mercoledì 21 maggio 2008

QUOTE ROSA NELLE PUBLIC COMPANY: OMAN E KUWAIT MEGLIO DELL'ITALIA



Secondo il britannico Financial Times, nelle società ad azionariato diffuso dei due Paesi la presenza femminile è del 2,7%. Da noi solo il 2%. In Giappone lo 0,4%


ROMA - Nei consigli di amministrazione delle public company, le società ad azionariato diffuso, presenti in Oman e Kuwait, ci sono più donne che in Italia e Giappone, e questo nonostante nei due Paesi arabi le donne imprenditrici non siano proprio così comuni. Secondo un articolo pubblicato nell'edizione odierna del Financial Times, infatti, in Oman e Kuwait le donne costituiscono il 2,7% dei consigli di amministrazione delle public company, contro il 2% dell'Italia e lo 0,4% del Giappone. I dati sono tratti da una ricerca di TNI, una banca d'investimenti di Abu Dhabi. Si potrebbe obiettare che in Italia le public company non arrivano al 20% del totale delle aziende. Il problema è che non costituiscono un'eccezione rispetto all'andamento del sistema, e che la scarsissima presenza femminile è una costante nel pubblico come nel privato. A ricordarlo, in questi giorni, anche una lettera inviata da un gruppo di personalità del mondo accademico ed economico al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e al ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Nella lettera, firmata tra gli altri da Rosalba Casiraghi, presidente di NedCommunity, da Marta Dassù, direttore affari internazionali di Aspen Institute, da Roger Abravanel (consulente e autore di "Meritocrazia"), da Carlo Alberto Carnevale Maffé docente alla Sda Bocconi e da Melina De Caro della Luiss, si chiede che almeno il 25% dei posti nei nuovi cda venga riservato alle donne. Una richiesta avanzata in vista del rinnovo dei cda delle grandi società, a cominciare da Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, Rai, per le quali lo Stato sarà a chiamato a nominare una parte dei consiglieri. L'anno scorso, al Festival dell'Economia di Trento, l'economista Fiorella Kostoris ricordava che nell'Ue "soltanto il tasso di occupazione femminile di Malta, in Europa, è inferiore a quello italiano". Mentre, alcuni mesi fa, l'economista Andrea Goldstein in un articolo pubblicato sul sito Lavoce.info citava una ricerca dell'Università di Cambridge, secondo la quale "le donne sono ancora lungi dall'essere equamente rappresentate nei consigli di amministrazione. Su 100, sono 22 e 18 rispettivamente in Svezia e Danimarca, 11 in Gran Bretagna, 7 in Germania e nei Paesi Bassi. In Italia sono 2". Goldstein, Senior Economist presso l'OECD Development Centre, ha pubblicato alcuni giorni fa con Michela Gamba uno studio per l'Università Bocconi dal quale emerge che solo nel 60,5% delle imprese quotate in Italia ci sono donne nei consigli di amministrazione. E dei 4347 posti disponibili, solo 291 sono occupati da donne, l'equivalente del 6,7%. Nel Regno Unito la percentuale sale all'11, negli Stati Uniti al 14,6, in Francia è al 7,9. Solo in Spagna scende al 4%. Adesso - almeno su una parte delle società per azioni, stando al Financial Times, le public company - l'Italia viene superata anche da Kuwait e Oman, Paesi di cultura spiccatamente conservatrice per quanto riguarda il ruolo delle donne nella società. Già "il 30% delle donne ha un ruolo attivo nell'economia del mondo arabo", si legge ancora sul FT. "L'importanza delle donne d'affari arabe sta aumentando e il loro ruolo nel settore privato in particolare sta crescendo. Le principali imprenditrici vengono per lo più da ambiti familiari privilegiati, ma molte giovani donne puntano a una migliore istruzione, anche in Arabia Saudita, Paese molto conservatore. E sono decise a usare la loro conoscenza per l'avvio di nuove imprese, soprattutto là dove le economie sono in una fase di forte espansione". In Italia non si vedono segnali di cambiamento. Da tempo illustri economisti invocano le quote rosa, proprio come gli autori della lettera inviata in questi giorni a Berlusconi e Tremonti. Le quote rosa nelle aziende, peraltro, hanno precedenti illustri, a cominciare da quello norvegese: dal 1° gennaio del 2006, le società quotate alla Borsa di Oslo devono riservare alle donne una parte dei posti di amministratore, con l'obiettivo di raggiungere entro due anni il 40% degli incarichi.
(Fonte: "La Repubblica", 19/5/2008)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Toh ... io pensavo che i posti dirigenziali fossero occupati da persone capaci, non da "uomini" o "donne".
Ma forse sbaglio io.
Gnurànt

Anonimo ha detto...

2,7- 2, 0,4 :-(
Niente anche dove sono tante.
Stefano.

Anonimo ha detto...

Personalmente non trovo siano "tante": direi "niente anche dove sono di più".
Ha ovviamente ragione ignorante quando dice che i posti dirigenziali dovrebbero essere occupati in base alle capacità, non al sesso. Però mi chiedo: è sempre e comunque "garantita" la possibilità di accorgersi che queste capacità non debbano essere valutate in base al sesso... quando magari non si permette anche alle donne di raggiungere determinati traguardi, sia pure con l'umiliante excamotage delle quote,degno dei panda del WWF? Certo, con la Marcegaglia e altre imprenditrici donne è successo fortunatamente, ma siamo sicuri che in altri casi, non vi sia pregiudizio nei confronti delle capacità manageriali di una donna?