martedì 30 dicembre 2008

AUGURI CON LE "DONNE DELL' ANNO" DELLA CLASSIFICA DI "IO DONNA"

Augurando a tutti un fantastico 2009, riprendo la classifica della "Donna dell'Anno" stilata qualche settimana fa da "IO DONNA", l'allegato al "Corriere". Tra loro anche alcune donne arabe e/o musulmane, di molte delle quali abbiamo parlato su "Mille e Una Donna". Alcune ci sono finite loro malgrado... .

5° posto: Shirin Ebadi, iraniana, Nobel per la pace 2003, difende i diritti delle donne contro il regime di Teheran. Attualmente difende 50 ragazze arrestate dopo una protesta (giorni fa, come sappiamo, hanno chiuso gli uffici della sua organizzazione, ndr).

Aisha Omar, somala, premiata a Saint-Vincent "Donna dell'anno". Denuncia l'orrore dell'infibulazione. Nel Corno d'Africa, dove il 90 per cento delle donne l'ha subita.

19° Nujood Ali, a 10 anni è la prima yemenita a rompere la tradizione dei matrimoni combinati (e delle spose-bambine, ndr).

30° Farshid Moussawi, iraniana, firma progetti di quartiere da 50.000 mentri quadrati. Come il pluripremiato Carabanchel Housing di Madrid.

34° Leyla Zana. Altri 10 anni di carcere inflitti alla leader curda, per reati d'opinione. Succede in Turchia, proiettata verso l'Europa ma ancorata a un buio passato.

53° Rania di Giordania. I filmati sui musulmani diffusi dalla sovrana vincono il Visionary Award di YouTube.

63° Rola Dashti, economista, fondatrice della Women Partecipation Organization, tra le 100 personalità più influenti del mondo arabo, si batte per il voto alle donne in Kuwait.

73° Rachida Dati. A Carla Bruni che le avrebbe detto:"Avresti voluto essere tu nel mio letto?" la ministra della Giustizia francese risponde con un colpo di teatro: resta incinta e tiene segreto il padre.

88° Suzanne Tamim. Il brutale assassinio della pop star libanese è al centro di un intrigo nel jet-set mediorientale. Dove spunta il figlio del presidente egiziano Mubarak.

90° Asma al-Assad. Già analista della Deutsche Bank, bella e impegnata. La first lady siriana, all'incontro dei capi di Stato mediterranei a Parigi, è riuscita a far deviare gli sguardi da miss copertina, Carla Bruni (ma bisogna anche ammettere, dalla brutalità e vicinanza con Iran, Hamas e Hezbollah, del regime del marito Bashar, ndr).

In questa "top 100", anche Miriam Makeba, Ellen Johnson Sirleaf (prima donna africana Presidente, che si è assunta l'arduo compito di dire la verità sui 24 anni di guerra civile che hanno devastato la Liberia), Aung San Suu Kyi, Rose Mukantabana, attivista di ActionAid in Africa, viene eletta alla Camera e diventa la speaker del Parlamento ruandese, il primo al mondo a maggioranza femminile, Ingrid Betancourt e persino... Eluana!
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domenica 28 dicembre 2008

"MANDATE LE FIGLIE A SCUOLA? MORIRANNO"











Ultimatum. Nell'ex "Svizzera d'Oriente" il mullah Fazlullah ha emesso via radio la sentenza contro l'educazione femminile. I talebani pachistani nella valle dello Swat: avete tempo fino a gennaio.

Già bruciati 125 istituti. Gli estremisti prendono di mira le alunne: "In classe imparano volgarità e i valori occidentali".

Mamme avvisate: il grembiulino azzurro sarà la divisa delle condannate a morte. "Non dovete più mandare le vostre figlie a scuola. Avete tempo fino al 15 gennaio: da quel giorno le ammazziamo tutte". Il mullah Fazlullah non ha ancora trent'anni e dice di guidare un movimento pacifico per la promozione della virtù islamica. Vorrebbe bandire la tv dalla faccia della Terra ma gli piace molto la radio. Infatti lo chiamano "mullah in FM": da un centinaio di piccole emittenti illegali fa riecheggiare i suoi editti in tutta la Valle dello Swat, un ex paradiso di montagne e torrenti nel cuore del Pakistan.
Fino a ieri era la "Svizzera d'Oriente": una meta turistica a poche ore di auto dalla capitale Islamabad, 5.400 chilometri quadrati di bellezze naturali e di storia (qui marciò Alessandro Magno, e nella parte settentrionale passava l'antica Via della Seta). Una zona tradizionalista, di etnia pashtun (la stessa dei talebani afghani), ma ricca e relativamente tollerante verso la modernità (fino al '69 retta da un sovrano moderato), capace di coniugare la pista del Corano con le piste da sci. Dal 2007 la Svizzera d'Asia è diventata campo di battaglia, testa di ponte del movimento integralista che, partendo dalle Aree Tribali al confine con l'Afghanistan, si ripromette di trasformare il Pakistan in un emirato "governato dalla sharia". (Fonte: Corsera")
E nella "laica" Turchia: Ragazze disperate tornano vergini. In Mauritania invece Mogli bambine, il nuovo affare.
La valle è militarizzata (200 soldati pachistani uccisi negli ultimi mesi). Ma la decisione di Islamabad di spostare parte delle truppe dal fronte "talebano" al confine indiano rischia di rafforzare il "mullah in FM". Nella valle dello Swat c'erano un centinaio tra hotel e ristoranti. Il 75% ha chiuso. Le scuole stanno seguendo la stessa sorte. Quelle femminili s'intende: nel giro di un anno (agendo di notte) i miliziani di Fazlullah ne hanno già bruciate 125. Adesso, per la prima volta, l'ultimatum riguarda ogni famiglia, ogni bambina, ogni ragazza della valle. "L'educazione femminile è contro gli insegnamenti islamici, propaga la volgarità e i valori dell'Occidente". In quest'ottica aberrante, anche la campagna Onu di vaccinazioni contro la poliomielite avrebbe come obiettivo di "rendere impotenti i nostri bambini". Follie inculcate con il ricatto della violenza. Minacce efficaci, visto che nella valle i casi di polio sono aumentati e il 50% delle bambine ha già abbandonato la scuola. Le famiglie (e gli insegnanti) hanno paura. I ricchi fuggono. I poveri restano. Lo Swat ha 842 scuole maschili e 490 femminili, con 300 mila bambini dai 3 ai 9 anni: solo 160 mila maschi e 67 mila femmine sono iscritti ai corsi. L'ultimatum del "mullah in FM" peggiorerà le cose. Hazir Gul, un insegnante citato dal quotidiano The Times, dice che la mancanza di protezione da parte dello Stato ha reso onnipotenti i talebani: "Possono bruciarci quando vogliono, impunemente". Però le autorità fanno la voce grossa. Il ministro della Scuola della Frontiera di Nord-Ovest (la regione che comprende lo Swat) dice che "l'islam prevede istruzione obbligatoria per entrambi i sessi" e che quindi "il governo userà ogni mezzo per proteggere questo diritto". Certo. E le 125 scuole bruciate finora? Sul fronte opposto Maulvi Umer, portavoce nazionale dei talebani pakistani (Tehrik-i-Taliban), contatto dal quotidiano "L'alba" sembra fare marcia indietro dalle minacce di Fazlullah, a condizione che "le studentesse vadano a capo coperto". A chi credere? Nella valle dello Swat le radio contano più dei giornali. E "il mullah in FM" lo sa bene.

Aitzaz Ahsan, della Commissione per i diritti umani. "I genitori non hanno alcuna scelta. Il governo non controlla quelle aree".
"La situazione sta sicuramente peggiorando per le donne in alcune zone del Pakistan, dove i talebani sono forti". Lo dice l'avvocato Aitzaz Ahsan. E' co-fondatore e vicepresidente della Commissione pachistana per i diritti umani. Ed è membro del Partito Popolare del Pakistan, oggi al potere (ex consulente fidato di Benazir Bhutto, fu proposto come leader alla sua morte, ma fu scelto il vedovo, Zardari).
E' vero che il governo non ha alcun controllo a Swat?
"Sì, è vero".
In quali altre zone è così?
"Oltre a Swat, nelle aree tribali di amministrazione federale". E' una zona di 27.000 km quadrati, al confine con l'Afghanistan: 7 distretti (Khyber, Kurram, Bajaur, Mohmand, Orakzai, Nord e Sud Waziristan).
Il 50% delle bambine a Swat non va più a scuola.

"I genitori non hanno scelta".

Ma spostando truppe dal confine afghano a quello indiano, la situazione non peggiorerà?
"Certo. Ma cos'altro può fare il Pakistan? L'India lo minaccia".

C'è chi rimpiange Musharraf...
"E' lui la fonte di tutti i problemi. Ha distrutto il sistema giudiziario, rafforzando il brutale sistema di giustizia talebano. E anche ora non abbiamo un sistema giudiziario".
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LA POLIGAMIA ISLAMICA DIETRO LA MORTE DELLA MODELLA

Amici e parenti: «Era sconvolta, ma non si sarebbe mai uccisa». Sahar Daftary, «Volto dell'Asia», aveva scoperto che il marito era già sposato e voleva il divorzio.

LONDRA — Il vestito da sera rosa che aveva chiesto come regalo è rimasto a casa dei genitori, a Londra. Sahar Daftary (nella foto il giorno del matrimonio, ndr) non ne ha più bisogno perché sabato 20 dicembre è stata trovata morta a Manchester, sotto un grattacielo di lusso, dopo un volo dal dodicesimo piano. Sahar avrebbe compiuto 24 anni il giorno di Natale, faceva la modella, era stata eletta «Volto dell'Asia» e secondo la polizia con ogni probabilità si è lanciata nel vuoto, sconvolta perché sei mesi fa aveva scoperto che l'uomo affascinante che amava e aveva sposato con rito islamico, di fronte all'imam, era già unito con altre tre mogli e aveva dei figli. La polizia ha prima arrestato l'uomo, Rashid Jamil, 33 anni, un imprenditore di origini pachistane, poi lo ha rilasciato sulla parola. I vicini hanno riferito di non aver sentito rumori di una lite, urla, solo quel grido atroce mentre la ragazza precipitava. Ma la famiglia di Sahar, venuta dall'Afghanistan, chiede che le indagini continuino, non crede al suicidio o alla disgrazia. Perché Rashid si era rivelato una persona falsa, dalla doppia e dalla tripla esistenza; perché la notte in cui è morta, lui ha fatto alcune telefonate strane per dare l'allarme; perché Sahar era andata da Rashid per chiedergli di firmare le carte del divorzio; perché lei voleva rifarsi una vita e aveva prenotato una vacanza di Natale a Dubai con gli amici: il vestito rosa lo avrebbe voluto portare in quel viaggio, non pensava di uccidersi. Per giorni la morte di Sahar Face of Asia è stata trattata come un «semplice» giallo nell'ambiente della Manchester ricca, giovane ed elegante. Quando la famiglia Daftary ha cominciato a parlare, la vicenda ha rivelato un altro aspetto: quello della poligamia islamica in Gran Bretagna. «Purtroppo questa storia è comune», ha detto al Times il capo del Muslim Parliament of Great Britain, un gruppo che si occupa di diritto di famiglia. «Malauguratamente il nostro clero non sembra vivere ai nostri tempi, per loro controllare la sessualità delle donne è molto più importante della giustizia familiare». Nell'islam tradizionalista è legale per l'uomo avere fino a quattro mogli alla volta: ma Sahar era una ragazza cresciuta in Inghilterra e anche Rashid sembrava un manager di mentalità moderna. (Fonte: "Corsera")

