lunedì 7 dicembre 2009

LA CASA, I VESTITI, IL METRO'. L' OSPEDALE ADOTTA LA PEDIATRA COL VELO

LA STORIA VIENE DAL SUDAN. RIMARRA' UN ANNO. L' AFFETTO DEI BAMBINI MALATI. "NESSUNO MI FA PESARE CHE SONO STRANIERA".

L' Istituto dei tumori in aiuto alla ricercatrice Amel. «La borsa di studio? Pochissimi soldi».

Lei che cura i bambini, è stata adottata dall'Istituto dei Tumori. Amel, 35 anni, pediatra oncologo sudanese, è arrivata a Milano con una piccola borsa di studio. L'ospedale e gli assistenti sociali hanno fatto squadra per aiutarla.

Adesso che, giurano le colleghe, va meglio, Amel ha ancora un po' di paura. Paura della paura dei bambini, che all' inizio esitava a toccare, chissà come la guardavano, cosa pensavano, se la giudicavano male: c' era il velo, che si chiama Hegab e porta con eleganza, anche se mai sarà uguale all' eleganza delle sue mani, e poi c' erano la pelle, la lingua, con quell' italiano che ha bisogno di tempo... Ecco, il tempo. Ne servirebbe di più. O forse è già troppo. «Più rimango, più imparo e potrò aiutarli. Meno sono là, e meno bambini aiuto» dice. Aiutare: verbo che torna, nella vita di Amel Ahmed Elobied Ali, 35 anni, sudanese, unico pediatra oncologo del suo Paese. È arrivata a Milano un mese fa, al settimo piano dell' Istituto dei tumori, il piano dove gli adulti sono o medici o visitatori. Non è venuta da sola, Amel. L' ha inviata il suo Governo per studiare, capire, poter a sua volta insegnare. Ci sarebbe una borsa di studio: è di pochissime centinaia di euro. Così all' Istituto, dottoresse e dottori, infermiere, assistenti sociali come Michela e Giovanna, impiegate, amiche delle colleghe, hanno trovato una casa, i mobili, le sedie; hanno allacciato i contratti di luce, acqua e gas; hanno mostrato come funzionano i metrò, hanno dato i primi biglietti dei bus, e le hanno parlato di Milano e soprattutto dei milanesi, questi milanesi che, hanno aggiunto, nonostante certi loro politici che urlano se ti guardano male in metrò, magari, di solito, è soltanto perché sono stanchi. Amel ha quattro sorelle e tre fratelli; mamma casalinga e papà impegnato in un' azienda tra contabilità e gestione del personale. Viene dalle parti di Khartoum, la capitale. Quando Amel tornerà nel Sudan, andrà, con un ruolo di guida, al National Cancer Institute, il maggiore ospedale che cura i tumori. Dice Amel che, in Sudan, su dieci tumori, uno è di un bambino. Cifra maledettamente in difetto. I tumori, in Africa, non si vedono e diagnosticano. Mancano gli strumenti e le specializzazioni. C' è un cancro che colpisce più degli altri, e non si può non vedere: avvolge l' occhio di una massa che sembra un mostro dei videogiochi. Maura Massimino dirige la Pediatria dell' Istituto dei tumori, è la capa anche di Amel. Tipo tosto, la Massimino, raccontano. Sta visionando delle radiografie. Lungo il corridoio degli uffici ci sono fascicoli con una etichetta, che dice: «Persi». Davanti alle radiografie c' è anche Amel. Come maestra d' italiano le hanno dato una maestra in pensione che insegna ai bambini malati di cancro. Alcuni saltano mesi interi di lezione. A inizio novembre Amel è scesa all' aeroporto, sono venuti a prenderla, l' hanno accompagnata in Istituto. Tramite un connazionale, le hanno trovato una casa a Pavia. Troppo lontano. Un' assistente sociale ha contattato un condomino, a Milano, sapeva che aveva un appartamento libero. Gli ha raccontato la storia di Amel, ha raccontato della borsa di studio che più che una borsa è un piccolo, leggero sacchetto. Il condomino, italiano, le ha affittato l' appartamento. A 350 euro. Appena. Incontriamo Amel, traduce dall' arabo una signora marocchina, si chiama Soraya. Amel racconta che la sua vita in Italia ha avuto e ha problemi e problemini, esitazioni, pensieri non sempre belli. «Eppure», dice, «sono qui per altre persone. Per i bambini». Altro non le interessa.
La signora Soraya indossa anche lei il velo. «Un giorno ero lì, in corsia. Mi avvicinano una mamma e un papà. Mi domandano se è il caso di girare con il velo». Amel e Soraya si sono conosciute quando la prima ha visitato il nipotino della seconda , malato di cancro. Al settimo piano gira la storia di una bimbetta, tosta, dicono, come la mamma. Una mattina aveva 39 di febbre e la mamma, medico, stava lo stesso uscendo per andare al lavoro. La bimba: «Perché non resti a casa? Questa volta sono proprio malata». L' altra le rispose: «Non è vero». La bambina: «Vorrà dire che mi comprerò la medicina che fa cadere i capelli». (Fonte: Corriere della Sera, 6/12)

6% Il tasso di mortalità infantile nel Sudan. Nel Paese africano le speranze di vita sono di 56 anni per gli uomini e di 59 per le donne.

Purtroppo non ho trovato su internet le foto di Amel che c'erano sul Corsera... .

1 commento:

Anonimo ha detto...

bellissima questa storia... Ciao. Grandmere