La Corte d'assise d'Appello di Trieste ha condannato a 30 anni di carcere El Ketaoui Dafani, il padre della diciottenne Sanaa, uccisa il 15 settembre 2009 a Montereale (Pordenone). L'uomo era stato condannato in primo grado all'ergastolo. Il collegio giudicante ha quindi accolto la richiesta del Procuratore Generale, che aveva chiesto la riduzione di pena. "Ora decideremo se ricorrere in Cassazione", ha detto il difensore dell'uomo.
Il difensore dell'uomo, Marco Borella, si è detto "dal punto di vista professionale abbastanza soddisfatto in quanto, come chiedevamo noi, è stata riconosciuta la continuazione dei vari reati, circostanza che ha permesso di scongiurare l'ergastolo. Ora leggeremo le motivazioni e fra 90 giorni decideremo se proporre un ricorso per Cassazione. Va comunque rilevato che la sentenza conferma la richiesta di una pena più ragionevole".
"La sentenza - ha concluso Borella - mi convince sempre di più sul fatto che su questa tipologia di reato l'organo giudicante collegiale deve essere imposto per legge: un giudice singolo non può, com'è avvenuto in primo grado, decidere per delitti di questo impatto emotivo e mediatico".
Carfagna: "Sentenza storica, giustizia è fatta"
"Giustizia è fatta: il padre assassino di Sanaa è stato condannato ad una pena severa e giusta". E' questo il commento del ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna. "Le istituzioni - continua la Carfagna - stanno in maniera netta dalla parte delle vittime e un processo come quello che si è appena concluso dimostra che le giovani immigrate si possono fidare del nostro Paese, possono denunciare i loro aguzzini e riprendersi la libertà che qui viene loro riconosciuta, devono farlo prima che sia troppo tardi". (Fonte: http://www.tgcom.mediaset.it/ ,
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venerdì 28 gennaio 2011
DELITTO SANAA, 30 ANNI AL PADRE. TRIESTE, RIDOTTA LA PENA IN APPELLO
giovedì 27 gennaio 2011
OMICIDIO SANAA: FISSATO L'AVVIO DELL'APPELLO A TRIESTE
Il processo d’appello per l’omicidio di Sanaa Dafani comincerà, in Corte d’assise d’appello di Trieste (a porte chiuse) il 28 gennaio 2011 alle 9. A giudicare El Ketaoui Dafani, il 46enne padre della ragazza “rea” di amare un italiano (il ristoratore di Montereale Valcellina Massimo De Biasio), sarà, in camera di consiglio, la corte composta da due giudici togati (presidente e relatore Piervalerio Reinotti – lo stesso che si occupò del delitto Cauz –, consigliere Fabrizio Rigo) e sei giudici popolari.
A presentare appello contro la sentenza di primo grado (il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Pordenone Patrizia Botteri condannò, il 14 giugno scorso, il cuoco marocchino all’ergastolo) sono stati i legali di Dafani, gli avvocati Marco Borella del foro di Venezia e Leone Bellio del foro di Pordenone, con due distinti atti. Entrambi, con diverse sfumature, tendono a smontare la premeditazione del delitto, aggravante preponderante nella determinazione del carcere a vita. In più, Bellio chiede l’esclusione dal processo delle parti civili: la Regione, la Provincia di Pordenone e Acmid Donna (associazione comunità marocchina delle donne in Italia) in quanto carenti di legittimazione ad agire, con la revoca delle relative concessioni risarcitorie (a tutte il gup aveva concesso simbolicamente un euro). E’ un’istanza che era stata avanzata anche in primo grado, respinta dal gup. (http//www.ricerca.geolocal.it , 19/12)
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PICCHIA LA MOGLIE CHE GLI CHIEDE I SOLDI DELLA SPESA: MAROCCHINO ARRESTATO A GRAVINA
Un uomo di 32 anni, di nazionalità marocchina, è stato arrestato dai carabinieri a Gravina in Puglia per il reato di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali. Ieri sera, l’uomo avrebbe picchiato la moglie 21enne, anche lei marocchina, colpevole di avergli domandato una volta di troppo i soldi per fare la spesa. La donna, medicata in ospedale, guarirà in una decina di giorni. (Fonte: http://www.telesveva.it/ , 22/1)
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domenica 23 gennaio 2011
PAKISTAN, DONNE CONTRO LA POLIGAMIA PICCHIANO IL MARITO IN PUBBLICO
PUNJAB – La poligamia può riservare brutte sorprese. Mian Ishaq, pakistano della provincia di Punjab, è sposato con tre donne. Lunedì 3 gennaio si presenta, accompagnato dalla terza consorte, al matrimonio di un amico. Qui ad attenderlo ci sono le prime due mogli. «Sappiamo che vuoi sposarti per la quinta volta e che ne hai una quarta nascosta», accusano urlando Mehvish e Uzma. «Meriti di essere umiliato in pubblico per il tuo comportamento». Le donne schiaffeggiano il marito e, una volta a terra, lo pestano con le scarpe. Dopo fanno irruzione nella sala e ribaltano i tavoli. «Sono tutte bugie», prova a giustificarsi l’uomo. «Giuro sulla mia vita di avere solo tre donne».
