La cerimonia è sbrigativa, gli sguardi pesanti, più dei vestiti ricamati. Sono le nozze di Roshan. Ha 10 anni. Wasir, il marito, ne ha 30 di più. È suo cognato. Solo sei mesi prima, aveva sposato Amina, la sorella maggiore, come seconda moglie. Ma la ragazza non è stato un buon affare, è scappata di casa. Nessuno l’ha più vista. Wasir, offeso, pretende Roshan come riparazione. Il padre non può rifiutare. Il torto va riparato e l’uomo ha i mezzi per essere convincente. È potente nel villaggio, poco a sud di Kabul. Roshan dovrà essere una sposa migliore della sorella. Nella nuova famiglia, deve trovare il suo posto in fretta, non c’è tempo per lo sgomento. Non è un buon posto, questo lo capisce subito. I muri alti della casa chiudono lo spazio. Le toccano i lavori più pesanti: prendere la legna, l`acqua, fare le pulizie, Wasir, la notte.
I muri della famiglia sono ancora più soffocanti. A loro piace umiliarla, per quell’ombra di vergogna che si porta addosso per la fuga della sorella. Impara ad obbedire. La salvezza è nel fare tutto come vogliono loro, nei minimi particolari. Ma la routine a volte si inceppa. Basta poco. È mattina, il tandur, il forno, è acceso. Un buco profondo di argilla con il fuoco dentro, un vulcano addomesticato. Oggi tocca a Roshan fare il pane. Ha aiutato la mamma, sa come fare. La pasta, spianata, si lancia contro le pareti roventi, dove si attacca, per cuocere. Ha le lacrime agli occhi, per il fumo, per la paura di sbagliare. È inesperta e le tremano le mani.
La pasta rotola giù, sul fondo. È persa. Come lei. La suocera e il marito la buttano dentro, sulla brace. Le ustioni sono gravi ma nessuno la cura, per una settimana la pelle brucia. La famiglia di Roshan viene a saperlo. La portano in ospedale, ci rimane per mesi, sono necessarie diverse operazioni. Vede la madre solo all’inizio, due volte. Poi nessuno. Ad aspettarla, fuori dall’ospedale, c’è ancora Wasir. Il caso è liquidato: incidente. Anche la sua famiglia ritira le accuse, ha paura. Wasir ha minacciato di prendersi la terza sorella se Roshan non tornerà a casa. All’inizio le cose migliorano, ha le mani fasciate, le bende sulle gambe, non può lavorare, è inutile, la ignorano, come fosse un fantasma. I mesi passano e, lentamente, tutto ricomincia. C’è sempre un po’ d’acqua che cade dalla brocca sul pavimento, il tè troppo leggero o troppo forte, una parola inopportuna, qualche moneta persa.
Ha le mani grandi Wasir e una rabbia che scoppia come una mina, basta calpestarla per sbaglio. Nemmeno suo figlio cambierà le cose, nemmeno la bambina. Sono la sua debolezza, l’arma del ricatto. Wasir minaccia di portarglieli via se non si comporta bene. Fuori, al mercato, cammina nell’ombra di un uomo di famiglia. Gli odori, la polvere, i rumori che stordiscono, sotto il burka. Ruba immagini, cattura gesti. Forse c’è un’altra vita, oltre il cortile. Quella che cercava Amina. Resiste per i figli, fa troppo male lasciarli. Sogna, scappa via con la mente. Ma nemmeno con quella sa dove rifugiarsi. L’ultima volta che ha parlato con la vicina, ci ha rimesso due denti. A Wasir non piace. Non le permette di far visita ai suoi.