E poi leggete Pakistan, oltre 150 mila persone per ricordare Benazir Bhutto.
Poi, una mattina, dopo il matrimonio, Sahar aveva ricevuto la telefonata di Narhisa, una dirigente di marketing, 29 anni, che le disse di essere sposata con il suo stesso uomo e di avere due bambini. La sorella di Sahar ricorda: «Fu uno choc, andammo a casa sua e c'era anche Rashid, che era calmo e disse solo che ora voleva bene a Sahar e non amava più l'altra. Era calma anche Narhisa, disse che andava bene, che se lo aspettava, perché lui era già stato sposato con una donna in Inghilterra e con un'altra in Pakistan». Due divorzi e due matrimoni in corso, legale secondo il diritto islamico, normale secondo il clero della comunità: ma devastante per la giovane Sahar che non sapeva di essere moglie di un poligamo. Gli amici della modella dicono che la scoperta di quel segreto l'aveva sconvolta. Che l'ultima sera a Manchester aveva detto che sarebbe andata a casa di lui per prendere le cose che aveva lasciato sei mesi prima andandosene e per fargli firmare il documento di divorzio.La sorella Mariya giura: «Ci batteremo per la verità, perché la sua anima possa riposare in pace. Era religiosa, non si sarebbe mai uccisa, perché sapeva che il suicidio porta all'inferno». Allora, se non l'ha uccisa Rashid, Sahar è stata spinta giù da quel balcone al dodicesimo piano di un moderno grattacielo da una legge matrimoniale fuori dal tempo.
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E L' INFUBULATRICE PENTITA SI ALLEO' CON L'AVVOCATO DELLE VITTIME

IL CAIRO — Sembra una storia inventata, da film o romanzo (magari francese): due rivali forti e rispettate ciascuna nel suo mondo, si combattono, una sconfigge l'altra, ma intanto si conoscono, diventano amiche. E, deposte le armi, scrivono insieme un libro sulla loro incredibile vicenda, tutta vera (e in effetti francese). Le due protagoniste: Linda Weil-Curiel (foto), avvocato del Foro di Parigi dal 1973, storica femminista dai tempi della Lega dei diritti della donna di Simone de Beauvoir, la più combattiva e nota penalista francese schierata contro le mutilazioni genitali femminili. E Hawa Gréou, maliana e altrettanto storica exciseuse della capitale francese, autrice cioè delle mutilazioni inflitte a decine di bambine e ragazze immigrate soprattutto da Senegal e Mali, riverita e ben pagata come prima di lei (in patria e per la stessa professione) la madre e la nonna. «È dal 1982 che mi batto contro le mgf, tra le primissime in Francia. Ho convinto tutti a non fare una legge speciale che sarebbe sembrata razzista, il codice penale basta. Ho fondato una Ong, Cams, proprio per abolire le mgf e far capire ai francesi che tutte le nostre bambine vanno difese, al di là dell’origine», racconta Weil-Curiel. «E poi i processi, più di quaranta, tra cui quello contro Hawa Gréou, nel 1999, in cui l'ho fatta condannare a otto anni. Era la prima exciseuse a finire in un carcere francese, avrebbe dovuto odiarmi più di chiunque al mondo». Invece, uscita dalla prigione con uno sconto di pena («un periodo bellissimo — dirà poi Mama Hawa —solo preghiera e riposo»), l'infibulatrice pentita non solo smette di esercitare, ma inizia a telefonare alla Weil-Curiel. «Mi chiedeva consigli, ormai si fidava di me — racconta l'avvocato —. All'inizio ero sorpresa, poi mi sono affezionata. Fino a quando, l'anno scorso, abbiamo fatto insieme un libro». Exciseuse, appunto, uscito per City Editions. Un denso, doppio racconto che parte per Hawa dalla famiglia di fabbri e infibulatrici in Mali, per Linda dal padre, con De Gaulle nella resistenza, e dalla madre di Tahiti, dove anche lei è nata. Che continua con la carriera delle due donne. Che si addentra nella questione delle mutilazioni, su cui in realtà si sa poco anche in Francia. «Una bella esperienza, e ormai un'amicizia», dice Weil-Curiel. «E ora siamo arrivati al paradosso che Hawa mi ha chiesto di difenderla contro il marito: poligamo con co-mogli più giovani di lei, ha bisogno di spazio in casa, la vuole cacciare. Anche perché lei non guadagna più come quando era la regina delle mutilatrici. Ma daremo battaglia». ("Corsera", 23/12)

E "Mille e Una Donna" non può neppure rimanere indifferente alla massiccia risposta di Israele ai lanci di razzi da parte di Hamas da Gaza, a causa dei quali è successo anche questo: Due bambine palestinesi uccise da un razzo palestinese.
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sabato 27 dicembre 2008

DONNE MUTILATE, GUERRA ALL'ORRORE

Il Cairo - Nel villaggio di Sindibis, un'ora dal Cairo tra campi e palme lungo il Nilo, è festa grande: bambini, giovani, anziani, vescovi copti e imam musulmani, tutti con grandi sorrisi e gli abiti migliori. Sotto l'enorme tendone pieno di luci, decorato da insoliti disegni di coltelli e scritte color del sangue, Moushira Khattab grida al microfono: «Le vostre bambine d'ora in poi saranno belle e felici come la luna». E poi: «Da oggi - proclama la leader del Consiglio nazionale per l'infanzia e la maternità (Nccm) - a Sindibis le mutilazioni genitali femminili, le mgf, sono proibite per sempre». È la fine di un'era durata millenni per il villaggio che come altri in tutto l'Egitto - musulmani, cristiani o misti - ha scelto di essere «libero dalle mgf». Ancora poco se si pensa che il 96% delle egiziane tra i 15 e i 49 anni (stime Onu) sono mutilate, che fino ai 15 anni il tasso è ritenuto sul 60%. Come minimo private di parte o dell'intero clitoride, a volte con gli organi genitali esterni tagliati. Molte ne soffrono tutta la vita, alcune muoiono di parto o subito: come Bodour, 13 anni, uccisa nel 2007 da una «circoncisione», ormai diventata un simbolo. Ma per tutte la piaga è marchio indelebile della condizione inferiore della donna, privata della sessualità per non mettere a rischio, prima e dopo il matrimonio, l'onore della famiglia (ovvero dei maschi). «Sono felice per le mie bimbe - ci dice Fawziya - ma questa festa ricorda che per me è troppo tardi, oggi riprovo l'orrore di allora». (Fonte: "http://www.emmabonino.it, dal "Corsera" del 23/12)

In Egitto, come in altri 17 Paesi tra i 28 dell'Africa dove la pratica è diffusa (con tassi che vanno dal 28% del Senegal a oltre il 90% di Mali, Guinea e Sudan), da giugno esiste una legge che la proibisce. Altre nazioni (Kenya, Uganda, Mali) stanno per metterla al bando. Un successo, certo: vietare una tradizione che risale ai Faraoni, difesa per secoli dalle comunità e dai leader politici e religiosi di ogni credo (non a caso tutti uomini), è una svolta storica. Già avere rotto il tabù per parlarne sui media è un gran risultato. Perché la vera guerra alle mgf, pur preceduta da qualche coraggiosa battaglia locale, in fondo è iniziata appena nel 2003, alla Conferenza del Cairo voluta da Emma Bonino con la sua Ong Non c'è pace senza giustizia (Npsg) e dal Nccm guidata dalla Khattab (che ammette di aver «scoperto solo allora, scioccata, la vastità del fenomeno» nel suo Paese). Con il forte sostegno della first lady Suzanne Mubarak, del grande imam di Al-Azhar, sheikh Tantawi, e del patriarca copto Shenouda III. Oltre a quello, fondamentale, di decine e decine di first lady, ministre, parlamentari e attiviste africane (ma anche europee), che pochi giorni fa si sono ritrovate al Cairo per fare il punto e rilanciare la lotta. Dalla seconda, grande Conferenza chiamata «Cairo+5», è emerso un verdetto comune: i primi risultati ci sono, la strada imboccata è giusta, ma la battaglia deve continuare. Perché mancano dati ma si stima che ogni anno vengano ancora private della loro sessualità tra i due e i tre milioni di donne e bambine, che si aggiungono al triste ed enorme esercito mondiale di mutilate: 120-130 milioni. «E perché - ci spiega Emma Bonino, che ha aperto la Conferenza con un sentito messaggio di Clio Napolitano - sono emerse novità. Le mgf hanno infatti iniziato a calare in certi Paesi ma questo ha portato alla migrazione mutilatoria: le famiglie portano le figlie in Stati vicini dove la pratica è permessa, ad esempio dal Burkina al Mali. Abbiamo poi notizie, per la prima volta, di mgf in Paesi finora ritenuti privi, come Arabia Saudita o Iraq, per non parlare dell'Occidente dove gli immigrati hanno esportato le mutilazioni. Che sono diventate un problema globale e richiedono quindi un'azione globale». Soprattutto, ha decretato la «Cairo+5» che si è riconvocata tra un anno in un Paese dell'Africa occidentale, passaggio dal nazionale al transnazionale, con l'armonizzazione delle legislazioni; creazione di osservatori per il monitoraggio; campagne d'informazione più massicce e vera applicazione delle leggi. Anche nei Paesi finora ritenuti privi di mgf. «Nel Kurdistan iracheno siamo rimasti sconvolti nel sapere che in alcuni villaggi il 60% delle donne sono mutilate», conferma Rozhan Dizayee, avvocato e membro del Parlamento di Erbil, unica donna della Commissione Giustizia. «Abbiamo scoperto che è una pratica antica, fatta in segreto fuori dalle città, che oggi si sta diffondendo con il crescere dell'estremismo islamico, anche se islamica non è. Mi sto battendo per una legge, non è facile». Come Rozhan, unica rappresentante del Medio Oriente alla conferenza africana-europea, tante altre donne hanno testimoniato la loro battaglia: dalla ministra del Kenya Linah Kilimo («i colleghi mi chiamano Mgf, ma prima era con scherno, oggi con rispetto»), all'attivista senegalese Khadi Koita (autrice del libro Mutilata, Cairo Editore, paladina anti-mgf in Europa). «Come per quella mamma alla festa del villaggio - ci dice Nahid Gabrella, attivista e consulente sudanese - per noi donne africane questa lotta è un dolore, continua a ricordarci quello che abbiamo subito. Ma anche per questo eliminare per sempre le mutilazioni è la cosa più importante che possiamo fare».
E visto il periodo di festa: Il messaggio di Maryam Radjavi in occasione di Natale ed Anno Nuovo
ADDI – In occasione del Natale del nuovo anno la signora Maryam Radjavi, presidente eletta dalla resistenza iraniana, ha indirizzato i suoi migliori auguri ai cristiani del mondo intero e particolarmente a quelli dell'Iran. La Sig.ra Radjavi ha dichiarato che negli ultimi mesi del 2008 “ le Corti di giustizia„ sono riusciti a superare la grande menzogna della dittatura dei mullah iraniani che cercano di diffamare la resistenza giusta del popolo iraniano : “Il sistema giudiziario europeo ha annullato in due sentenze consecutive l'iscrizione illegittima dell'OMPI nell'elenco terroristico dell' Unione europea”. Anche l' Assemblea generale delle Nazioni Unite ha fermamente condannato le forti violazioni dei diritti dell' uomo e la discriminazione religiosa perpetuati dai mullah in Iran. (27/12) Leggi ancora...
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AFGHANISTAN: VIAGRA RIALZA SPERANZE INTELLIGENCE USA

ROMA - Gli agenti segreti americani alla disperata ricerca di argomenti per convincere la riluttante popolazione afghana a schierarsi contro i taleban hanno trovato un'arma segreta. Il Viagra. In un servizio pubblicato oggi, il Washington post online racconta l'esperienza di un agente americano, che con quattro pilloline blu è riuscito a convincere l'anziano leader di un villaggio strategico del sud a collaborare con l'intelligence Usa, ottenendo un'ampia messe di informazioni sui movimenti e la logistica degli insorti integralisti islamici. L'agente, ovviamente sotto anonimato, ha raccontato di essersi recato in questo villaggio per incontrarne il capo tribale, un uomo di circa 60 anni con il viso incorniciato dalla immancabile barba bianca. Dopo i lunghi convenevoli, quando la conversazione è caduta sulla famiglia dell'anziano leader, marito orgoglioso ma provato di quattro giovani mogli, all'agente è venuta l'ispirazione. "Provate una di queste. Rimarrete entusiasta", ha detto offrendogli la scatolina con le quattro pillole. Previsione azzeccata: "Dopo di questo - ha detto l'agente - abbiamo potuto fare quello che volevamo nella zona". (Fonte: "Temporeale"). Leggi tutto ...

giovedì 25 dicembre 2008

LA REGINA RANIA HA ACCESO L'ALBERO DI NATALE PIU' GRANDE DI TUTTA LA GIORDANIA !