Qui il video:
http://www.youtube.com/watch?v=7RMCZwy4HIg
(Fonte: http://lafinestrasulfronte.wordpress.com/ )
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venerdì 21 gennaio 2011
PROPRIETA' PRIVATA DELL'UOMO, ECCO LA DONNA VISTA DALL'ISLAM
Hina Saleem
Giommaria Monti, Marco Ventura Hina. Questa è la mia vita (Piemme, pp. 308, e 16)
«Io in Pakistan sarei stato condannato, ma non a trent’anni. A trenta non è giusto. Ho ucciso mia figlia, ma questa è "mia"figlia» . Cinque anni dopo avere sgozzato Hina da orecchio a orecchio, come un capretto, Muhammad Saleem non è per niente convinto d’aver fatto una cosa mostruosa. E non si dà pace. Non si dà pace perché lì in galera non può assolvere il suo dovere di capofamiglia con la moglie e i bambini piccoli. Perché ha coinvolto nel delitto Zahid e Khalid, i fratellastri che aveva preso come mariti per le altre figlie. Perché non si perdona di essere venuto via dal suo Paese per trovare un lavoro in una fonderia bresciana: «In Pakistan non sarebbe successo, perché non c’è discoteca, non c’è la donna libera, non come qua, non così» . Nossignore: «Una libertà così non va bene, troppa libertà per la donna. Anche per l’uomo» . Il rimorso, però, no. Questa è la certezza, sconvolgente, che dà la lettura della sua prima intervista. Concessa nel carcere di Ivrea a Giommaria Monti e Marco Ventura. Due giornalisti dai percorsi diversi, il primo a lungo collaboratore di Michele Santoro, il secondo inviato del «Giornale» e successivamente nello staff di Palazzo Chigi, uniti dalla voglia di capire che cosa accadde quell’ 11 agosto 2006 a Zanano di Sarezzo, nella bassa Val Trompia. E autori del libro Hina. Questa è la mia vita (Piemme, pp. 308, e 16) che, in libreria da domani, ricostruisce «come» lo scontro frontale fra due mondi inconciliabili, «quello cristallizzato del padre e quello magmatico della figlia adolescente in una società come quella bresciana dove tutti lavorano e gli "estra"producono una ricchezza calcolata in quattro miliardi di euro l’anno» , sfociò in un omicidio terribile che scosse l’Italia. È un detenuto modello, Muhammad: «Sembra l’uomo più pacifico del mondo, incapace di fare del male. Sembra l’incarnazione del padre buono e severo per il quale esistono solo il lavoro, la famiglia e la moschea» . Esattamente come lo ricorda il maresciallo dei carabinieri Antonio Indennitate: «Mai uno scatto d’ira o una parola fuori posto. Un capofamiglia, una persona rispettata. Era uno che nella comunità pachistana riscuoteva molto rispetto e molta stima» . Uno «autorevole» . Al punto che la vicina di casa che la sera del delitto vide i generi di Saleem scavare nell’orto come se dovessero seppellire una bestia, ricorderà che lui non scavava: dirigeva. In realtà, scrivono Monti e Ventura, Muhammad Saleem «è due volte prigioniero: del carcere e della sua tradizione» . E se vogliamo pure del ruolo che, su consiglio degli avvocati, si è cucito addosso. All’inizio, quando si presentò ai carabinieri del paese, disse: «Maresciallo Antonio, ora sono in pace con me stesso, ho ritrovato la mia tranquillità» . Ora no. Continua a ripetere che era accecato «dalla vergogna» : «Non volevo ucciderla. Non volevo ucciderla» . E spiega che no, per carità, lui non ha «mai picchiato i bambini» . Neanche Hina? «Non l’ho mai picchiata» . Il bastone? «Non c’era nessun bastone» . Come poteva? «Io sono un bravo padre» . La figlia aveva paura di lui? «Non capisco» . E giura: «Mai, mai ho sbagliato con Hina. Mai. Io non volevo che mia figlia fosse troppo libera, che si drogasse...» . Dice che gli hanno dato trent’anni («mi piace di più la condanna a morte» ) perché tante persone «odiano i musulmani, vogliono togliergli la libertà, non so perché, forse perché c’è il terrorismo» . Anche se, assicura, la religione «non c’entra» . Dice che quel giorno è successo tutto per sbaglio, che litigarono perché la figlia «voleva mille euro» , che fu lei a tirar fuori il coltello e che lui glielo strappò e poi tutto è confuso nella sua memoria. Ma al processo, ricordano Monti e Ventura, il pm Paolo Guidi ammonì: «Le è stato impedito per sempre di parlare e di vivere, ma il suo corpo parla e dice l’ultima parola. Un corpo martoriato da più persone che l’hanno aggredita col solo e unico scopo di ucciderla» . L’autopsia non lasciò dubbi: «Nove ferite al collo, sette al volto, otto all’arto superiore destro, due all’arto superiore sinistro e due alla superficie anteriore del torace» . Più di ogni altra cosa, parlava «una tipica lesione da "sgozzamento"o "scannamento"» . Lui sospira: «Tutta la vita sempre ho rigato dritto, non ho rubato, mai fregato. Questa Italia ci ha rovinato, ha rovinato tutto, ha ammazzato tutta la mia famiglia. Senza padre e senza marito, sono morti anche loro» . Quando la moglie Bushra va a trovarlo, dice, non