Vorrebbe vedere la madre, le sorelle. Il padre no. I giorni sono tutti uguali, come una rotaia di ferro dalla quale non si può uscire senza deragliare. Anzi no. Ci sono i giorni senza botte, i migliori. I pensieri cominciano a ingarbugliarsi. Il pianto dei bambini è insopportabile. Sembra che anche loro ce l’abbiano con lei. Una mattina, oltre il cortile, scoppiano le grida. Roshan non ne ha mai sentite così. La vicina, con cui aveva parlato, si è data fuoco. È sopravvissuta. La vede passare, il viso è una foglia secca. I pensieri impazziscono. Sparire da tutto, in una fiammata. Ci pensa, cerca la benzina, mette da parte i fiammiferi. Ma conosce già il morso del fuoco, ha paura. Forse c’è un’altra scelta, quella di Amina. Forse adesso è libera, non vuole pensare che sia morta. Il pomeriggio è caldo, tranquillo, è sola in casa. Mette a dormire i bambini, sul toshak, il cuscino fiorato, li bacia, come per sempre, infila il burka ed esce. Chiude la porta.
Ruba qualche spicciolo. I fiammiferi li ha sempre in tasca. Prende l’autobus, arriva a Kabul. Cammina fino a sfinirsi, non sa dove andare. Il buio arriva e ha paura. Si accoccola per terra, come fanno i cani. La trova la polizia. Racconta la sua storia, parole confuse, lacrime, il tremito che non dà pace. Ha fortuna, Roshan, il poliziotto è un brav’uomo. Impedisce agli altri di violentarla e la mette nella prigione temporanea, per proteggerla. La porta al Ministero per gli Affari Femminili. Viene affidata alle donne di Hawca. Con i gesti discreti, con le parole, accolgono. La portano allo «Shelter». Roshan è stordita. Il suono delle parole, diverso. Solo il suono, non riesce nemmeno a capire cosa dicono, la dottoressa, la psicologa, le insegnanti, le assistenti legali. Sono donne combattive, testarde, coraggiose. Non ne ha mai viste così.
Le ripetono che ce l’ha fatta, che è al sicuro. Quando la mente e il corpo sono più forti, le avvocatesse si danno da fare per il divorzio. Parlano con la famiglia. Il marito si oppone ma il caso sembra facile: il matrimonio prima dei 16 anni è contro la legge. Ma la legge del giudice è un’altra. Capiscono subito che è un osso duro. Wasir ha conoscenze anche a Kabul. Forse paga o minaccia o, semplicemente, trova solidarietà.«Devi restare con tuo marito anche se dovesse ammazzarti». È questo il verdetto. La sua colpa, la fuga, prevede sei mesi di prigione. Nega il divorzio e la condanna. Ma anche le donne di Hawca sono un osso duro. Ricorrono. Ci sarà un altro giudice. Se il marito è troppo crudele, il divorzio si può ottenere anche senza il suo consenso. Dove comincia il «troppo»? Wasir continua a fare pressioni sulla famiglia. Roshan non esce mai dallo «Shelter». Il suo corpo offeso la difende. I referti medici, stilati al suo arrivo, parlano chiaro. Questa volta il nuovo giudice applica la legge, concede il divorzio. Wasir è arrestato.
La porta si apre ma, di nuovo, Roshan non sa dove andare. Il padre non la vuole più. Una figlia divorziata è una vergogna. Roshan dovrà arrangiarsi. Lo farà ma le mancano i bambini. Ha diritto alla custodia dei figli, finché sono piccoli. Ma deve essere in grado di mantenerli, e, per ora, non può badare nemmeno a se stessa. Per questo rimane alla casa protetta. Tra poco arriveranno anche la madre e le due sorelle. Hanno paura di Wasir. È uscito dal carcere, dopo nemmeno un mese, e continua a minacciare. Ora è qui, Roshan, con le altre ragazze, ha 18 anni adesso. Allo «Shelter», Roshan impara a leggere e a scrivere, studia i diritti delle donne e i diritti umani, ora sa che la violenza è un delitto, impara ad amarsi, a proteggersi e a fare la sarta. È brava, le è sempre piaciuto. (fonte: http://www.unità.it/ , agosto 2010)
I muri della famiglia sono ancora più soffocanti. A loro piace umiliarla, per quell’ombra di vergogna che si porta addosso per la fuga della sorella. Impara ad obbedire. La salvezza è nel fare tutto come vogliono loro, nei minimi particolari. Ma la routine a volte si inceppa. Basta poco. È mattina, il tandur, il forno, è acceso. Un buco profondo di argilla con il fuoco dentro, un vulcano addomesticato. Oggi tocca a Roshan fare il pane. Ha aiutato la mamma, sa come fare. La pasta, spianata, si lancia contro le pareti roventi, dove si attacca, per cuocere. Ha le lacrime agli occhi, per il fumo, per la paura di sbagliare. È inesperta e le tremano le mani.