Per chi desidera, c'è anche "Jingle Bells" in arabo! :-) ... E ancora auguroni di buon Natale a tutti! Dimenticavo: la voce è sempre quella di Fairouz! Leggi tutto ...

lunedì 22 dicembre 2008

E ANCHE IN SIRIA, IN EGITTO E NEI TERRITORI PALESTINESI... SOTTO IL VELO, DI TUTTO

Il commesso barbuto prende un paio di slip rossi con la zip davanti dalla vetrina piena di guêpière made in Cina e lo mostra alle tre ragazze velate che si tengono a braccetto e parlottano. Dietro il bancone della piccola bottega a pochi isolati dalla Muqata, la sede del governo palestinese, un ritratto di Yasser Arafat. La taglia è giusta: le amiche pagano e si rituffano nel trambusto dei centri commerciali di Radio Bulevard, il cuore di Ramallah, automobili con la musica sparata, banchi di fragole, un grande albero di Natale. «E' un settore che qui non conosce crisi» scherza Mustafà, titolare d'un negozio di corsetti piumati e reggiseni trasparenti, alcuni di marche europee. Suo cugino vive a Gaza, dove di questi tempi i trafficanti si arricchiscono importando armi e Viagra: «Quando è riuscito ad andare in Egitto, attraverso il valico di Rafah, ha comprato diversi capi, cose adatte a una serata speciale con la moglie. Anche il Cairo ormai è invaso da prodotti cinesi, costano meno, li usi una volta e poi cambi fantasia».
Nonostante il numero crescente di donne velate, il mondo arabo mantiene la passione per la biancheria intima licenziosa. Facce entrambe della stessa medaglia, secondo il libro di due giovani studiose che sta facendo il giro della comunità musulmana londinese e di quella virtuale, la umma online. The Secret Life of Syrian Lingerie, la vita segreta della lingerie siriana, è un'inchiesta sul lato occulto della capitale siriana tra i cui vicoli non si nascondono solo gli agenti del Mukhabarat, la temibile polizia segreta del presidente Assad, ma un'immaginario erotico decisamente audace narrato finora solo dalla letteratura. Romanzi come La prova del miele di Salwa Al-Neimi, una specie di Melissa P mediorientale, hanno avuto molto successo all'estero e in patria, seppure grazie a internet. Ma raccontare la realtà resta un tabù sostiene Malu Halasa, una delle due autrici di The Secret Life of Syrian Lingerie: «Basta pensare alla fantasiosa biancheria intima siriana. Prodotta da tradizionali e religiose famiglie sunnite per una clientela tradizionale e religiosa sarebbe l'ideale contro la convinzione occidentale che l'islam sia puritano e sessuofobico». Il condizionale è d'obbligo: «Dopo mesi di discussioni l'editore ha rifiutato le immagini della prima donna musulmana in lingerie che si vedono sui cartelloni pubblicitari di mezza Siria per paura di una reazione violenta». Della serie si fa ma non si dice. Scriverne poi, apriti cielo. (Fonte: "Hurricane_53, da "La Stampa")

E poi leggetevi: I tanti volti delle donne migranti .
Intanto però, il libro c'è. Avrebbe potuto mostrare di più, come sa bene chi si è addentrato almeno una volta nei vicoli dello storico Suq Hamadiyeh di Damasco, tra antichi backgamon siriani intarsiati di madreperla e bustini in latex che farebbero impazzire Madonna. Ma racconta molto attraverso le voci delle protagoniste come la giovin signora che spiega l'uso delle mutandine accessoriate di cellulare. «Quando desidero mio marito - dice la donna - mi siedo sul letto con indosso solo di slip e lo chiamo: dring, dring, il telefono squilla, vieni a rispondere». «Alla scuola d'arte mi dicevano di guardare all'interno della mia cultura, l'ho fatto ed è stata una vera sorpresa» ammetta Rana Salam, l'altra autrice che lavora in studio grafico a Londra. La vita segreta della lingerie siriana pullula d'indumenti intimi bordati di pelliccia o arricchiti di uccellini in plastica, boa di struzzo, reggiseni a coppa che si aprono come scrigni e partners che s'ingegnano a vicenda ad aprire e chiudere cerniere lampo.

Pazienza se i cultori di Victoria's Secret, la raffinata marca di lingerie americana, storceranno il naso: «Chiamatelo pure kitsch, è l'inno alla sessualità mediorientale, arte pura» ripetono le autrici. La performer libanese Ayah Bdeir ha incluso gadget erotici «alla siriana» nelle sue ultime installazioni. Una fanciulla con il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi esce dal un negozio di Salah Eddin street, a Gerusalemme est, infilando nella borsa un paio di culotte con un cuore lampeggiante davanti. «Non c'è vergogna nella religione» dice uno degli intervistati alla fine di The Secret Life of Syrian Lingerie, spiegando che l'islam incoraggia i coniugi a cercare la reciproca soddisfazione sessuale. E' la teoria degli orientalisti Hassouna Mosbahi e Heller Erdmute, secondo cui sarebbe stata la cultura tribale araba a aver aggiunto misoginia e bigottismo a quella musulmana. Peccato che oggi sul lungomare di Gaza i fidanzati non possano neppure prendersi per mano.
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POP MADE IN USA, NO VIDEO SEXY. LA SCOMMESSA DELLA MTV DI DUBAI

La trasmissione più seguita è quella dedicata ai migliori rapper dei paesi islamici. Vietati i testi troppo spinti. E durante il Ramadan, niente canzoni.

DUBAI - Mohammed Hammad fissa la telecamera con aria sicura. Indossa una maglietta con sopra stampato un Oud - lo strumento più celebre della musica araba - jeans larghi e scarpe da ginnastica. Parla mischiando parole in inglese a vocaboli in fuhsa, l'arabo classico, e muove le mani alla maniera dei rapper americani: "Per questa settimana è tutto. Vi aspetto alla prossima. Tasharrafna ("è stato un piacere") and stay cool". La luce rossa si spegne e il ragazzo scende dal palco: "Non prendete tutto questo come qualcosa di politico - dice subito - facciamo musica. Non per farci guardare dall'Occidente, ma perché è quello che siamo: giovani. Moderni. Aperti. Arabi". Hammad parla come uno che vuole prevenire le polemiche: negli ultimi mesi ne ha viste da vicino parecchie. Da un anno quello di Hammad, 24 anni, saudita cresciuto a Londra, è il volto di un esperimento senza precedenti: portare nel mondo arabo, la regione del globo dove il sentimento anti-americano è più forte, uno dei loghi più conosciuti d'America, quello di Mtv. In versione locale. Una sfida non priva di insidie: poche settimane fa lo sceicco saudita Saleh al-Luhaidan ha detto che i proprietari di emittenti che trasmettono musica, telefilm e tutto ciò che "corrompe la morale dei giovani" dovrebbero essere uccisi. Ed è noto che ai settori più conservatori del mondo arabo la presenza di un marchio americano nel mercato locale delle tv non piace. Samar al Marzouqi liquida queste osservazioni quasi con sufficienza: "Prima di iniziare le trasmissioni abbiamo fatto un tour per parlare con i leader religiosi della regione. Abbiamo spiegato che volevamo fare una tv per i ragazzi di oggi, che guardano all'Occidente ma non intendono mettere da parte la loro cultura. Chi dice che miniamo la cultura araba non ci conosce. Lo scopo è esattamente il contrario: dire ai nostri ragazzi che non hanno bisogno di cambiare. Che sono cool così come sono: abbiamo programmi americani, ma il nostro maggior successo è HipHopNa, un trasmissione che cerca i migliori rapper arabi". A 23 anni, al Marzouqi è il più giovane responsabile di una televisione al mondo: la sua mission è conquistare i 190 milioni di arabi che abitano nella zona raggiunta da Mtv Arabia (penisola arabica, Africa del Nord, Medio Oriente). Già la sua presenza dietro alla scrivania di comando racconta di una società diversa da come siamo soliti immaginarla: un mondo dove i due terzi degli abitanti hanno meno di 30 anni, guardano all'America per stile e musica, ma ne criticano la politica. Gli studi di Mtv Arabia, a Dubai, incarnano perfettamente questo modello: nei corridoi ragazze in canottiera chiacchierano con coetanee in fuseaux, maglietta larga e velo scuro in testa. Più coperte, ma non meno attente alla moda. Nell'equilibrio fra i mondi che queste ragazze rappresentano si gioca tutta la sfida di Mtv Arabia: "Lo abbiamo promesso all'inizio: niente sesso, niente volgarità. E manteniamo la linea - insiste Al Marzouqi - i video esplicitamente sexy, come quelli della star libanese Haifa Wehbe, (foto, ndr) da noi non passano. Se nella canzone ci sono passaggi volgari, parte il "biip". O non va in onda. C'è un comitato che esamina tutto. Non mi piace chiamarla censura: ma sappiamo dove siamo. Forziamo le barriere ma non vogliamo travolgerle". La linea è sottile: se Haifa resta fuori dalle programmazioni, milioni di ragazzi e ragazze dal Libano all'Arabia Saudita possono vedere le americane Pussycat Dolls, ballare in pantaloni attillati e reggiseni di lattice o Craig David mettere in mostra i muscoli nei suoi video. (Fonte: "La Repubblica", 18/12)
Ma durante il Ramadan dagli schermi è scomparsa la musica, in segno di rispetto per il mese sacro dell'islam. Una decisione senza precedenti per Mtv e che dice molto degli sforzi di al Marzouqi e dei suoi per conquistarsi un'identità propria. "Stanno cercando di creare un prodotto ibrido fra la cultura giovanile globale e quella araba - spiega Augusto Valeriani, esperto di media arabi - è una sfida davvero interessante". Il tentativo di raggiungere questo equilibrio finora ha guadagnato a Mtv Arabia l'approvazione dei ragazzi che affollano i mall di Dubai. "Mi piace perché è moderna e aperta. Ma anche perché so che non troverò nulla che mi disturbi", dice Fatima, 17 anni, grandi dosi di matita verde sugli occhi, intonata al colore dei ricami del velo che le copre i capelli. Fatma, jeans larghi e scarpe da ginnastica appena nascosti dall'abaja nera concorda: "I programmi americani che trasmettono sono belli. E li guardo senza timore: ho capito che c'è una selezione". Difficile sapere se l'opinione delle ragazzine della ricca Dubai sia condivisa dalle loro coetanee nella conservatrice Arabia Saudita, del misero Yemen o del trasgressivo Libano. Ma l'esperimento resta di quelli da seguire, soprattutto perché Al Marzouqi promette nuove sfide. La prossima è quella sulla scelta del veejay che affiancherà Hammad: "Sarà una ragazza, moderna e tradizionale allo stesso tempo", annuncia. Dichiarazione quasi rivoluzionaria, in un'area del mondo dove le donne sono spesso ancora considerate cittadine di serie B. Non a caso alla notizia, Fatma e le sue amiche reagiscono arrossendo. "Perché no?", commentano. Ma subito mettono in chiaro: "Noi non potremmo mai farlo". Qualcuna, c'è da scommetterci, ci riuscirà.
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ISLAM: TUNISINA AGGREDITA DA MAROCCHINA IN ITALIA PERCHE' SENZA VELO


