IL PERSONAGGIO. SHEIKHA HUSSAH, SEI FIGLI E UNA PASSIONE NATA CON UNA BOTTIGLIA MAMELUCCA.
«Molti erano a casa nostra a rischio bambini: un dovere renderli pubblici» L' abito integralista «Condivido il no dell' Occidente al velo integrale: dobbiamo creare un ponte tra culture, quella invece è una barriera».
Si definisce una «donna normale», come tante altre. «Liceo e università pubblici, un marito, sei figli che accompagnavo ogni giorno a scuola, e per questo non ho potuto continuare gli studi a Oxford. Ora, a 60 anni, ho anche sei nipoti». Hussah Sabah Al Salem Al Sabah non è però quello che molti definirebbero «normale». Figlia dell' 11° emiro del Kuwait, moglie del primogenito dell' attuale sovrano, nonostante il biglietto da visita non lo dica è una «sheikha», titolo che spetta alla famiglia reale ed equivale a principessa. E già negli anni in cui i bambini erano piccoli ha iniziato a creare con il marito quella che oggi è una delle collezioni di arte islamica più importanti del mondo: 30 mila pezzi dal tempo di Maometto al 19° secolo, provenienti da tutte le regioni della civiltà islamica. «È cominciato tutto nel 1975 con l' acquisto del primo oggetto, una bottiglia d' era mamelucca. Poi abbiamo continuato investendo i profitti del business di mio marito, entrambi affascinati non solo dalla bellezza di quei pezzi ma dalla conoscenza che il loro studio ci dava». Una passione privata all' inizio, dice Sheikha Hussah, arrivata a Milano per l' inaugurazione della mostra a Palazzo Reale (fino al 30 gennaio 2011, ndr). «Gli oggetti erano in casa: sulle librerie, sui tavoli, ovunque. Ma i bambini ne hanno rovinati alcuni, abbiamo pensato che non avevamo il diritto di disporne come cose "nostre", appartenevano al mondo». E così, nel 1983 Sheikha Hussah e Sheikh Nasser accettarono la richiesta del governo di esporre la loro collezione al Museo Nazionale. Lei vi si dedica ormai a tempo pieno. Solo durante la drammatica invasione irachena nel 1990, esule a Damasco, assunse la guida del Centro di informazioni kuwaitiano. Poi, recuperata la collezione portata a Bagdad («mancano solo una cinquantina d' oggetti, tra cui tre smeraldi eccezionali che spero non siano stati tagliati per venderli»), è tornata al lavoro come direttore dell' Istituto d' arte islamica del Kuwait. Organizza mostre con parti della collezione in tutto il mondo, tiene conferenze, studia, cataloga, cura mille progetti tra cui il restauro di edifici antichi in vari Paesi. Convinta che far conoscere l' arte «è soprattutto comunicare. Questa mostra a Milano sfata alcuni miti come il divieto assoluto nell' Islam di raffigurare persone o animali, o lo scarso valore scientifico e spirituale della nostra arte. Ci sono vestiti, oggetti comuni come i cucchiai. Opere di artisti musulmani per cristiani e indù, o di ebrei e cristiani commissionati da musulmani. Mostrano quanto ancor prima della globalizzazione la storia delle nostre civiltà fosse condivisa». Sheikha Hussah insiste sulla conoscenza e la comunicazione come «ponti» tra culture e Paesi. «È anche per questo che condivido la sollevazione dell' Occidente contro il velo integrale: non solo come misura di sicurezza ma perché è una barriera, taglia ogni comunicazione a differenza del hijab, che è questione privata». E si dice felicissima che altri Paesi del Golfo stiano dando all' arte importanza: «La prima mostra di arte saudita a Parigi quest' estate è un segno importante, il Paese si sta aprendo. Lo stesso vale per il Louvre di Abu Dhabi». Come il Kuwait, più avanzato di altri con le sue 5 donne in parlamento e nuove leggi già votate o in arrivo sui diritti umani, la regione sta attraversando una «metamorfosi». Che l' Occidente può forse meglio capire, sostiene Sheikha Hussah, grazie anche all' arte. (Fonte: http://www.corriere.it/ , 20/10)
Delle 1.200 opere d' arte islamica del Museo Nazionale del Kuwait se ne salvarono solo 107, in quel momento in tour all' estero. Le altre furono saccheggiate dagli iracheni o distrutte nella prima Guerra del Golfo.
«Molti erano a casa nostra a rischio bambini: un dovere renderli pubblici» L' abito integralista «Condivido il no dell' Occidente al velo integrale: dobbiamo creare un ponte tra culture, quella invece è una barriera».
