azioni individuali in momenti e luoghi diversi ostacola un conteggio preciso. Di certo c' è solo che qualche decina, forse centinaio di saudite hanno risposto. La prima «certificata» è una tale Nassaf, che ha guidato fino a un supermarket a Riad. Un' amica ha filmato e messo il video su YouTube: 00.30 del 17 giugno, si legge sul telefonino della guidatrice velata. Forse qualcuna le contenderà il primato, ma non importa. Importano invece le decine di testimonianze che sono seguite. «Ho guidato per 45 minuti in via Al Muluk e via Olaya», due importanti strade di Riad. «Ho deciso che l' automobile oggi è mia. Né leggi né la religione lo vietano», ha scritto su Twitter Maha Al Qahtani. «Fantastico, ho appena passato due auto della polizia. Mi hanno solo guardato», sosteneva Dima. «Sono uscita con la mamma, c' era solo lei al volante, le altre dove sono?», scriveva FouzAbd. Ma aggiunge: «Nessuno ci ha dato fastidio, più tardi l' abbiamo rifatto». In realtà, con il passare delle ore qualcuna è stata fermata. E' capitato alla stessa Al Qahtani nella sua seconda «missione», a una decina di altre. Lynsey Addario, una fotoreporter americana, ha dichiarato su Twitter che l' amica saudita al volante che accompagnava è stata bloccata da sei auto della polizia: «Sembrava avessero preso Al Zawahiri, sai che pericolo». Ma nessuna è stata arrestata, al massimo accompagnata in commissariato in attesa che un parente (maschio) le recuperasse, convinta a firmare una dichiarazione: «Non lo farò più». Certo è stata ancora una volta l' élite progressista a sostenere la protesta, compresi molti uomini (qualcuno ha dichiarato che avrebbe «guidato vestito da donna per confondere la polizia») e alcuni reali (come l' anziano principe Talal, fratello del re e padre del miliardario Walid Bin Talal). Tra i contrari alla sfida, come sempre, molte donne «conservatrici». Ma grazie a Internet la sfida delle signore al volante è ormai nota ovunque. La scelta delle autorità di non infierire, in un momento difficile per la regione e lo stesso Paese, può fare ora sperare che almeno su questa battaglia si possa ottenere qualcosa. Re Abdullah lo dice da anni alle donne: «Abbiate pazienza, arriverà il momento». Ieri gli è stato risposto che il momento è ampiamente arrivato. (Fonte: http://www.corriere.it , 18/6)
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mercoledì 8 giugno 2011

LIBERA LA DONNA CHE HA OSATO GUIDARE: L'ARABIA SAUDITA LA COSTRINGE A PENTIRSI



Manal Sharif in un comunicato:mi impegno a non violare la legge

La giovane attivista saudita Manal Sharif (nella foto), che ha trascorso nove giorni in carcere per aver guidato un’auto nel regno saudita, ha deciso di rinunciare alla battaglia che l’ha vista protagonista per consentire a tutte le donne del regno di guidare l’automobile. Con un comunicato pubblicato sul giornale arabo "al-Hayat", la Sharif spiega di «non essere altro che una donna musulmana e saudita impegnata nell’accontentare il suo Signore e ascoltare il proprio paese». «Continuerò a fare solo questo - aggiunge - e chiedo ad Allah di permettermi di seguire saldamente la strada del Corano, della Sunna e del monoteismo». La giovane era stata arrestata dopo essere stata trovata alla guida di un’auto nella città di al-Khobar, nell’est del regno saudita. Il suo caso ha fatto scalpore perchè prima dell’arresto aveva diffuso un video su "Youtube" e aperto una pagina "Facebook" nella quale chiedeva alle donne del suo paese di fare altrettanto il 17 giugno, mettendosi tutte alla guida delle loro auto per spingere la famiglia reale ad abrogare il divieto di guida delle auto per le ragazze.
La Sharif, scarcerata due giorni fa, aveva fatto sapere subito dopo aver lasciato il carcere che non avrebbe partecipato alla protesta del 17 giugno e nel comunicato di oggi promette di «non commettere più altri errori». (Fonte: http://www.lastampa.it/ , 1/6)
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IN IRAN

TEHERAN: L'ATTIVISTA HALEH SAHABI PICCHIATA A MORTE DURANTE I FUNERALI DEL PADRE.



http://www.articolo21.org/3302/notizia/teheran-lattivista-haleh-sahabi-picchiata-a.html

IRAN, CALCIATRICI CON L'HIJAB: LA FIFA LE SQUALIFICA



http://www.leggonline.it/articolo.php?id=125851 Leggi tutto ...