parlano «mai di Hina perché fa male, fa sempre male» . L’orrore, il sangue, la riprovazione morale, il processo, la condanna, la detenzione, il confronto con gli altri detenuti non hanno spostato di un millimetro la sua visione del mondo, della vita, dei valori. Imbullonata al Pakistan, al rigido e rassicurante piccolo mondo antico di Gujrat, alla religione, che con bizzarro strafalcione chiama «regione» : «Io non la mandavo in piscina, è vero. In piscina non ci andava perché per la nostra regione non si può» . Fine. Certo, fu «giusto mandarla a scuola, però la scuola le ha cambiato la vita. Voleva vivere come le sue amiche, questa è la verità. Io non volevo e lei voleva» . Maledetta scuola: «Prima era molto, ma molto brava» , ma «quando ha cominciato le superiori ha cambiato cervello» . Aveva tutto chiaro, lui: «Ho scelto io i mariti delle mie figlie. Glieli ho presentati io. Anche io e Bushra ci siamo sposati così, e prima di noi i nostri genitori» . Perché cambiare? Anche a Hina aveva pensato: «Avevamo scelto un cugino» . Lei disse no. E forse anche quella volta buttò in faccia a suo padre quella frase che Muhammad non poteva capire e che dà il titolo al libro: «Questa è la mia vita» . Dice che non sa perché ha voluto seppellirla nell’orto: «Nella mia mente c’era solo che mia figlia era tornata a casa. Quando è morta pensavo solo a questo, ad averla vicina, a casa mia (...) pensavo solo: ecco, è tornata, è di nuovo a casa» . Proprietà privata. (Fonte: http://www.informazionecorretta.it/ , 17/1)
mercoledì 19 gennaio 2011
TUTTI CONTRO HIRSI ALI. SUBMISSION II NON SI FARA'. SHARI'A VINCE

Adesso la sceneggiatrice di quel film maledetto e così discusso, Ayaan Hirsi Ali, annuncia ad Amsterdam che non si farà il sequel, dal titolo “Submission II”. “E’ troppo rischioso”, ha scandito la dissidente islamica oggi riparata negli Stati Uniti e autrice di best seller internazionali sull’islam.
Non c’è soltanto un problema di sicurezza, altissimo, visto che tanti, troppi vignettisti, artisti e giornalisti sono stati minacciati di morte dopo il caso Van Gogh in tutta Europa.
C’è anche un problema di costi: “I produttori, il cast e gli attori dovrebbero rimanere anonimi”. Il che rende la produzione “impossibile Il produttore del film, Gijs van de Westerlaken, parla di “una specie di autocensura collettiva dettata dalla paura”.
Se il primo “Submission” non lo trasmette ormai più nessuno, non le televisioni, non i festival di cinema (bisogna spulciare su Internet per vedere il cortometraggio), il sequel è morto sul nascere, dopo anni di scrittura e di ricco gossip attorno alla pellicola.
Si sa che la sceneggiatura prevedeva come tema gli uomini nell’islam: un antisemita, un omosessuale, un bon vivant assimilato all’occidente ricco e secolarizzato, per finire con un aspirante kamikaze. Allah avrebbe parlato direttamente.
Ce n’era abbastanza per scatenare un’altra ondata di minacce e odio. “Nel film i gay saranno chiamati creature di Dio”, aveva detto Hirsi Ali, la cui denuncia sulla condizione della donna musulmana ha fatto sì che la comunità islamica la consideri “apostata”.
Per bloccare la produzione del sequel era intervenuto anche il presidente del Parlamento iraniano, Gholam Ali Haddad Adel, che aveva chiesto ai paesi islamici di mobilitarsi per bloccare la produzione della seconda parte del film, in quanto rappresenterebbe “un pericolo per la religione islamica e un nuovo attacco contro i musulmani dopo la pubblicazione delle vignette offensive del profeta in numerosi quotidiani europei”.
Nei giorni scorsi il Fiqh, il grande giureconsulto di esperti islamici, a nome della Muslim World League aveva annunciato la condanna di ogni pellicola che avesse ritratto Maometto o Allah. Dopo l’uccisione dell’amico Van Gogh, Ayaan Hirsi Ali aveva detto, a domanda su chi sarebbe stato il regista del sequel: “Non posso rivelarlo. Sarà anonimo, come tutto il cast. L’unico nome che leggerete sarà sempre e soltanto il mio”. Non vedremo neppure quello. (Fonte: http://www.informazionecorretta.it/ , 15/1)
lunedì 17 gennaio 2011
AFGHANISTAN, LA BATTAGLIA DI ROSHAN SPOSA A DIECI ANNI NELLA CASA DELL'ORRORE
I muri della famiglia sono ancora più soffocanti. A loro piace umiliarla, per quell’ombra di vergogna che si porta addosso per la fuga della sorella. Impara ad obbedire. La salvezza è nel fare tutto come vogliono loro, nei minimi particolari. Ma la routine a volte si inceppa. Basta poco. È mattina, il tandur, il forno, è acceso. Un buco profondo di argilla con il fuoco dentro, un vulcano addomesticato. Oggi tocca a Roshan fare il pane. Ha aiutato la mamma, sa come fare. La pasta, spianata, si lancia contro le pareti roventi, dove si attacca, per cuocere. Ha le lacrime agli occhi, per il fumo, per la paura di sbagliare. È inesperta e le tremano le mani.
