venerdì 25 luglio 2008

AFGHANISTAN E DIRITTI UMANI. SAYED RISCHIA LA PENA DI MORTE, L'ITALIA DEVE INTERVENIRE, di Souad Sbai

21 Luglio 2008 Nord dell’Afghanistan, ottobre 2007. Sayed Parwez Kambakhsh, studente dell’Università di Balhk, collaboratore di alcuni giornali locali, viene arrestato con l’accusa di oltraggio all’Islam. Dopo la condanna a morte in primo grado per empietà, il ventiquattrenne ha ribadito alla corte d’appello la sua innocenza e ha rivelato di aver subito delle torture volte a rendere una falsa confessione. Il capo d’accusa: aver sostenuto la parità delle donne. A sei anni dalla cacciata dei talebani questo è il paradosso in Afghanistan: nonostante siano tutelate dalla nuova Costituzione varata nel 2004, le donne - e chi le difende - versano in un clima di paura e di intimidazione. Molte di loro cominciano a discutere di matrimoni forzati, lapidazioni e stupri compiuti durante il regime talebano e alcune associazioni di diritti umani hanno iniziato a documentare le atrocità. Oggi l’inflazione, la disoccupazione e la corruzione rappresentano le questioni più urgenti da affrontare. Il dilagare dell’impunità, inoltre, sta alimentando un clima di sfiducia tra la popolazione, mentre il sistema giudiziario appare sempre più condizionato da forze conservatrici e fondamentaliste. Se finalmente, a partire dal 2002 avevano aperto i battenti per la prima volta quotidiani, siti internet ed emittenti radiotelevisive, i reporter afghani hanno dovuto fronteggiare le minacce per le critiche che hanno mosso ai leader del nuovo governo, ai signori della guerra e ai rappresentanti religiosi. Questi ultimi hanno cominciato ad avvalersi di un vero e proprio sistema di intelligence per stanare la stampa sovversiva. Ad oggi i talebani controllano ancora alcuni territori a Sud e nel 2007 hanno organizzato circa 140 attacchi suicidi. Essi sostengono di aver guadagnato nuovamente una certa influenza in alcune aree del paese con l’appoggio dei contadini bisognosi di un potere forte e di maggiore sicurezza pubblica. La rimonta dei talebani non è dovuta a una recrudescenza delle ideologie, ma alla debolezza del governo centrale, schiacciato dai trafficanti di droga, dalla massa di disoccupati e dalle lotte tribali. Il ritorno di un nuovo regime è uno spettro da scongiurare. La loro dittatura umiliava la donna attraverso la proibizione del lavoro, l'esclusione da qualsiasi forma di istruzione e l’imposizione del burqa, secondo la legge della sharia.
La repubblica afghana ha bisogno di migliorare le sue relazioni internazionali, ma finora il debole ed inesperto governo non ha saputo fronteggiare alcuni stati di crisi e la situazione sta gradualmente peggiorando. Gli ambigui leader afghani, compreso Karzai, cominciano a prendere le distanze dagli osservatori occidentali che suggeriscono invece cambiamenti e criticano gli amministratori locali e i poliziotti corrotti. Le speranze della popolazione, germogliate in più un quarto di secolo di guerra, in principio erano illimitate. Il loro paese, ad oggi tra i più poveri, resta il primo produttore di papaveri da oppio. Circa tre quarti della popolazione è ancora analfabeta e la capitale ha accesso all’energia elettrica soltanto per alcune ore. E’ pur vero che a più di sei anni dalla fine del regime talebano l’Afghanistan ha vissuto dei cambiamenti rilevanti. Sei milioni di bambini sono andati a scuola per la prima volta, chilometri di strade sono stati costruiti, ma la condizione della donna resta immutata, laddove non è peggiorata. Sfortunatamente però, la risalita di questo paese appare più difficile ora rispetto a sette anni fa. L’Italia non può restare a guardare. Il nostro governo, sulla base delle responsabilità che esercita per il ritorno alla democrazia in Afghanistan, può scongiurare attraverso un’azione diplomatica la pena di morte richiesta per il giovane Sayed, reo di combattere per la difesa dei diritti umani e per l'emancipazione delle donne.

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