La pasta rotola giù, sul fondo. È persa. Come lei. La suocera e il marito la buttano dentro, sulla brace. Le ustioni sono gravi ma nessuno la cura, per una settimana la pelle brucia. La famiglia di Roshan viene a saperlo. La portano in ospedale, ci rimane per mesi, sono necessarie diverse operazioni. Vede la madre solo all’inizio, due volte. Poi nessuno. Ad aspettarla, fuori dall’ospedale, c’è ancora Wasir. Il caso è liquidato: incidente. Anche la sua famiglia ritira le accuse, ha paura. Wasir ha minacciato di prendersi la terza sorella se Roshan non tornerà a casa. All’inizio le cose migliorano, ha le mani fasciate, le bende sulle gambe, non può lavorare, è inutile, la ignorano, come fosse un fantasma. I mesi passano e, lentamente, tutto ricomincia. C’è sempre un po’ d’acqua che cade dalla brocca sul pavimento, il tè troppo leggero o troppo forte, una parola inopportuna, qualche moneta persa.
Ha le mani grandi Wasir e una rabbia che scoppia come una mina, basta calpestarla per sbaglio. Nemmeno suo figlio cambierà le cose, nemmeno la bambina. Sono la sua debolezza, l’arma del ricatto. Wasir minaccia di portarglieli via se non si comporta bene. Fuori, al mercato, cammina nell’ombra di un uomo di famiglia. Gli odori, la polvere, i rumori che stordiscono, sotto il burka. Ruba immagini, cattura gesti. Forse c’è un’altra vita, oltre il cortile. Quella che cercava Amina. Resiste per i figli, fa troppo male lasciarli. Sogna, scappa via con la mente. Ma nemmeno con quella sa dove rifugiarsi. L’ultima volta che ha parlato con la vicina, ci ha rimesso due denti. A Wasir non piace. Non le permette di far visita ai suoi.
Vorrebbe vedere la madre, le sorelle. Il padre no. I giorni sono tutti uguali, come una rotaia di ferro dalla quale non si può uscire senza deragliare. Anzi no. Ci sono i giorni senza botte, i migliori. I pensieri cominciano a ingarbugliarsi. Il pianto dei bambini è insopportabile. Sembra che anche loro ce l’abbiano con lei. Una mattina, oltre il cortile, scoppiano le grida. Roshan non ne ha mai sentite così. La vicina, con cui aveva parlato, si è data fuoco. È sopravvissuta. La vede passare, il viso è una foglia secca. I pensieri impazziscono. Sparire da tutto, in una fiammata. Ci pensa, cerca la benzina, mette da parte i fiammiferi. Ma conosce già il morso del fuoco, ha paura. Forse c’è un’altra scelta, quella di Amina. Forse adesso è libera, non vuole pensare che sia morta. Il pomeriggio è caldo, tranquillo, è sola in casa. Mette a dormire i bambini, sul toshak, il cuscino fiorato, li bacia, come per sempre, infila il burka ed esce. Chiude la porta.
Ruba qualche spicciolo. I fiammiferi li ha sempre in tasca. Prende l’autobus, arriva a Kabul. Cammina fino a sfinirsi, non sa dove andare. Il buio arriva e ha paura. Si accoccola per terra, come fanno i cani. La trova la polizia. Racconta la sua storia, parole confuse, lacrime, il tremito che non dà pace. Ha fortuna, Roshan, il poliziotto è un brav’uomo. Impedisce agli altri di violentarla e la mette nella prigione temporanea, per proteggerla. La porta al Ministero per gli Affari Femminili. Viene affidata alle donne di Hawca. Con i gesti discreti, con le parole, accolgono. La portano allo «Shelter». Roshan è stordita. Il suono delle parole, diverso. Solo il suono, non riesce nemmeno a capire cosa dicono, la dottoressa, la psicologa, le insegnanti, le assistenti legali. Sono donne combattive, testarde, coraggiose. Non ne ha mai viste così.