Vittima picchiata per strada a Formigine, nel modenese. Una tunisina di 30 anni abitante a Formigine, nel Modenese, e' stata aggredita per strada da una marocchina coetanea, perche' senza velo. La donna l'ha insultata, picchiata e gettata a terra colpendola anche con la borsa della spesa. La vittima - che vive in Italia da molti anni, fa la casalinga, e' sposata e ha un figlio di otto anni - si e' poi fatta medicare all' ospedale di Baggiovara dove le sono state riscontrate lesioni varie. La donna ha denunciato l' aggressione ai carabinieri di Formigine e sulla vicenda indaga la procura di Modena.

Circa due settimana fa, qualcuno di voi ha sentito di una ragazzina nordafricana frustata dal padre a Reggio Emilia perchè voleva studiare "trascurando le faccende di casa"?! Non sono riuscita a trovare articoli a riguardo, ma ve lo dico lo stesso visto la vergogna della cosa!

E in Belgio... link .
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domenica 21 dicembre 2008

IL PAKISTAN CACCIA TUTTE LE MISS: PER L'ISLAM SONO "PECCATRICI"

Belle, ma neglette. All’estero sono volti e corpi da copertina, in patria sono la sporca dozzina, le ragazze da dimenticare, le bellezze da esiliare. Sono le dodici intrepide, o sprovvedute, concorrenti di un concorso di bellezza, miss Pakistan, trasferito fuori dai confini nazionali per non trasformare lo scettro dell’avvenenza in una fatale spada di Damocle. Non a caso Natasha Paracha, la 24enne trionfatrice di quest’anno, vive a New York e prima di decidersi a sfilare in bikini ha pensato bene di trovarsi un posto alle Nazioni Unite. Così fan tutte. Neppure una delle dodici ragazze con passaporto pakistano disposte a competere per il titolo di reginetta del proprio paese arriva dalla nazione d’origine. Vivono tutte ai quattro angoli del mondo e - una volta provata l’emozione della grande sfida - si guardano bene dal rimettere piede in un Paese sconvolto dagli assalti del terrorismo integralista. Il concorso di bellezza non si svolge, del resto, a Islamabad, Karachi e Lahore, ma a Missisauga, una gelida cittadina dell’Ontario canadese affacciata sull’Atlantico. Lì la signora Sonia Ahmed, attiva imprenditrice pakistana traslocata da anni a Toronto riunisce e incorona ogni anno le ragazze decise a sottrarsi alle ferree regole islamiche del «paese dei puri». Quest’anno la signora Ahmed s’ illudeva di riuscire a riportare a casa giuria, reginette e competizione, ma la prudenza e le agitate cronache di Islamabad, Karachi e dintorni l’han fermata in tempo. «Non ci sono ancora le condizioni per organizzare in Pakistan la competizione, il fondamentalismo non è così diffuso come pensate voi in Occidente , ma di sicuro – ammette - la nostra sicurezza non sarebbe garantita». Anche la reginetta Natasha Paracha - pur dichiarandosi musulmana convinta - sa di dover fare i conti con gli inconvenienti della sua fama e con le minacce del terrorismo islamico. (Fonte: "Liberali per Israele", da "Il Giornale").

Dopo aver ucciso Benazir Bhutto, prima donna premier di un paese musulmano, il terrorismo islamico ha colpito al cuore la sua città natale facendo strage tra le mura del Marriott Hotel, il più importante e frequentato «cinque stelle» di Islamabad . «La mia famiglia e molti miei amici vivono intorno a quell’albergo - ricorda la reginetta -: immaginate cosa significhi per me fare i conti con una violenza che ormai arriva fino alle soglie di casa». L’ultima a illudersi di poter respirare aria di gloria nel paese natale era Mahlej Sarkary, la reginetta di bellezza conquistatrice del titolo di Miss Pakistan un anno prima di Natasha. «Io amo Pervez Musharraf, amo quel presidente, ammiro la sua personalità e il suo carisma, spero veramente di poterlo incontrare», ripeteva subito dopo la vittoria sognando l’attenzione, l’approvazione, o la protezione, dell’uomo forte di Islamabad. Neppure lei andò troppo lontano perché l’ex presidente, dimessosi lo scorso agosto, si guardò bene dall’invitare la «peccatrice» a rimetter piede nel «paese dei puri». C’è da capirlo. Mentre lei invocava un invito, il presidente doveva usar l’esercito per espugnare la Moschea Rossa, il luogo di culto nel cuore della capitale trasformato in quartier generale dei militanti integralisti. Oggi intere zone del Pakistan sono in mano ai talebani, ma per far capire alle reginette quanto rischiosa sia la loro fama, bastan le polemiche sulle nuotate di Sherbano, la figlia adolescente del governatore del Punjab fotografata in bikini e trasformata dagli integralisti nel simbolo della corruzione del potere. In questa situazione anche Amna Buttar, fondatrice di un associazione pakistana nata per difendere i diritti delle donne, dichiara di far volentieri a meno di modelle, regine di bellezza e soubrette. «Nel nostro Paese non abbiamo bisogno di concorsi e ragazze in bikini, qui lottiamo per garantire alle donne i loro diritti fondamentali come il diritto a un libero matrimonio, il diritto al divorzio e pari opportunità nel campo del lavoro e dell’educazione, questioni come quelle di Miss Pakistan non fanno che crearci altri problemi qui - sostiene la battagliera signora Buttar -: quel che conta non è sfilare in bikini o vincere un concorso, ma conquistarsi il diritto a non esser considerate diverse e inferiori agli uomini».
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IRAN, LA POLIZIA CHIUDE IL CENTRO DEL PREMIO NOBEL SHIRIN EBADI

La polizia iraniana ha chiuso e sigillato gli uffici dove ha sede il gruppo per il rispetto dei diritti umani che opera a Teheran sotto la direzione di Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003 per il suo impegno a favore delle donne, dell'infanzia e dei dissidenti. Le forze di sicurezza che hanno partecipato all'operazione hanno invitato il personale presente a lasciare gli uffici dell'organizzazione, quindi hanno chiuso la sede. La polizia iraniana ha fatto irruzione e chiuso d'autorità il quartier generale del Centro dei Difensori dei Diritti Umani, organizzazione non governativa guidata dall'avvocato Shirin Ebadi, la pacifista e femminista insignita nel 2003 del premio Nobel per la Pace per il suo impegno a favore delle donne, dell'infanzia e dei dissidenti (dai quali però è odiata perchè troppo vicina al regime e chiamata l' "ayatollessa", ndr). Lo ha denunciato la vice di Ebadi, Narges Mohammadi, secondo cui all'operazione hanno preso parte agenti in uniforme di ordinanza ma anche altri in borghese, probabilmente appartenenti dunque ai corpi speciali. «Hanno messo i sigilli al nostro ufficio e ci hanno intimato di sgomberarlo senza opporre resistenza. C'è anche la signora Ebadi», ha precisato. «Non abbiamo altra scelta che andarcene». Durante l'incursione è stato fatto l'inventario dei beni di proprietà dell'associazione. «Non ci hanno mostrato l'ordine di perquisizione emesso dalla magistratura, ce ne hanno soltanto comunicato il numero di protocollo», ha accusato la militante. Secondo Mohammadi, diverse decine di poliziotti di rinforzo si erano radunati davanti all'edificio, situato nella parte nord-occidentale della capitale dell'Iran. Proprio domenica il gruppo umanitario avrebbe dovuto celebrare nella sua sede una cerimonia per commemorare, a posteriori, il sessantesimo anniversario della fondazione, caduto il 10 dicembre scorso; quello stesso giorno Ebadi, 61 anni, prima donna di fede musulmana a ricevere il Nobel per la Pace, si trovava a Ginevra, presso il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, dove pronunciò un discorso con cui si appellò per il riconoscimento di un ruolo più ampio alle Ong nelle attività dell'organismo Onu e di altri enti ufficiali analoghi. Fondato dalla battagliera avvocatessa insieme a quattro colleghi lo stesso anno in cui le fu conferito il Nobel, il Centro dei Difensori dei Diritti Umani è considerato la principale entità per la tutela delle libertà civili esistente nella Repubblica Islamica; ha difeso sistematicamente innumerevoli oppositori, prigionieri politici, dirigenti dei movimenti studenteschi e personalità perseguitate per la loro lotta a favore della libertà di coscienza. Di recente si è distinto in particolare per l'appello, rivolto al regime degli ayatollah, affinchè siano bloccate le continue esecuzioni di condannati per reati di minore gravità. Il mese scorso, durante un raduno dell'organizzazione, Ebadi attaccò il nuovo codice penale iraniano, sottolineandone il mantenimento delle discriminazioni a danno delle donne e l'interpretazione a suo dire «scorretta» dei principi dell'islam. (Fonte: "L' Unità")

Grazie a "Strade asiatiche" e "Il Male" per la notizia... .
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sabato 20 dicembre 2008

IRAN: MARCHIO BRITANNICO APRE PUNTO VENDITA BIANCHERIA INTIMA SEXY

Il celebre emporio britannico della moda, 'Debenhams', sta per aprire un punto vendita in Iran, in cui mettera' a disposizione delle signore biancheria intima 'sexy' in un Paese in cui le donne sono obbligate ad indossare un foulard come copricapo quando sono in pubblico. E' quanto pubblicato sul sito web dell'emittente televisiva 'al Arabiya'. La lingerie sara' messa in vendita in un negozio di tre piani situato su una strada commerciale della capitale iraniana soprannominata la 'Regent Street iraniana', in riferimento alla nota via modaiola di Londra. L'Iran impone alle donne, musulmane o di altro credo religioso, un severo codice di abbigliamento che prevede l'uso di un foulard che copra la testa e la scelta di abiti dallo stile moderato che non mettano in mostra braccia e gambe. Secondo il direttore internazionale di Debenhams, il punto vendita sara' un grosso successo grazie alle nuove generazioni, meno conservative negli usi e soprattutto nei 'costumi'. Il nuovo Debenhams iraniano dedichera' una vasta sezione alla biancheria in cui pero' non saranno ammessi gli uomini, e vendera' abiti disegnati da stilisti di grido. La rivista inglese ha anche riportato che la speranza e' quella che il mercato iraniano risponda come il resto del Medio Oriente all'offerta commerciale di Debenhams, che proporra' al pubblico femminile lingerie audace, articolo che gia' vende davvero bene in Arabia Saudita. (Fonte: "Liberali per Israele")