La pasta rotola giù, sul fondo. È persa. Come lei. La suocera e il marito la buttano dentro, sulla brace. Le ustioni sono gravi ma nessuno la cura, per una settimana la pelle brucia. La famiglia di Roshan viene a saperlo. La portano in ospedale, ci rimane per mesi, sono necessarie diverse operazioni. Vede la madre solo all’inizio, due volte. Poi nessuno. Ad aspettarla, fuori dall’ospedale, c’è ancora Wasir. Il caso è liquidato: incidente. Anche la sua famiglia ritira le accuse, ha paura. Wasir ha minacciato di prendersi la terza sorella se Roshan non tornerà a casa. All’inizio le cose migliorano, ha le mani fasciate, le bende sulle gambe, non può lavorare, è inutile, la ignorano, come fosse un fantasma. I mesi passano e, lentamente, tutto ricomincia. C’è sempre un po’ d’acqua che cade dalla brocca sul pavimento, il tè troppo leggero o troppo forte, una parola inopportuna, qualche moneta persa.
Ha le mani grandi Wasir e una rabbia che scoppia come una mina, basta calpestarla per sbaglio. Nemmeno suo figlio cambierà le cose, nemmeno la bambina. Sono la sua debolezza, l’arma del ricatto. Wasir minaccia di portarglieli via se non si comporta bene. Fuori, al mercato, cammina nell’ombra di un uomo di famiglia. Gli odori, la polvere, i rumori che stordiscono, sotto il burka. Ruba immagini, cattura gesti. Forse c’è un’altra vita, oltre il cortile. Quella che cercava Amina. Resiste per i figli, fa troppo male lasciarli. Sogna, scappa via con la mente. Ma nemmeno con quella sa dove rifugiarsi. L’ultima volta che ha parlato con la vicina, ci ha rimesso due denti. A Wasir non piace. Non le permette di far visita ai suoi.
Vorrebbe vedere la madre, le sorelle. Il padre no. I giorni sono tutti uguali, come una rotaia di ferro dalla quale non si può uscire senza deragliare. Anzi no. Ci sono i giorni senza botte, i migliori. I pensieri cominciano a ingarbugliarsi. Il pianto dei bambini è insopportabile. Sembra che anche loro ce l’abbiano con lei. Una mattina, oltre il cortile, scoppiano le grida. Roshan non ne ha mai sentite così. La vicina, con cui aveva parlato, si è data fuoco. È sopravvissuta. La vede passare, il viso è una foglia secca. I pensieri impazziscono. Sparire da tutto, in una fiammata. Ci pensa, cerca la benzina, mette da parte i fiammiferi. Ma conosce già il morso del fuoco, ha paura. Forse c’è un’altra scelta, quella di Amina. Forse adesso è libera, non vuole pensare che sia morta. Il pomeriggio è caldo, tranquillo, è sola in casa. Mette a dormire i bambini, sul toshak, il cuscino fiorato, li bacia, come per sempre, infila il burka ed esce. Chiude la porta.
Ruba qualche spicciolo. I fiammiferi li ha sempre in tasca. Prende l’autobus, arriva a Kabul. Cammina fino a sfinirsi, non sa dove andare. Il buio arriva e ha paura. Si accoccola per terra, come fanno i cani. La trova la polizia. Racconta la sua storia, parole confuse, lacrime, il tremito che non dà pace. Ha fortuna, Roshan, il poliziotto è un brav’uomo. Impedisce agli altri di violentarla e la mette nella prigione temporanea, per proteggerla. La porta al Ministero per gli Affari Femminili. Viene affidata alle donne di Hawca. Con i gesti discreti, con le parole, accolgono. La portano allo «Shelter». Roshan è stordita. Il suono delle parole, diverso. Solo il suono, non riesce nemmeno a capire cosa dicono, la dottoressa, la psicologa, le insegnanti, le assistenti legali. Sono donne combattive, testarde, coraggiose. Non ne ha mai viste così.
Le ripetono che ce l’ha fatta, che è al sicuro. Quando la mente e il corpo sono più forti, le avvocatesse si danno da fare per il divorzio. Parlano con la famiglia. Il marito si oppone ma il caso sembra facile: il matrimonio prima dei 16 anni è contro la legge. Ma la legge del giudice è un’altra. Capiscono subito che è un osso duro. Wasir ha conoscenze anche a Kabul. Forse paga o minaccia o, semplicemente, trova solidarietà.«Devi restare con tuo marito anche se dovesse ammazzarti». È questo il verdetto. La sua colpa, la fuga, prevede sei mesi di prigione. Nega il divorzio e la condanna. Ma anche le donne di Hawca sono un osso duro. Ricorrono. Ci sarà un altro giudice. Se il marito è troppo crudele, il divorzio si può ottenere anche senza il suo consenso. Dove comincia il «troppo»? Wasir continua a fare pressioni sulla famiglia. Roshan non esce mai dallo «Shelter». Il suo corpo offeso la difende. I referti medici, stilati al suo arrivo, parlano chiaro. Questa volta il nuovo giudice applica la legge, concede il divorzio. Wasir è arrestato.