Le ripetono che ce l’ha fatta, che è al sicuro. Quando la mente e il corpo sono più forti, le avvocatesse si danno da fare per il divorzio. Parlano con la famiglia. Il marito si oppone ma il caso sembra facile: il matrimonio prima dei 16 anni è contro la legge. Ma la legge del giudice è un’altra. Capiscono subito che è un osso duro. Wasir ha conoscenze anche a Kabul. Forse paga o minaccia o, semplicemente, trova solidarietà.«Devi restare con tuo marito anche se dovesse ammazzarti». È questo il verdetto. La sua colpa, la fuga, prevede sei mesi di prigione. Nega il divorzio e la condanna. Ma anche le donne di Hawca sono un osso duro. Ricorrono. Ci sarà un altro giudice. Se il marito è troppo crudele, il divorzio si può ottenere anche senza il suo consenso. Dove comincia il «troppo»? Wasir continua a fare pressioni sulla famiglia. Roshan non esce mai dallo «Shelter». Il suo corpo offeso la difende. I referti medici, stilati al suo arrivo, parlano chiaro. Questa volta il nuovo giudice applica la legge, concede il divorzio. Wasir è arrestato.
La porta si apre ma, di nuovo, Roshan non sa dove andare. Il padre non la vuole più. Una figlia divorziata è una vergogna. Roshan dovrà arrangiarsi. Lo farà ma le mancano i bambini. Ha diritto alla custodia dei figli, finché sono piccoli. Ma deve essere in grado di mantenerli, e, per ora, non può badare nemmeno a se stessa. Per questo rimane alla casa protetta. Tra poco arriveranno anche la madre e le due sorelle. Hanno paura di Wasir. È uscito dal carcere, dopo nemmeno un mese, e continua a minacciare. Ora è qui, Roshan, con le altre ragazze, ha 18 anni adesso. Allo «Shelter», Roshan impara a leggere e a scrivere, studia i diritti delle donne e i diritti umani, ora sa che la violenza è un delitto, impara ad amarsi, a proteggersi e a fare la sarta. È brava, le è sempre piaciuto. (fonte: http://www.unità.it/ , agosto 2010)
8 commenti:
e' una vergogna che queste cose succedano ancora oggi..... queste persone come Wasir non son umani e meritano il carcere a vita...
o il castramento.....
certe volte ringrazio Dio di non avermi fatto nascere mussulmana di quei paesi.
E dico di quei paesi perche io scrivo da Israele e ho amiche mussulmane ma trattate da regine, come deve essere oggi nel 2011!!!!
viva la liberta'
Eppure anche gli estremisti islamici (e le estremiste !), per autogiustificarsi, sostengono che le donne nell'islam vengano trattate da regine. Invece basterebbe trattarle tutte da ESSERI UMANI, appunto LIBERI E PENSANTI.
Bastardi musulmani: QUESTO è L'ISLAM!!!!
VERGOGNATEVI!!!!!!!!!
BASTARDI COMUNISTI: ECCO CHI DIFENDETE!!!!
ECCO DI CHI SIETE INNAMORATI!!!!!
Le firme, ragazzi, le firme!!!!! Entrambi non vi siete firmati!
Ale, i concetti di chi ha commentato mi sembrano chiari, perchè hai bisogno delle firme? Come dico spesso, il problema non è l'esistenza e il comportamento dei barbari. Il problema più grave è che c'è molta gente (troppa) che li sostiene
:-) Certo, hai ragione, ma sono curiosa... .
Scusate il ritardo! A me fa sorridere vedere come ogni cosa sia colpa dell'Islam. Chi ha commentato mi sa dire su quali basi islamiche consista il fatto che il porco pretende la bimba per riparare al torto subito? Un solo chiarimento e taccio...
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