E un promemoria: il leader di Hamas Fathi Hammad ammette che il movimento terroristico palestinese usa donne e bambini come scudi umani. Perchè la morte è diventata "un' industria in cui essi "eccellono": permalink.
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SULLE NOTE DI ALBINONI, "HABIBI" DELLA CANTANTE LIBANESE MAJIDA EL-ROUMI



A me sembra un'interpretazione da brivido: e a voi?! Leggi tutto ...

venerdì 19 dicembre 2008

DARFUR: E' PROVATO, DONNE E BAMBINI RIDOTTI IN SCHIAVITU' DALL'ESERCITO SUDANESE

E' impressionante quanto è emerso da una inchiesta condotta da una coalizione di Ong africane sulla condizione dei rifugiati nei campi profughi del Darfur. The Darfur Consortium, una coalizione di oltre 50 Ong africane molto attive in Darfur, in un rapporto reso noto nei giorni scorsi ha denunciato senza mezzi termini che i militari sudanesi, i janjaweed e persino esponenti del Governo sudanese avrebbero ridotto letteralmente in schiavitù, uomini donne e bambini ospitati in alcuni Idp Camp's del Darfur.
Secondo quanto riferiscono alcune testate giornalistiche, The Darfur Consortium avrebbe per la prima volta trovato le prove che molti uomini del Darfur sarebbero stati rapiti durante gli attacchi ai villaggi portati dai militari sudanesi e dai janjaweed, e poi ridotti in schiavitù e usati come braccianti agricoli. Ma quello che emerge dal rapporto va molto oltre il rapimento di uomini, si parla apertamente di riduzione in schiavitù anche di donne e bambini, usati principalmente come schiavi sessuali.
Infatti secondo la coalizione di Ong che ha redatto il rapporto la maggioranza dei rapiti sarebbero donne e bambini i quali verrebbero sistematicamente sottoposti a stupri, a matrimoni forzati, usati come schiavi domestici da notabili sudanesi e in ultimo indirizzati alla prostituzione, soprattutto i bambini e le bambine di 10/12 anni come dimostra questo video diffuso sempre da The Darfur Consortium.
Il fatto però più inquietante è che molte delle bambine che vengono usate come schiave sessuali per i militari sudanesi e per le milizie loro alleate sono ospitate negli Idp Camp's, teoricamente un'oasi in mezzo al mare di violenza che affligge il Darfur. Infatti, sempre teoricamente, i campi profughi dovrebbero essere sorvegliati e i civili essere al sicuro. Nel rapporto si ventila anche l'ipotesi che pure i militari della forza di pace dell'Unione Africana approfittino di queste bambine o che quantomeno chiudano gli occhi di fronte a questo terribile scempio. (Fonte: "Secondo Protocollo")

E poi guardate, per un promemoria: link, link, link. Poi questo: http://www.memritv.org/clip/en/1950.htm e l'articolo L’Associazione delle donne loda lo scioglimento delle riserve del Marocco sulla CEDAW.
Il portavoce dell'esercito sudanese, Sawarmi Khaled, ha bollato questo rapporto come “indegno di qualsiasi commento in quanto assolutamente falso”, smentendo nella maniera più assoluta sia il coinvolgimento di militari sudanesi che, soprattutto, di notabili sudanesi in questa storia. Ma il rapporto si basa su oltre cento interviste dalle quali si evince con chiarezza che la pratica di riduzione in schiavitù viene usata sistematicamente dall'esercito sudanese e dai janjaweed anche come arma di pulizia etnica contro le tribù di etnia Fur, Masalit e Zaghawa, un'accusa questa contenuta anche nel dossier contro il Presidente sudanese Omar Al-Bashir presentato dal Tribunale Penale Internazionale. Il rapporto preparato dal The Darfur Consortium è stato presentato al Procuratore Luis Moreno Ocampo che nei mesi scorsi ha chiesto l'incriminazione del Presidente sudanese per crimini contro l'umanità.

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mercoledì 17 dicembre 2008

"NON SI PUO' PICCHIARE NEL NOME DI ALLAH"

La Cassazione contro un magrebino che seviziava la moglie: «E’ la mia cultura».

TORINO - Essere musulmani non significa essere autorizzati a non rispettare la legge italiana. E l’islam non può essere una giustificazione per sevizie e maltrattamenti alla moglie. L’ha sancito la Cassazione, che ha confermato la condanna a due anni e sei mesi di reclusione nei confronti di un marito marocchino di 52 anni, Abdellilah F. processato per maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona, violenza sessuale ai danni della moglie e violazione degli obblighi di assistenza familiare. L’uomo in Cassazione aveva sostenuto di non poter essere condannato in quanto «portatore di tradizioni sociologiche e abitudini antropologiche che confliggono con le norme penali italiane». Ma i magistrati di piazza Cavour hanno replicato che anche di fronte ai cosiddetti «reati culturali o culturalmente orientati, il giudice non può sottrarsi al suo compito naturale di rendere imparziale giustizia in base alle norme vigenti, assicurando tutela alle vittime, garanzie agli accusati e personalizzazione della condanna». Aggiunge la Cassazione che «il ruolo di mediatore culturale attribuito dalla dottrina al giudice penale, non può mai attuarsi - come richiesto da Abdelillah F. - al di fuori o contro le regole che, nel nostro sistema, fissano i limiti della condotta consentita». In pratica i supremi giudici non condividono affatto la tesi difensiva in base alla quale il marocchino in questione «in quanto cittadino di religione musulmana avrebbe della convivenza familiare e delle potestà anche maritali, a lui spettanti come capo famiglia, un concetto abbondantemente differente dal modello e dalla concezione corrente nello stato italiano». In proposito la suprema corte è intransigente e ricorda che tutte le persone che risiedono in Italia hanno «l’obbligo di conoscere il divieto imposto dalla legge ai comportamenti lesivi» anche quando è convinto di farlo in maniera «innocua, socialmente utile e non riprovevole», per via della propria provenienza culturale. ("Unpoliticallycorrect", da "CronacaQui")

SBAI (PDL), SODDISFATTI PER SENTENZA CASSAZIONE SU MUSULMANI VIOLENTI.

Roma, 16 dic. - (Aki) - «Apprendiamo con soddisfazione la sentenza della Cassazione 46300 che conferma quanto da noi sostenuto da sempre e cioé che non sono 'scusabilì, in nome della loro 'diversità culturale e religiosà i comportamenti degli uomini di fede islamica che maltrattano le mogli». È con queste parole che la parlamentare del Popolo delle Libertà, Souad Sbai, commenta in una nota la notizia della sentenza emessa dalla Cassazione che ha confermato la condanna a due anni e sei mesi di reclusione nei confronti di un marito marocchino residente a Torino processato per maltrattamenti in famiglia. «Noi per primi avevamo denunciato, rivolgendoci anche direttamente al ministro della Giustizia Angelino Alfano, il pericolo che in Italia fossero introdotte pratiche di un islam radicale attraverso una diversa interpretazione della legge italiana a seconda della provenienza geografica degli imputati - aggiunge la deputata - Questa sentenza è importante perché da fiducia a tante donne vittime della violenza dei fondamentalisti, ma nonostante questo riteniamo indispensabile continuare a vigilare affinché non ci siano altri uomini accusati di maltrattamenti in famiglia che possano nascondersi dietro la loro presunta tradizione culturale». (da" Arabiyya").

E una giovane medico bengalese, rapita dai familiari per un matrimonio forzato, è stata liberata e potrà tornare in Inghilterra, dove viveva: link.
Ma anche noi purtroppo, anche senza musulmani fanatici di mezzo e con il cristianesimo che non si presta in alcun modo alla violenza sulle donne, a differenza dell'islam, non ci siamo del tutto liberati da una certa mentalità...: Carmela, uccisa due volte. Leggi tutto ...

A BAGHDAD IL PRIMO CONCORSO DI BELLEZZA

IRAQ, 16 DIC - Le partecipanti al primo concorso di bellezza dallo scoppio della guerra, nel 2003, vestono con stivali neri e nessun hijab, ma con jeans attillati e maglietta. La notizia è stata riportata ieri dal Washington Post, che riporta anche una serie di fotografie. I ragazzi si ammassano lungo il palco con cellulari e piccole telecamere, mentre gli uomini siedono in fondo e masticano nervosamente gli stuzzicadenti, pronti ad ascoltare i risultati della gara di bellezza dell'Hunting Club. I giudici, tre donne e due uomini, hanno nominato Shamis Arif regina. La 17enne Indossa jeans e tacchi alti, è molto truccata e sorride timidamente alla folla esultante. Shamis scesa dal palco, dopo aver abbracciato i famigliari, si avvia con la madre e dopo essersi tolta la coroncina si copre il capo e si avvia a casa con la famiglia. (Fonte: "Arabiyya", da deltanews)
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PERPLESSITA'. L' ATTIVISTA SUDANESE: "(JASAD) RISCHIA DI RESTARE UN ESERCIZIO DI SALOTTO DELLE LIBANESI BENE"

IL CAIRO - "E' un importantissimo rompere il muro di silenzio che circonda il sesso nel mondo musulmano, i tabù sociali, l'ipocrisia e l'ignoranza. Ma questo è un campo minato, ogni messaggio sbagliato si riflette negativamente sulle donne. Staremo a vedere". Nahid Gabrella, nota e combattiva attivista per i diritti umani sudanese, fondatrice e capo dell'Ong Seena per la difesa delle donne e dei bambini, consulente del governo di Khartum sulla questione delle mutilazioni genitali femminili, ammette di non aver ancora letto Jasad, la rivista della libanese Joumana Haddad che parla esplicitamente di sesso. "Ma ne ho sentito parlare in tv, su Al Arabiya, e ora sono curiosa di averla tra le mani e capire", ci dice a margine della grande conferenza tenuta al Cairo sulle mutilazioni genitali femminili (già conclusa, ndr), copresieduta e voluta da Emma Bonino: "Tanto abbiamo bisogno, noi donne e uomini dei Paesi musulmani, di parlare di sesso in modo non superficiale e ascientifico, tanto è cruciale che la questione sia inquadrata nel giusto contesto". Ovvero "Ovvero considerando la donna finalmente come un soggetto con tutti i suoi diritti e doveri, desideri e valori. Superando i nostri i nostri media, che vedono la donna sempre come una bomba erotica, ma le priorità delle musulmane, anche per restare nel capitolo sesso, sono soprattutto i matrimoni obbligati che diventano stupri, le violenze sessuali, le mutilazioni". Temi che forse nella "Beirut bene" di Joumana sono lontani. Dalle tv alle sue cantanti, il Libano nel mondo islamico è assolutamente atipico per la libertà. "Certo, e parlare di sesso è e deve essere talmente legato al contesto sociale che mi chiedo come una rivista simile possa essere diretta, come ho sentito, a tutto il mondo arabo islamico. Perfino il Sudan ha al suo interno varie etnie, culture, tradizioni. Il Libano ha il sud sciita, donne velate accanto a quelle in bikini. Davvero sono curiosa ma anche perplessa: un libro sul sesso, lo capisco, ma una rivista? Per essere interessante non può ignorare ma temo neanche conciliare culture e realtà così complesse". Rischia di restare una cosa da salotto libanese? "Esattamente. Anche se comunque, ripeto, il muro del silenzio va abattuto. E ancor più va rotta quell'educazione sessuale che in realtà sono tradizioni senza scienza nè rispetto dei diritti umani fatta tutta in famiglia, trasmessa da mamma a figlia, da nonna a nipote. Se al mondo ci sono 120 milioni di donne e bambine mutilate è proprio per questo motivo. (Fonte: "Corsera", 16/12)

Libanese è anche Joseph Massad, autore di "Desiring arabs", contro gli stereotipi occidentali sulla sessualità araba. Leggi tutto ...

martedì 16 dicembre 2008

"CORPO": LA RIVISTA ARABA CHE SPEZZA GLI ULTIMI TABU'

Il caso. Attesa e insulti per un nuovo trimestrale edito in Libano. "Corpo": la rivista araba che spezza gli ultimi tabù. Feticismo e sesso orale tra i temi del primo numero. Ideatrice e direttrice Joumana Haddad, 38 anni, poetessa e giornalista libanese cattolica.