La porta si apre ma, di nuovo, Roshan non sa dove andare. Il padre non la vuole più. Una figlia divorziata è una vergogna. Roshan dovrà arrangiarsi. Lo farà ma le mancano i bambini. Ha diritto alla custodia dei figli, finché sono piccoli. Ma deve essere in grado di mantenerli, e, per ora, non può badare nemmeno a se stessa. Per questo rimane alla casa protetta. Tra poco arriveranno anche la madre e le due sorelle. Hanno paura di Wasir. È uscito dal carcere, dopo nemmeno un mese, e continua a minacciare. Ora è qui, Roshan, con le altre ragazze, ha 18 anni adesso. Allo «Shelter», Roshan impara a leggere e a scrivere, studia i diritti delle donne e i diritti umani, ora sa che la violenza è un delitto, impara ad amarsi, a proteggersi e a fare la sarta. È brava, le è sempre piaciuto. (fonte: http://www.unità.it/ , agosto 2010)
sabato 15 gennaio 2011
E PARLIAMO DI RUBY E BERLUSCONI... .
La giovane marocchina racconta delle cene a casa del premier: "Non ho mai fatto uscire io la storia del Bunga-Bunga. Posso capire Barbara Berlusconi se parla male di me".
Roma, 14 gennaio 2011 - "Per come l’ho conosciuto io, in quelle tre sere, credo di aver visto un uomo non tanto felice. I soldi e la carriera non sono tutto nella vita, anzi quando uno ha tanti soldi non ha più desideri". Questa la descrizione del premier Silvio Berlusconi da Kharima el Marhoug, meglio conosciuta come Ruby Rubacuori.
In un'intervista rilasciata a Repubblica.it, la giovanissima marocchina spiega che il Cavaliere è "una persona che soffre molto di solitudine, non è tanto felice. Mi permetto di dire che ha trascurato la famiglia, ha fatto un disastro".
Ruby aggiunge che, quella sera in questura a Milano, Berlusconi "mi ha fatto un favore della Madonna, mi ha aiutato moltissimo, gli posso essere grata a vita". Certo, ha aggiunto la ragazza, "visto con gli occhi degli italiani che sono in difficoltà e in miseria (siccome per ogni problema è sempre colpa del governo), vedendo come si è comportato con me e come in diverse altre situazioni non si comporta può sembrare ingiusto". Ruby spiega anche di non aver più visto il premier né di averlo più sentito per telefono.
E la storia del Bunga-Bunga? "Non ho mai fatto uscire io la storia. Neanche nell’inchiesta. I giudici mi avevano fatto la domanda sul caso di presidente perché l’hanno saputo per via che il mio cellulare era ad Arcore", prosegue Ruby. "’Del Bunga-Bunga non sapevo niente - prosegue - oltre alla barzelletta che conoscete perché l’ha raccontata anche Noemi Letizia. Una barzelletta che ci ha fatto molto ridere e poi i balletti delle ragazze, ma niente di che".
Ruby risponde anche in merito alle sue serate ad Arcore. "Ci sono stata tre volte, sempre per una cena normale, fatta con tutto a base tricolore visto che lui ama tanto la sua patria. Credo che mangi sempre tricolore". Le serate "si svolgevano in modo molto formale, c'era la cena, poi il presidente che cantava con Apicella, le sue barzellette. L’unica stranezza è il fatto che ti trovi in casa del presidente".
Spiega che donne, a quelle serate, ce n'erano "di tutti i tipi e anche conosciute ma non faccio nomi. Uomini conosciuti? Emilio Fede, una volta, Lele Mora un’altra". Ma puntualizza: "Non ho visto escort, ho visto ragazze normali durante una cena normale".
Al giornalista che le chiede cosa ne pensi delle dichiarazioni sul suo conto espresse dalla figlia del premier Barbara Berlusconi risponde: "Se ha parlato male di me, credo sia comprensibile...". "Se dice certe cose la posso capire - dice ancora -. D’altra parte io sono la ragazza che fa tremare il governo, che fa cadere il governo. Quanta gente mi stringe le mani e mi dice ‘fai cadere il governo che non lo vogliamo più. La posso capire ma non mi conosce come io non la conosco".