Si definisce una «donna normale», come tante altre. «Liceo e università pubblici, un marito, sei figli che accompagnavo ogni giorno a scuola, e per questo non ho potuto continuare gli studi a Oxford. Ora, a 60 anni, ho anche sei nipoti». Hussah Sabah Al Salem Al Sabah non è però quello che molti definirebbero «normale». Figlia dell' 11° emiro del Kuwait, moglie del primogenito dell' attuale sovrano, nonostante il biglietto da visita non lo dica è una «sheikha», titolo che spetta alla famiglia reale ed equivale a principessa. E già negli anni in cui i bambini erano piccoli ha iniziato a creare con il marito quella che oggi è una delle collezioni di arte islamica più importanti del mondo: 30 mila pezzi dal tempo di Maometto al 19° secolo, provenienti da tutte le regioni della civiltà islamica. «È cominciato tutto nel 1975 con l' acquisto del primo oggetto, una bottiglia d' era mamelucca. Poi abbiamo continuato investendo i profitti del business di mio marito, entrambi affascinati non solo dalla bellezza di quei pezzi ma dalla conoscenza che il loro studio ci dava». Una passione privata all' inizio, dice Sheikha Hussah, arrivata a Milano per l' inaugurazione della mostra a Palazzo Reale (fino al 30 gennaio 2011, ndr). «Gli oggetti erano in casa: sulle librerie, sui tavoli, ovunque. Ma i bambini ne hanno rovinati alcuni, abbiamo pensato che non avevamo il diritto di disporne come cose "nostre", appartenevano al mondo». E così, nel 1983 Sheikha Hussah e Sheikh Nasser accettarono la richiesta del governo di esporre la loro collezione al Museo Nazionale. Lei vi si dedica ormai a tempo pieno. Solo durante la drammatica invasione irachena nel 1990, esule a Damasco, assunse la guida del Centro di informazioni kuwaitiano. Poi, recuperata la collezione portata a Bagdad («mancano solo una cinquantina d' oggetti, tra cui tre smeraldi eccezionali che spero non siano stati tagliati per venderli»), è tornata al lavoro come direttore dell' Istituto d' arte islamica del Kuwait. Organizza mostre con parti della collezione in tutto il mondo, tiene conferenze, studia, cataloga, cura mille progetti tra cui il restauro di edifici antichi in vari Paesi. Convinta che far conoscere l' arte «è soprattutto comunicare. Questa mostra a Milano sfata alcuni miti come il divieto assoluto nell' Islam di raffigurare persone o animali, o lo scarso valore scientifico e spirituale della nostra arte. Ci sono vestiti, oggetti comuni come i cucchiai. Opere di artisti musulmani per cristiani e indù, o di ebrei e cristiani commissionati da musulmani. Mostrano quanto ancor prima della globalizzazione la storia delle nostre civiltà fosse condivisa». Sheikha Hussah insiste sulla conoscenza e la comunicazione come «ponti» tra culture e Paesi. «È anche per questo che condivido la sollevazione dell' Occidente contro il velo integrale: non solo come misura di sicurezza ma perché è una barriera, taglia ogni comunicazione a differenza del hijab, che è questione privata». E si dice felicissima che altri Paesi del Golfo stiano dando all' arte importanza: «La prima mostra di arte saudita a Parigi quest' estate è un segno importante, il Paese si sta aprendo. Lo stesso vale per il Louvre di Abu Dhabi». Come il Kuwait, più avanzato di altri con le sue 5 donne in parlamento e nuove leggi già votate o in arrivo sui diritti umani, la regione sta attraversando una «metamorfosi». Che l' Occidente può forse meglio capire, sostiene Sheikha Hussah, grazie anche all' arte. (Fonte: http://www.corriere.it/ , 20/10)
Delle 1.200 opere d' arte islamica del Museo Nazionale del Kuwait se ne salvarono solo 107, in quel momento in tour all' estero. Le altre furono saccheggiate dagli iracheni o distrutte nella prima Guerra del Golfo.
5 commenti:
http://holywar.org/Pranaitis_il_Talmud_smascherato.pdf
Caro molto asino molto servo, lo so che il vostro grido di battaglia è "Hitler è vivo e lotta insieme a noi", ma la verità è che lui è morto, e sono morti tutti coloro che con le armi o con la menzogna hanno tentato di distruggere gli ebrei e l'ebraismo. Noi non ci agitiamo: simo qui seduti sulla riva del fiume e pazientemente aspettiamo: prima o poi passerete anche voi, garantito.
Mai nickname sarebbe stato più appropriato.
bel commento, Alessandra!
:D
Quanno ce vo'... .
Concentriamoci sul post, che è meglio!!!
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