"Era una giornata di primavera che improvvisamente divenne molto più calda. Lei indossava dei collant di nylon con scarpe basse e leggere e, all'aumentare della temperatura, mi annunciò che non li sopportava più. Ci allontanammo dagli sguardi curiosi, rapidamente si tolse i collant e ricordo ancora il momento esatto in cui i suoi piedi furono denudati, liberi dal loro involucro nero trasparente...". Così Ibrahim Farghali, scrittore egiziano, si confessa feticista del piede in un articolo che apparirà questa settimana sul primo numero di una rivista in lingua araba edita in Libano. Sulla copertina nera spicca un corpo di donna avvolto in un drappo rosso.
In alto, la Jasad, corpo. La "J" è disegnata
come una manetta aperta. Non è un invito al sado-maso, ma "si riferisce alla necessità di spezzare i tabù", spiega l'ideatrice e direttrice, Joumana Haddad, che parla 7 lingue, tra cui la nostra, ed è in Italia per curare il suo primo libro di poesie in italiano, Adrenalina (Edizione del Leone; uscirà in primavera). "Per il pene usano la parola colonna. Clitoride non si può dire. Per l'organo femminile ci sono più di 100 parole, tutte di letteratura, di grande bellezza. Ma non siamo abituati a pronunciarle, solo nella nostra testa o a voce bassa. Un'amica mi ha detto: preferisco leggerti in inglese, quando ti leggo in arabo ho paura del peso delle parole". Sesso orale, omosessualità, cannibalismo sono tra i temi trattati nei 50 articoli del primo numero, firmati da scrittori arabi, la maggior parte musulmani. Jasad è un trimestrale, vietato ai minori. L' attesa è grande. "O Signore, fa che sia in vendita anche in Giordania", scrive un lettore sul sito Al Arabiya. Sarà venduto in edicola e libreria a Beirut, inviato per corriere in Medio Oriente e Maghreb. Gli abbonati sono centinaia. Ma ci sono anche giudizi negativi (e insulti per Haddad). Alla fiera del libro di Beirut, membri del partito sciita Hezbollah hanno tentato di chiudere lo stand di Jasad. L' Arabia Saudita ha bloccato il sito web della rivista "Ma è il paese con il più alto numero di abbonati". Haddad va avanti. "Jasad è una rivista di cultura in cui si tratta del corpo, non solo nella dimensione erotica, ma anche in quella sociale, etica e linguistica", spiega. A quella erotica è dato molto spazio anche perchè "è stata rubata agli arabi". A chi la accusa di copiare gli occidentali, consiglia di leggere Il giardino profumato di Nafzawi e i testi non censurati de Le mille e una notte. "E ho trovato dei testi in arabo del secolo X e IX che farebbero arrossire lo scrittore occidentale più osceno. La scrittura araba parlava del corpo con una bellezza e una facilità che si è persa". Perchè? "Una ragione è il potere gradualmente più grande della religione sulla nostra vita". Non si riferisce solo all'islam. "Sono cresciuta in una famiglia molto tradizionalista, con un padre che se avesse immaginato quello che avrei fatto si sarebbe buttato dal terzo piano". Ma oggi papà è al suo fianco. (Fonte: "Corsera")
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PAKISTAN: LA RIVOLTA DELLE DANZATRICI CONTRO IL GOVERNO


L’Alta Corte: «E' vietato danzare il Mujra». E le ballerine scioperano.

Non è insolito a Lahore, capitale culturale del Pakistan, vedere leggiadre danzatrici esibirsi nel Mujra, il delicato ballo nato 400 anni fa durante l’impero Mughal. Ora una legge minaccia di distruggere questa armoniosa forma d’arte. Ma le ballerine della città, sul piede di guerra, non hanno esitato a scioperare. La protesta, sostenuta anche dai teatri in cui vengono presentati spettacoli di questo tipo, si oppone alla decisione, presa il mese scorso dall’Alta Corte di Lahore, di vietare la danza perché “troppo sensuale”.
«Il Mujra è per natura un ballo seducente», dice Badar Alam, esperto culturale. Dopo aver lottato per arginare i tentativi di censura messi in atto negli anni 80 la danza è tornata a poco a poco a conquistare il grande pubblico. «Gradualmente – ha aggiunto Alam - il Mujra è tornato a essere rappresentato nel teatri, soprattutto grazie alle mazzette passate ai funzionari. Ma oggi la domanda che bisogna porsi è una sola: chi governa ha il diritto di vigilare sulla morale?». Il governo, dopo il divieto, ha anche cercato di suggerire un divertimento alternativo “più adatto alle famiglie”, ma la proposta non è stata accolta con entusiasmo. Di fronte allo sciopero e alle dure proteste, la Corte ha sospeso il provvedimento. Si tratta di un dietrofront a metà. Infatti, le ballerine dovranno mettere uno scialle sul collo e indossare un paio di scarpe, perché esibirsi a piedi nudi risulta troppo erotico.
«Cosa si aspettano che le ragazze ballino con il burqa?», dice Jalal Mehmoud a The Independent. «Il Mujra – ha aggiunto- fa parte della nostra cultura». Le ballerine sono depresse per la situazione. «Il teatro ha bisogno della danza proprio come si ha bisogno dell’acqua» dice Rabia, ballerina e attrice. «Alcune ragazze guadagnano 15.000 rupie in una notte. E con questa censura centinaia di ragazze resteranno senza lavoro». Il divieto di ballare è solo uno degli ultimi casi di una pericolosa tendenza che sta prendendo piede in Pakistan». Negli ultimi mesi, infatti, nel Paese c’è stato un aumento delle violenze. «Se il governo si mette a fare il giudice morale», dice Badar Alam, «lascia spazio all’intolleranza, alla violenza e apre le porte ai movimenti estremisti islamici». (Fonte: "Liberali per Israele", da "La Stampa")
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FRONTE KABUL, TRINCEA BAGHDAD. LA STRATEGIA DEGLI UOMINI DI AL-QAEDA

Mamma e brillante scienziato pachistano, Aafia Siddiqui non era nessuno prima dell'11 settembre. Poi, dopo l'attacco alle Torri Gemelle, uno dei pianificatori, Khalid Sheikh Mohammed, confesserà che quella donna minuta era un personaggio chiave e operativo di Al Qaeda a Boston. Così Aafia è entrata nella lista dei primi sette terroristi 'most wanted' dagli Stati Uniti: la donna più pericolosa al mondo. Scomparsa per cinque anni - dice di essere stata rapita dalla Cia - è ricomparsa il 17 luglio scorso in Afghanistan e arrestata davanti alla casa del governatore della provincia di Ghazni. Inebetita, col burqa, in braccio un figlio e le istruzioni su come costruire ordigni. Secondo i suoi avvocati, gli americani che l'avrebbero scaricata in Afghanistan, dopo anni di reclusione, immaginavano che venisse scambiata per una kamikaze e uccisa o forse speravano che sarebbe morta quando in stato di fermo le hanno sparato due colpi in pancia dopo averla accusata di essere riuscita a strappare il mitra al militare che la teneva in custodia. Ma Aafia è ancora viva con la sua storia misteriosa che ha tutti gli ingredienti che servono per farne uno dei volti nuovi di Al Qaeda. Le sue origini pachistane, i suoi legami con l'Afghanistan, paesi dove batte il cuore di pietra e pensa la mente brutale di Al Qaeda. Il posto da dove l'organizzazione irradia e contagia con il suo terrore. A cui si somma l'Iraq, un regalo fatto dagli americani ad Al Qaeda che non erano riusciti a trovare un legame serio tra Saddam e Bin Laden. La guerra è riuscita a crearlo: il vuoto della violenza ha spalancato le porte dei militanti che fuggiti dal Pakistan hanno creato un confortevole, ma non duraturo, almeno per il momento, avamposto verso l'Europa. Ma per quanto Al Qaeda possa mutare, espandersi, delegare, lo zoccolo duro del terrorismo, quei capi che centellinano i loro discorsi letali, restano dove sono, sicuri di non venire mai traditi né dai servizi segreti che li sostengono, né dal caos politico che li rafforza. Il futuro della leadership resterà in Pakistan affermano in coro gli analisti locali. Cacciati dagli americani nel 2001 dall'Afghanistan, dove Bin Laden aveva trovato fra i talebani una interessata accoglienza, i militanti di Al Qaeda sono tornati tra le rocciose montagne pachistane, in quella terra dove non si osa entrare se non abbondantemente armati: la regione tribale del Nord-ovest, le Fata, il Waziristan, quel salame di terra grande come la Florida, che invece di separare i due Paesi, li unisce in un patto maledetto in nome del Jihad. (Fonte: "Liberali per Israele")

E intanto la figlia di Gheddafi, Aisha, che tra l'altro è stata una degli avvocati di Saddam, ha dichiarato che darà a Muntadar Al-Zeidi, il giovane giornalista che ha preso a scarpate Bush, la medaglia dell' "Ordine del Coraggio" perchè con il suo gesto avrebbe protestato contro "le violazioni dei diritti dell'uomo".
I centri di addestramento sono lì. Punti di raccolta e poi di smistamento. In Afghanistan non servono basi, basta varcare la frontiera, colpire e tornare indietro. "I nostri Paesi sono i più colpiti da Al Qaeda", dice Hamid Mir, scrittore pachistano e unico giornalista ad aver incontrato Bin Laden tre volte: "Il terrorismo, non colpisce solo l'Occidente, ma soprattutto i paesi musulmani. Nel Waziristan ho visto distruzione e morte. L'America spinge il Pakistan a combattere contro la sua gente. Per ogni civile morto c'è un nuovo militante che nasce. Un ragazzo che aveva appena perso il fratellino, mi ha detto che pregava di morire in quell'istante perché se fosse sopravvissuto avrebbe tentato di far esplodere tutta Islamabad.