A VANITY FAIR - “Ho avuto paura di essere fatta fuori. Ho avuto paura di fare la fine della transessuale di Roma”, racconta invece la stessa Ruby a Vanity Fair. Lo scorso autunno, dopo lo scoppio dello scandalo, la ragazza ha temuto di finire come Brenda, la transessuale testimone chiave dello scandalo di sesso e droga che costrinse alle dimissioni, nel 2009, il governatore del Lazio Piero Marrazzo, e poi misteriosamente morta in un incendio che molti non hanno mai considerato accidentale. L’intervista esclusiva a Vanity Fair sarò sul numero in edicola da mercoledì 19 gennaio. ( http://www.qn.quotidiano.net/)
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venerdì 14 gennaio 2011
LA FAMIGLIA DELLA "PRIMA DAMA" TUNISINA LEILA TRABELSI BEN ALI CONTROLLA TUTTA L'ECONOMIA DELLA TUNISIA
"Quando si acquista un computer, un telefono cellulare, una macchina o dentifricio, è ciò che stai acquistando alla famiglia", ha detto Rim Ben Smail, docente di Economia dell'Università di Tunisi. Trabelsi. E'un nome che conviene pronunciare a voce bassa per le sorvegliatissime strade di Tunisi. È il cognome della moglie del presidente Zine el Abidine Ben Ali, associato alla cleptocrazia che - secondo tutte le denunce dei cittadini non collegati con il partito al potere - è diventato il regime.
La Tunisia è un paese prospero rispetto al consueto in Nord Africa. Il turismo, il settore tessile, manifatturiero, i fosfati hanno promesso un futuro luminoso. Fino alla crisi mondiale esplosa nel 2008. Da allora, il prospero avvenire è sfumato. Perché alla crisi finanziaria globale si è sommato un processo di privatizzazione che, iniziato lentamente a metà degli Anni Ottanta, è degenerato in una enorme concentrazione di potere economico nelle tasche di pochi: i Trabelsi, e soprattutto in quelle di Sajer el Materi, il genero non ancora trentenne di Ben Ali.
La corruzione dilagante e la disoccupazione sono la causa dei guai. "Le grandi aziende sono passate in troppo poche mani, quelle dei Trabelsi e altri vicino alla famiglia del presidente e all'Assemblea Costituente Democratica, il partito di Ben Ali. Hanno espropriato le imprese sostenendo che fosse interesse nazionale per darle alla famiglia. Ora stanno speculando. Comprano aziende a prezzi bassi e rivenduti ad enormi profitti dopo aver licenziato i dipendenti. C'è un'enorme concentrazione di ricchezza, ma senza redistribuzione, come prima. Tutto quello c'è sono le associazioni di solidarietà. Chi le controlla? La famiglia del presidente e del partito ", dice Buzaina Fersiu, professoressa di Economia presso l'Università di Tunisi. O sei compatibile o sei fuori da ogni sostegno istituzionale. (Da: "El Paìs", 13/1)
Le banche, le stazioni radio, grandi centri commerciali ora protetti dall'esercito dell'esercito - è stato incendiato un supermercato Monoprix, di proprietà di Trabelsi, ad Elaouina, un sobborgo della capitale - concessionarie d'auto, interessi immobiliari. I Trabelsi sono coinvolti in tutto. Dicono molti docenti, spesso con sporchi trucchi. "Quando sanno di un'impresa di successo, sostengono di essere partner", dice Ben Smail. Meglio accettarli.
Ma ci sono ulteriori insidie. "La crisi globale del 2008 ha avuto un impatto sul turismo e il settore tessile e altri settori hanno poco valore. Inoltre, abbiamo avuto molte industrie, ma l'aumento dei prezzi delle materie prime e la concorrenza dei prodotti meno costosi, provenienti da altri paesi hanno interessato molti settori ", dice Fersiu. E, naturalmente, i disoccupati. La disoccupazione è al 13%, ma i dati offerti dalla docente sono scioccanti: "Circa il 30% dei giovani non trova lavoro, e tale percentuale sale al 60% tra i laureati." E quando lo trovano, è difficile che valga la pena accettare. Lo stipendio di un professore universitario è di circa 700 euro, ma ci sono laureati che vanno a lavorare per 150 euro al mese.
"Dobbiamo contare sulle nostre forze per annientare Cosa Nostra, la mafia che ci governa, perché alla fine lasciano il paese".
mercoledì 12 gennaio 2011
LA GENERALESSA DI KABUL: "COSI' SFIDO I TALEBANI"
Il generale delle truppe speciali Khatool Mohammadzai ha 45 anni. E' una paracadutista con 572 lanci alle spalle e indossa l'uniforme dell'esercito afgano da oltre un quarto di secolo. Ed è una donna. Una specie di miracolo nell'Afghanistan di oggi che, a dispetto di quanto viene spesso raccontato, non ha fatto grandi passi nel campo dell'emancipazione femminile e resta un Paese in cui alle donne, salvo rare eccezioni, è concesso mostrarsi in pubblico solo se ammantate dal burqa di ordinanza. Mohammadzai, unica generalessa afgana, non ha mai posseduto un burqa. Ed è difficile immaginare che qualcuno possa obbligarla a indossarlo: non fosse altro per il fatto che è cintura nera di tre arti marziati e pericolosamente abile nel maneggiare pistola, fucile e armi bianche.
Non esattamente lo stereotipo della casalinga afgana media.
