Le donne stiano a casa, alla lotta armata ci pensino gli uomini: così ordina l'ideologo di Al Qaeda. Le devote di Osama protestano e sul web si dichiarano pronte al martirio. Come atto supremo. Di emancipazione
La Jihad come supremo atto dell'emancipazione della donna. Il coinvolgimento nella lotta armata come simbolo di femminismo e rifiuto di vecchi clichè. E, dunque: farsi saltare in aria in mezzo al nemico equivale a una conquista personale e sociale. Posizioni estreme e certamente minoritarie ma che trovano accoglienza negli ambienti ultra-integralisti. A innescare la polemica non un intervento "crociato" ma le parole dell'ideologo di Al Qaeda, il medico egiziano Ayman Al Zawahiri. Rispondendo su internet - oggi megafono e microfono del movimento - alle domande dei seguaci, l'ispiratore di tanti attentati se n'è uscito con una frase che è suonata come una sentenza: all'interno di Al Qaeda il ruolo delle donne è limitato a prendersi cura delle case e dei figli dei mujaheddin. In poche parole la moglie del guerriero sacro deve restare ai fornelli e non ambire ad altro.
Una volta le parole di Al Zawahiri sarebbero filate vie lisce, accettate e rispettate. Se non altro perchè sarebbe stato difficile esprimere il proprio dissenso. Dove? In che modo? Alzando la voce in presenza del marito mujaheed? Oggi invece c'è la rete telematica che diventa podio per chiunque abbia accesso a un computer. E così molte donne hanno lasciato messaggi di protesta nei forum frequentati dagli estremisti rivendicando una posizione di primo piano. "Quante volte avrei voluto essere un uomo" ha scritto una simpatizzante. "Quando lo sceicco Al Zawahiri ha detto che non c'è spazio per noi in Al Qaeda mi ha ferito e rattristato". Dal Libano, una madre ha spiegato di aver educato i figli in casa "come forma di Jihad", però è d'accordo con quante donne desiderano partecipare a un attacco. "Tante ragazze con cui ho parlato desiderano impugnare un'arma" ha sostenuto Huda Naim, esponente di Hamas. "Loro vivono tra frustrazione e oppressione"
Una volontà di essere in prima linea che si scontra spesso con la visione ortodossa dei leader. Al Zawahiri, nella sua predica, arriva a dire che è sconveniente per una donna viaggiare da sola. E se desidera raggiungere l'Afghanistan deve essere scortata da un uomo della famiglia.
La chiusura del dottore è però puramente dottrinaria. Perchè sul campo i qaedisti e quanti li emulano si adattano alle situazioni. E se la "causa" lo richiede impiegano senza problemi una ragazza. I palestinesi, durante l'Intifada, hanno usato molto spesso le kamikaze trasformandole in simbolo di lotta. E lo stesso è avvenuto in Iraq. I ribelli iracheni hanno impiegato le donne per azioni suicide.
Un trend crescente: dal 2003 a oggi sono stati registrati 20 attacchi kamikaze- riusciti o falliti- affidati a delle donne. Anziane o adolescenti. Vedove desiderose di vendicare i mariti, spose ripudiate, madri che hanno visto morire i loro figli. E fidanzate della morte.
Come la trentenne belga, figlia di una panettiere, convertitasi all'Islam radicale, e immolatasi a un posto di blocco americano come il suo sposo terrorista. Storie dove i sentimenti personali si mescolano a motivazioni politiche, con evidenti manipolazioni da parte di chi le recluta e poi le manda a morire. Ma c'è anche chi, senza scegliere la via del sacrificio, ha deciso di servire il movimento con la propaganda. Un caso celebre quello di Malika El Aroud. Marocchina di 48 anni cresciuta in Belgio, radicalizzatasi in Europa frequentando estremisti nordafricani e diventata la curatrice di numerosi siti dedicati ad Al Qaeda. Un passaggio quasi obbligato, visto che suo marito - un tunisino - si è trasformato in un attentatore suicida per uccidere il comandante Massud, il capo dell'alleanza del nord anti-talebana. Un omicidio avvenuto il 9 settembre 2001, alla vigilia dell'attacco all'America.
Malik ha proseguito nel solco tracciato dal suo compagno e si è legata a un altra militante, abile con il computer, che ha scelto come base la tranquilla Svizzera(...)
La belga-marocchina unisce la conoscenza del mondo occidentale e la risolutezza di chi segue i principi di Osama. Nasconde il suo volto in omaggio alla tradizione ma contesta il burqa imposto alle afghane. E quando incontra una giornalista del New York Times si presenta con delle ciabatte con scritta "sexy". Davanti ai giudici è sfrontata. Non sembra intimorita. Anzi, li minaccia. E non è disposta ad ascoltare e basta. Ha scritto ben due libri per esaltare il gesto del primo marito - lo definisce "una crema d'uomo"- e per presentarsi come una paladina della verità. Una contestatrice aperta dell'informazione occidentale, accusata da Malika di raccontare solo bugie. La sua sfida richiama le parole di una donna che, nel 2004, ha scritto al mensile on-line Al-Khansaadedicato alle qaediste:"Noi resistiamo, coperte dai nostri veli e avvolte nelle nostre vesti, armi in pugno e figli tra le braccia, con il Corano e i precetti del Profeta a guidarci".
lunedì 7 luglio 2008
INTEGRALISTE/2: LE FEMMINISTE DELLA JIHAD
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3 commenti:
certo che sono brave...
dei veri geni...
lavorano per quelli che le considerano meno di animali senzienti...
caposkaw
Ma che bella emancipazione! A nessuna viene in mente che l'emancipazione sarebbe migliore e più efficace se facessero capire ai loro ometti che sarebbe più importante invece pensare a vivere e a guadargnarsi il pane, piuttosto che uccidersi e ammazzare vite innocenti?
Che commenti spiccioli...mi complimento con voi! Davvero un'acuta osservazione e interpretazione del movimento e della sua natura storica e culturale. Un pò di sano relativismo non guasterebbe per "comprendere" e non "giudicare" tali fenomeni socio-culturali. D'altronde il giudizio (tutto etnocentrico) è la cosa che ci viene meglio...Peccato che l'articolo credo avesse altre finalità, non certo fomentare ns integralismi ma "informare" su uno spaccato di realtà, parallelo ad altri maggiori movimenti femministi, figlio dei condizionamenti multipli del nostro/loro tempo.
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