La soluzione per sconfiggere Al Qaeda c'è, ma esige una dose sufficiente di umiltà che permetta alle nazioni di sedersi a un tavolo e discutere". Basta con gli assi del male, dice lo scrittore. Farzana Bari è una esperta pachistana di diritti umani: "Non si ottiene sicurezza con le armi e il sospetto. Non di certo favorendo l'economia virtuale. Al Qaeda si nutre di disperazione e dell'ignoranza della gente. Il 60 per cento del mio popolo non sa leggere. Questo fa paura. Questa è la guerra da combattere contro Al Qaeda". Hamid Mir e un noto analista, Waheed Mozhda, sono convinti che Bin Laden, se è ancora vivo, si trovi in una base dei servizi segreti pachistani nelle aree tribali. "Tutti i campi di addestramento sono dentro basi militari, in alcune si impara.
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lunedì 15 dicembre 2008

IRAQ: LE DONNE SFIDANO LA PAURA E TORNANO AL VOLANTE

Nel caos in cui versa l’Iraq è un segnale non da poco. Le donne di Bagdad hanno ripreso a guidare testimoniando il ritorno della sicurezza e dell’ordine nella maggior parte dei quartieri della capitale. A scriverlo, fatto altrettanto significativo, è il quotidiano saudita al-Watan il quale che si possono vedere per le strade della città molte donne al volante e che quindi i terroristi di al Qaeda e degli altri gruppi armati hanno perso il controllo del territorio. Non ci sono soltanto i delitti d’onore in Kurdistan, a nord, e i soprusi degli sgherri sciiti a sud. In Iraq negli ultimi tre anni, infatti, le donne avevano smesso di prendere l’auto perché i terroristi islamici, che spesso creavano posti di blocco improvvisati per strada, le fermavano, le facevano scendere sostenendo che la sharia non consente alle donne di guidare i veicoli e spesso le uccidevano. Oggi sfidano la paura e tornano al volante. Racconta Manal Hakim, di 38 anni, che vive nel quartiere di Amariya: “Ora mi sento più libera, dopo che per due anni ho dovuto tenere la mia auto ferma in garage”. Manal aveva smesso di guidare dopo essere stata picchiata in strada da un gruppo di fondamentalisti che l’avevano bloccata perché a loro avviso aveva violato la sharia. (Fonte: Hurricane_53)

E sempre su Hurricane, leggete permalink.
Lei lavora come insegnante in uno dei quartieri sunniti più pericolosi della città che solo di recente è stato liberato dai Consigli del Risveglio che hanno cacciato i terroristi di al Qaeda dalla zona. “Quando mi fermarono - racconta - mi picchiarono davanti a tutti ripetendomi di non guidare mai più perché altrimenti mi avrebbero uccisa. È stata una cosa terribile, che non dimenticherò mai più per tutta la vita. Anche se ora la situazione è migliorata, si vedono ancora poche donne alla guida delle auto”. Il giornale saudita è sensibile a questo fenomeno perché Riad vieta per legge alle donne di guidare (e proprio a loro si riferisce la foto, ndr). Alla fine del 1990, 47 saudite si resero protagoniste di una iniziativa senza precedenti nel regno, arrivando con le auto fin nel centro di Riad, suscitando enorme clamore. Vennero tutte arrestate dalla polizia religiosa e, in alcuni casi, costrette a lasciare il lavoro. L’anno dopo, al divieto legale si accompagnò una fatwa del gran muftì dell’Arabia Saudita, che vietava alle donne di guidare. Si racconta poi la storia di un’altra insegnante irachena di 40 anni che dal 2003 ha sempre preso il taxi per andare a lavoro, temendo la reazione dei terroristi. Il quotidiano saudita riporta infine un’intervista a un istruttore di guida di Bagdad, che sottolinea come nel 2007 abbia avuto una sola donna iscritta alla sua scuola, mentre quest’anno sono già salite a più di cento.
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E L' IRAN COLPISCE ANCORA


BOLZANO — Nasrin Sotoudeh Langroudi, avvocatessa ed attivi­sta per i diritti delle donne irania­ne per la difesa dei bambini mal­trattati e per i minorenni condan­nati a morte, è stata bloccata dai servizi di sicurezza all'aeroporto di Teheran. Le forze dell'ordine iraniane, infatti, le hanno ritirato il passaporto proprio mentre era in procinto di partire per l'Italia: Sotoudeh, oltre a dover partecipa­re ad un convegno organizzato a Roma dalla Casa internazionale delle donne, avrebbe dovuto rice­vere il premio Human rights international (Hri) dall'omonima orga­nizzazione di volontariato con se­de a Bolzano. Il riconoscimento sa­rebbe stato consegnato all'attivi­sta nel corso di una manifestazio­ne appositamente predisposta per venerdì sera dalla Hri in collabora­zione con l'associazione Museo della donna, presso l'Hotel Steigenberger, sito in piazza delle Terme a Merano.«Stamattina avevo già passato il controllo passaporti, quando ho sentito chiamare il mio nome dagli altoparlanti — ha raccontato Nasrin Sotoudeh —. Allora sono tornata indietro. Un giovane agen­te mi ha detto di consegnare il pas­saporto. Quando gli ho chiesto di mostrarmi il tesserino di riconoscimento, ha mostrato la ricetrasmittente, dicendomi che come riconoscimento era sufficiente quel­la. Poi un altro suo collega si è identificato, mi ha preso il passa­porto e mi ha dato una ricevuta».Nonostante l'assenza ormai scontata della Sotoudeh (salvo colpi di scena dell'ultima ora), la conferenza si terrà lo stesso, vi­sto che, sia il marito che la figlia di nove anni dell'av­vocatessa iraniana sono riusciti a partire per l'Italia e saranno a Merano per ritirare il premio: «Il premio sarà preso in con­segna dal marito», conferma Adolf Pfitscher, fondatore dell'Hri, che aggiunge: «Il fatto che la premiata non abbia potuto lascia­re il paese conferma l'importanza del suo impegno».La secondogenita della coppia, nata da poco, è invece rimasta in Iran con la madre.Gunther Januth, sindaco di Me­rano, appresa la notizia, ha avuto parole, di sostegno per la Sotoudeh: «È incredibile, un fatto vera­mente increscioso. Vorrei espri­mere la mia solidarietà a Nasrin Sotoudeh».Astrid Schönweger, coordinatrice dell'associazione Museo del­la donna, alla luce di quanto acca­duto, ha voluto sottolineare quan­to sia stata a maggior ragione op­portuna la scelta di premiare l'avvocatessa quarantacinquenne: «Siamo contentissimi che il marito e la figlia di Nasrin Sotoudeh potranno essere a Merano per rice­vere questo premio — ha detto Schoenweger —. Quello che le è accaduto in Iran è la dimostrazio­ne che merita un riconoscimento per la sua lotta a favore dei diritti dei bambini maltrattati, delle don­ne e dei minori condannati a mor­te». (Fonte: "Il blog di Barbara", dal "Corriere dell'Alto Adige di giovedì 11 dicembre)

I “colpi di scena dell’ultima ora”, naturalmente, non ci sono stati: Nasrin Sotoudeh è rimasta bloccata in Iran e il premio lo ha dovuto ritirare il marito. Poiché, a quanto mi risulta, nessuna notizia riguardo a questo ennesimo sopruso da parte delle autorità iraniane è stata data dai media nazionali, provvedo io, e spero che qualcun altro vorrà raccogliere la notizia e diffonderla a propria volta.
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ALL' IGNOBILE MANIFESTAZIONE PER I 21 ANNI DI HAMAS, C' ERANO ANCHE LORO...

Secondo la TV di Hamas, per il ventunesimo anniversario del movimento terroristico, è stato organizzata domenica una grande manifestazione a Gaza, che ha raccolto "migliaia di simpatizzanti": http://www.guiladshalit.com/. Il clou dell' "evento" una vera e propria mostruosità, naturalmente: una mostruosità che una persona non accecata dall'odio o magari normodotata, non riesce neppure a concepire. Un terrorista di Hamas che sale sul palco e IMPERSONA IL CAPORALE GILAD SHALIT che, PIANGENTE, dice in ebraico ai genitori di sentirne la mancanza e prega di essere rilasciato. Alla manifestazione c'erano anche loro...



(Fonte: "Scettico")
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TRIBUNALI ISLAMICI AL LAVORO IN ITALIA: LA SHARIA E' GIA' IN FUNZIONE DA NOI

L’inchiesta pubblicata su Repubblica l’8 dicembre, è stata realizzata da Carlo Bonini sui tribunali islamici, e il commento è di Renzo Guolo.

Articolo: A Milano la legge degli imam. Celebrano matrimoni, mediano nelle liti coniugali, certificano la volontà dei mariti di ripudiare le mogli (ma in caso contrario non fanno nulla). Nelle moschee gli uomini che dirigono la preghiera ricoprono pure il ruolo di giudici della Sharia. Con qualche compromesso all'italiana.

La preghiera è finita da qualche minuto. Ai piedi della scala di ferro della moschea di viale Jenner, una folla vociante di fedeli recupera le proprie scarpe. Un furgone scarica carne di montone nella macelleria islamica al pian terreno. Vestito della sua jalabia grigia, Abu Imad, l´Imam, è nel suo ufficio ingombro di scartoffie e testi sacri. Seduto su una poltroncina ergonomica, chatta sul suo pc da tavolo. Alla sua sinistra un fax, di fronte a sé quattro telefoni cellulari dalle suonerie con la voce del muezzin. Egiziano, 45 anni, da dodici è la massima autorità religiosa di una comunità musulmana che, qui a Milano, ha raggiunto le 80 mila anime. Predica la parola di Dio. Ma non solo. In un Paese, il nostro, che non le riconosce alcuna legittimità ed efficacia giuridica, amministra, come può e per quel che può, la legge di Dio, la Sharia, cui volontariamente i suoi fedeli chiedono di sottoporsi. Unisce in matrimonio. Compone le controversie proprie del diritto di famiglia. Si pronuncia sull´affidamento dei figli. Sollecita l´intervento dei tutori di marito e moglie nei casi di maltrattamento. Verifica i presupposti del "talak", la dichiarazione formale con cui l´uomo ripudia la donna che gli è sposa.
Dice Abu Imad: «L´Italia non è l´Inghilterra, dove una legge dello Stato ha istituito tribunali islamici alle cui pronunce un musulmano si sottopone volontariamente e che hanno valore di sentenza arbitrale e dunque un riconoscimento di legittimità all´interno del Paese in cui sono state pronunciate. E l´Italia, purtroppo, non è neanche l´Egitto, dove ai cristiani è riconosciuta una giurisdizione speciale in quei campi del diritto privato in cui fede religiosa e diritti e doveri dei singoli si intrecciano. Ma il fatto che in Italia non esista una legge, non elimina il bisogno della nostra comunità di vedere amministrata la legge di Dio, la Sharia. Innanzitutto per quel che riguarda il diritto di famiglia. E io sono qui, anche per questo».
Nell´anno che sta per chiudersi, l´Imam ha sposato quaranta giovani coppie. Secondo una media più o meno costante e che si ripete da tempo. «A quanto ne so, non solo a Milano e non solo nella mia moschea», dice. Per la Sharia, il matrimonio non è un sacramento, ma un contratto. Abu Imad ne è il notaio. «Verifico che ricorrano le quattro condizioni perché l´unione sia valida. Il consenso dei tutori dello sposo e della sposa. Il regolare versamento della dote da parte dello sposo alla sposa - siano contanti, preziosi o anche beni immobili - e la sua congruità. L´esistenza di almeno due testimoni e dei certificati che attestino lo stato di libertà dal vincolo matrimoniale della donna. Per l´uomo non sarebbe necessario, perché l´Islam ammette la poligamia. Ma essendo in Italia e sapendo che guai ne potrebbero nascere, chiedo anche quello dell´uomo». I tutori di marito e moglie sono i rispettivi padri, se in vita. Altrimenti, se esistono, i fratelli. O, ancora, e in alternativa, i congiunti prossimi di sesso maschile. Nonni, zii. «Ma è capitato e capita che, se non esistono uomini nella famiglia di uno degli sposi, sia io a sostituirmi come tutore».
Il matrimonio si celebra negli otto metri quadri di ufficio dove l´Imam è seduto in questo momento. O in casa, o in un albergo. Non esistono registri, a quanto pare. «L´importante è che il matrimonio, una volta celebrato, venga annunciato qui alla comunità con una festa, in cui si offrono cibo e bevande». Perché solo così, quel matrimonio islamico, potrà essere conosciuto e riconosciuto dagli altri fedeli. «Normalmente, invito gli sposi a celebrare il matrimonio anche in Comune, perché abbia efficacia giuridica anche in Italia. O ad andare al Consolato del Paese di origine perché il contratto di matrimonio venga stipulato di fronte a funzionari di quel Paese che rendano così il matrimonio valido per la legge islamica. Ma, ovviamente, questa è una scelta che spetta agli sposi».
Unire in matrimonio appare a ben vedere semplice. Lo è meno intervenire sul vincolo, quando entra in crisi, con i precetti della Sharia. Dice Abu Imad che, quando un uomo bussa alla porta del suo ufficio per pronunciare quella parola - "talak" - che significa ripudio, la regola vuole che vengano convocati al suo cospetto i tutori di marito e moglie. L´Imam si fa pensoso, congiunge le mani. «Normalmente, tento una mediazione. Se necessario consultandomi anche con gli anziani della comunità. Invito i due tutori a intervenire sui coniugi per sanare il conflitto. E do un tempo perché loro mi riferiscano l´esito. Se il conflitto è materiale, legato cioè alla mancata osservanza dei doveri da parte della donna, spesso la mediazione ha una sua efficacia. Ma se il conflitto è spirituale, se il marito mi dice che non ama più la sua sposa, allora non posso far altro che constatare l´avvenuto ?talak´ e osservare scrupolosamente quello che la Sharia prevede». Per la legge di Dio, l´uomo ha un tempo di ripudio calcolato in tre mestruazioni della donna. Dice l´Imam: «Entro tre cicli mestruali della moglie, il marito che ha pronunciato il ripudio può ripensarci e tornare sotto il tetto coniugale, se lo ha abbandonato. Oppure, se non lo ha abbandonato, consumare un rapporto sessuale consenziente. In questo caso, il ripudio si considera decaduto. Tre cicli mestruali sono il tempo necessario, del resto, a verificare che la donna non porti in grembo un figlio dell´uomo che la sta ripudiando». Trascorso il termine, alla donna vengono affidati i figli. Lei dovrà restituire la dote al marito e sarà riconsegnata al suo tutore. Se si risposerà, i figli torneranno dal padre. (Fonte: "Lisistrata")