Del resto, nemmeno trent'anni fa Mohammadzai era la tipica adolescente afgana: piuttosto, come si definisce essa stessa, "una vero maschiaccio" che praticava sport di ogni tipo, si accapigliava con i bulli del quartiere in una zuffa, e nel frattempo arrivava a iscriversi alla facoltà di legge dell'Università Jamal Mena di Kabul, per poi arruolarsi nell'esercito a nemmeno vent'anni con la benedizione dei genitori. Una foto degli anni '80 la ritrae in uniforme da parata, una selva già folta di medaglie appuntate al petto, un'incredibile chioma di riccoli castani e le mani ornate da spettacolari e poco tattiche unghie smaltate di rosso. Ma si tratta di una rappresentazione parziale della realtà: perchè erano comunque gli anni '80, l'Afghanistan era devastato dalla guerra sovietica e anche se Mohammadzai non ha mai partecipato a combattimenti attivi, il conflitto le aveva già portato via due fratelli e il marito che "morì quando nostro figlio aveva esattamente quaranta giorni di vita", ricorda. Poi la perdita dei ricordi, dopo che un missile si schianto sulla sua casa.
Negli anni successivi le cose non fecero che peggiorare: come, del resto, per la maggior parte degli afgani. Con la presa del potere da parte dei talebani, nel 1996, Mohammadzai si ritrovò a vivere segregata in casa, riparata alla meglio dopo i bombardamenti, costretta a fare una vita da reclusa. "oltre alla grettezza dei talebani, la cosa che più mi faceva soffire era non poter indossare la mia uniforme e andare in caserma ogni mattina".
Mohammadzai è tornata in servizio soltanto nel 2003, dopo la caduta del regime integralista. Il presidente Hamid Karzai è intervenuto personalmente per una sua promozione a generale e l'ha nominata responsabile dei gruppi sportivi dell'esercito.
Quando sono entrato per la prima volta nel suo ufficio al ministero della Difesa, Mohammadzai ha abbandonato la scrivania per venire a stringermi la mano (in Afghanistan evento più unico che raro con un uomo), con un sorriso disarmante che brillava dal basso del suo metro e cinquanta e in qualche modo strideva con la tuta mimetica, le decorazioni e i brevetti appuntati sul petto e il fatto che la vita le abbia tolto tutto, famiglia, marito, casa, lavoro per giocare a restituirle i pezzi a rate.
La prima cosa che la generalessa ha fatto, come è normale in Afghanistan, è stato far preparare il tè dal suo attendente. La seconda, mostrarmi una dopo l'altra le sue cicatrici e raccontarmi della volta che, in caduta libera, il paracadute principale non si aprì, e quello di emergenza si dispiegò solo tre secondi prima di toccare il suolo. "Da allora per me ogni giorno è un dono".
Anche gli attentati hanno segnato la sua vita: due volte cercarono di avvelenarle il pasto (da allora fa sempre assaggiare prima i piatti all'attendente) all'interno del complesso del ministero. Un'altra ci provarono infilandole chiodi avvelenati negli scarponi che aveva lasciato fuori dalla porta. "Nell'esercito sono in molti a invidiarmi per il semplice fatto di essere una donna con i gradi di generale, anche al punto di volermi morta. L'Afghanistan era molto più civilizzato trent'anni fa, non c'era questa ignoranza diffusa nella classe politica. E le donne contavano".
La generalessa è cosciente di essere un modello per tutte le donne afghane "Ma è proprio questo il problema. Se la donna godesse di pari opportunità, non avrebbe bisogno di un simbolo come me".
E' chiaro che l'argomento la irrita. Mohammadzai è una femminista convinta, ed è fin troppo consapevole che non c'è arma o tattica da comando che garantisca alle donne come lei una vittoria-lampo contro le tradizioni secolari dell'Afghanistan.
Questa consapevolezza sembra renderla più vulnerabile quando è a casa, un appartamento di tre stanzucce in un malconcio condominio di periferia. Di ritorno dal suo ufficio, sale le scale, entra toglie anfibi e uniforme e indossa un abito tradizionale e il velo. Come se, in abiti civili, sentisse d'un tratto il bisogno di nascondere alla vista dell'ospite occidentale quei capelli che fino a un attimo fa sfoggiava sotto il basco rosso.
Animata da improvvisa vanità, si guarda allo specchio, sospira, si lamenta di sembrare più vecchia dei suoi anni: "Come tutti gli afghani: è quel che succede quando nella vita non hai fatto altro che soffrire". (Fonte: Settimanale "Gente" (11/1/2011)
martedì 11 gennaio 2011
PAKISTAN: FATWA CONTRO LA DEPUTATA
Sherry Rehman aveva proposto modifiche alla legge su blasfemia.
(ANSA) - ISLAMABAD, 10 GEN - La deputata liberale pachistana Sherry Rehman, che aveva presentato in Parlamento una proposta di modifica della legge sulla blasfemia, e' stata colpita da una 'fatwa' degli integralisti islamici. L'ex ministro dell'Informazione e' stata dichiarata infedele da un imam di Karachi, venerdi' scorso. La Rehman, ex collaboratrice di Benazir Bhutto, temeva per la sua incolumita' ed era stata rafforzata la scorta davanti casa a Karachi. Le e' stato suggerito anche di lasciare il Paese.