Per la gioia di molte convertite italiane all'islam, evidentemente, come sembra di capire da lei.
Invece è stato espulso l'ex imam della moschea di Cremona, il tunisino Mourad Trabelsi, condannato a 7 anni per terrorismo internazionale. Anche in Tunisia deve scontare 20 anni (e ha pure fatto ricorso a Strasburgo perchè teme la tortura!). Naturalmente lo seguirebbe la moglie, Mounia Mzoughi, quella che è stata recentemente assolta "perchè il fatto non sussiste", nonostante andasse effettivamente in giro col niqab violando la legge italiana permalink.
Ma a volte sembra che da noi ci sia la sharìa indipendentemente dai tribunali islamici...
In un matrimonio, ed entro il termine temporale fissato dalla Sharia, il marito può ripudiare e riconciliarsi con la moglie fino a tre volte. Il che significa che gli sono concessi due ritorni. Il terzo "talak" è per sempre. L´Imam dimostra una certa esperienza: «Normalmente, il primo "talak" non è mai definitivo. Ho amministrato casi di coppie che si sono trascinati per anni. Altri, al contrario, che si sono risolti in pochi mesi. Il che succede, soprattutto, quando un uomo della comunità torna nel Paese di origine, si sposa e porta la moglie qui a Milano. Il contesto incide e normalmente fa finire il matrimonio più rapidamente». Anche perché aumenta l´incidenza dell´adulterio, seppure non dichiarato. Quello femminile, nell´orizzonte dell´Imam, non appare neppure esistere, semplicemente perché inconfessabile: «Per un musulmano, bussare alla mia porta per raccontarmi che la moglie lo ha tradito, è impensabile. Essere vittime di adulterio è vissuto come una vergogna. Dunque, si preferisce pronunciare il "talak" presentandomi altre motivazioni». Quello maschile è frequente, ma per la donna, a detta dell´Imam, «praticamente indimostrabile». «Se la moglie accusa il marito di averla tradita deve darne la prova. E non mi è mai accaduto che questa prova la donna sia riuscita o riesca a darla, a meno che l´uomo non sia così sciocco da farsi sorprendere».

Per una donna tradita, la giurisdizione dell´Imam non è di grande aiuto. Né lo è per una donna picchiata tra le mura domestiche. A meno che per aiuto non si intenda quel che l´Imam normalmente fa in questi casi: «Chiamo i tutori. Perché nei casi di violenza, e ce ne sono, la mia esperienza dice che solo loro riescono normalmente a mediare e a mettere fine a certe situazioni». La donna non ha diritto a ripudiare e può sciogliere il contratto matrimoniale solo con il consenso del marito, che normalmente non ha. «Esiste solo una possibilità - dice l´Imam - che nella Sharia si chiama "khula"». Il divorzio per iniziativa della moglie. Un termine di difficile traduzione, che indica l´atto del togliersi le vesti. «La "khula" può essere pronunciata solo da un tribunale islamico regolarmente costituito, perché è il giudice che, qualora ritenga esistano i presupposti del divorzio lamentati dalla moglie, si sostituisce al marito nel prestare il consenso allo scioglimento del vincolo. Dunque, quando mi si sono presentati questi casi, e sempre che si tratti di coniugi regolarmente sposati in Paesi musulmani, il mio consiglio è sempre stato ed è quello di rivolgersi a un tribunale del Paese di origine».
Il tempo dell´Imam è finito. Alla sua porta, la fila di fedeli in attesa di assistenza, spirituale e giuridica, si è fatta lunga. Abdel Amid Shaari, presidente dell´Istituto di viale Jenner, che ha assistito al colloquio, sorride. «Mi sembra già di sentire cosa diranno in molti quando leggeranno la parola Sharia. Ma la libertà religiosa è anche questa. Io non penso all´Inghilterra, perché per arrivare a quel punto, in Italia, di questo passo, ci vorranno cento anni. Ma una comunità è tale anche se può amministrare e sottoporsi volontariamente alla legge del suo Dio. È quello che facciamo».
Il commento di Renzo Guolo "Una contraddizione reale ma lo Stato è indifferente", che, riconosciuta la diseguaglianza tra uomo e donna introdotta dal diritto islamico, attribuisce ai "fautori di una militante identità culturale italiana"l'opposizione "a un´intesa tra Stato e confessione islamica". Intesa che, pare di capire, secondo Guolo potrebbe sanare le contraddizioni derivanti dal proliferare non regolamentato dei tribunali islamici. Il vero problema, al contrario, è rappresentato dalla difficoltà di trovare, per siglare un'intesa, interlocutori islamici che si riconoscano in un minimo comun denominatore necessario alla convivenza civile. Denominatore comune che comprenda, certo, il riconoscimento dei diritti delle donne, ma anche una condanna senza eccezioni del terrorismo, estesa dunque anche a quello rivolto contro Israele. Ecco il testo: La Sharia in Italia? Una realtà che molti sembrano ignorare ma, non di meno, esiste. Almeno nel campo del diritto di famiglia, come dimostra la pratica in uso in molte moschee della Penisola. Un tipico esito della trasformazione delle società europee in società multiculturali, che altri Paesi hanno recentemente affrontato di petto.
È il caso del Regno Unito che accoglie come forme di arbitrato le sentenze di giudici islamici in cause di divorzio, violenze familiari e dispute ereditarie. Corti sharaitiche britanniche operano, infatti, a Londra, Birmingham, Manchester, Bradford , Edimburgo e Glasgow e fanno capo al network giurisdizionale dello sceicco Siddiqi, del Muslim Arbitration Tribunal di Nuneaton. Possibilità consentita dall´Arbitration Act del 1996, che attribuisce valore legale agli arbitrati nel caso le parti coinvolte conferiscano ai giudici-arbitri il potere di emettere sentenza. Dunque, purché ricorrano tali condizioni, anche il verdetto di una corte islamica può essere recepito da un tribunale ordinario del Regno o dall´Alta Corte. Prassi approvata, con grande scandalo in riva al Tamigi, anche dall´arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, che si è pubblicamente espresso a favore del riconoscimento della Sharia nel Regno.
Probabilmente per una naturale tendenza a considerare le norme religiose superiori a quelle positive. Sicuramente, a quanto ha dichiarato, perché ritiene che parte dei cittadini britannici, molti dei quali sono musulmani, non si riconosca nel sistema legale nazionale.
Il presule anglicano ritiene, dunque, che per evitare problemi di coesione sociale sia preferibile non mettere i musulmani davanti alla drastica alternativa tra lealtà alla religione o allo Stato. A patto che il riconoscimento non si spinga a recepire l´intero corpus della Sharia, in particolare degli aspetti, come le pene corporali o la legittimazione di forme oppressive sulle donne, contrarie ai diritto fondamentali dell´uomo. Soluzione, quella adottata del Regno Unito, impensabile fuori dal modello multiculturalista locale, che privilegia il riconoscimento della differenza culturale, e dei gruppi etnici e religiosi che la esprimono, come elemento costitutivo dell´identità del singolo.
In Italia, invece, la Sharia "matrimoniale" non gode di alcun riconoscimento ma è un dato di fatto. Riguarda i musulmani poligami, che si sono risposati nel loro Paese d´origine e portano con sé, oltre che il loro "statuto personale", anche la nuova moglie. O quelli che intendono sposarsi nel Belpaese, ma non vogliono farlo davanti all´ufficiale di stato civile o ricorrere al "matrimonio consolare". Entrambe i riti sono ritenuti forme "laiche" e non "religiose" di matrimonio. Naturalmente, il matrimonio in moschea non produce alcun effetto civile: le coppie sposate dall´Imam sono assimilabili a coppie di fatto. Meri conviventi per lo Stato italiano, che dunque formalmente se ne disinteressa; mentre marito e moglie sono pubblicamente tali per la comunità. Una situazione che implica un certo dislivello di diritti tra uomo e donna, sancito dalla giurisprudenza sharaitica: nella potestà sui figli, nella possibilità di sciogliere il matrimonio, nei diritti ereditari. Constatazione destinata a turbare i sinceri sostenitori dell´eguaglianza dei diritti e di genere, così come gli intransigenti, e spesso strumentali, fautori di una militante identità culturale italiana. Gli stessi, questi ultimi, che si oppongono a un´intesa tra Stato e confessione islamica, la seconda per numero di fedeli in Italia e la sola priva di quello strumento giuridico vanificando, così, ogni possibilità di regolamentare il matrimonio religioso islamico in Italia secondo principi che non siano incompatibili con il nostro ordinamento e garantiscano diritti eguali per tutti. Del resto, non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.
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