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domenica 9 gennaio 2011
RAJAE BEZZAZ LA MUSULMANA IN ARRIVO AL GRANDE FRATELLO
La fanciulla, musulmana praticante, risponde al nome di Rajae Bezzaz. Il suo nome vi dirà poco, se non addirittura nulla, ma sappiate che l’avvenente ragazza ad appena 21 anni ha già all’attivo partecipazioni al cinema (l’ultima nel campione di incassi Maschi contro Femmine) e, udite udite, quest’estate è finita sui giornali per un presunto flirt con un uomo molto (o forse molto tristemente) famoso. Si mormorava, infatti, che Rajae avesse preso il posto di Belen Rodriguez nel cuore di Fabrizio Corona. Da 13 anni in Italia, Rajae è musulmana praticante ma non per questo porta il burqa o obbedisce ciecamente ai dogmi religiosi. Oltre a dizione e recitazione, Rajae studia all’Università di Bologna.
Bella lo è e forse anche brava, ma chi pensava che per risollevare gli ascolti Grande Fratello avrebbe puntato sulla semplicità e sulla spontaneità dei concorrenti delle prime edizioni rimarrà deluso. Perchè Rajaee para nasconda obiettivi ben più ambiziosi di quelli legati del gioco. (Fonte: http://www.davidemaggio.it/ , 8/1)
AGGUATO ALL'AUTORE DEL LIBRO SU UNA SCIITA
ROMA - Nello Rega era solo in macchina la notte della Befana. Tornava da una serata con amici, nel Materano. Non si può certo dire che ci sia un gran via vai la notte sulla statale Basentana. L' auto che ha speronato Nello Rega, inviato di Televideo Rai, ha potuto fare le sue manovre senza essere vista da nessuno. Erano a pochi chilometri da Potenza. Il proiettile è partito subito dopo: un colpo. È andato a sbattere sui vetri posteriori della macchina di Nello Rega, perché il giornalista ha spinto il pedale dell' acceleratore in una fuga disperata. È andata. Nello Rega è arrivato sano e salvo a una stazione dei carabinieri. «Ma chi ha sottovalutato il pericolo che correvo ora deve fare un esame di coscienza», dice ora il giornalista, assai preoccupato. Non è la prima disavventura che gli capita. Tutto comincia nel settembre del 2009, quando arriva in libreria il suo libro «Diversi e divisi», un testo che parla della convivenza tra islamici e cristiani attraverso il racconto della storia d' amore durata tre anni con una donna sciita, Amira. «Subito prima della presentazione del libro ricevetti a casa una busta con dentro due proiettili», racconta Nello Rega, segnalando che questo è stata la prima di una lunga serie di minacce che non lo hanno mai più abbandonato. Una serie macabra di avvertimenti sulla quale Nello Rega non ha alcun dubbio. «Sono tutte quante opera di Hezbollah. Me l' hanno giurata per quello che ho scritto e sostengo nel mio libro». Una serie macabra di avvertimenti che hanno fatto alzare il livello della paura e hanno fatto chiedere da più parti una scorta per Nello Rega.
Le lettere 1 La busta con i proiettili Nel 2009 Rega trova una busta sul parabrezza dell' auto, a Roma: dentro, due proiettili e un foglio scritto al computer. «Nello Rega sei morto questi sono per te e subbito (sic) lo facciamo... Allah e Hezbollah hanno deciso di farti morire» 2 La seconda missiva a Potenza Una seconda busta viene invece recapitata a casa della madre del giornalista, a Potenza: due proiettili, altre minacce, la fotocopia della copertina del libro. Il giornalista ha anche trovato una propria foto infilata sotto la porta di casa, con la scritta «morirai». (Fonte: http://www.corriere.it/ , 8/1)
Primo fra tutti Vannino Chiti, vice presidente del Senato del Pd: «I colpi di pistola contro l' auto di Nello Rega sono una minaccia seria e concreta a un uomo da tempo impegnato sul fronte del dialogo interreligioso». Antonio Bagnardi, direttore di Televideo Rai, ha lanciato invece un appello al ministro degli Interni Roberto Maroni perché garantisca la sicurezza del suo giornalista. A occuparsi della sicurezza di Nello Rega anche Mauro Masi, direttore generale della Rai: ieri nel pomeriggio ha telefonato per questo al direttore di Televideo. Si sono associati alla richiesta di protezione di Nello Rega anche il senatore del Pd Vincenzo Vita, quello dell' Idv Felice Belisario e il deputato Beppe Giulietti, ma anche il governatore della Basilicata Vito de Filippo. Ha detto de Filippo: «Esprimo completa solidarietà a Nello Rega, ma al tempo stesso ritengo giusto sollecitare l' intervento e l' impegno di chi ha il dovere di garantire la sicurezza dei cittadini». Nel pomeriggio il comitato provinciale per l' ordine e la sicurezza di Potenza ha deciso di aumentare le misure di protezione nei confronti del giornalista. Sembra gli sia stata affidata una scorta con un agente e un' auto. «I fatti gravi nei confronti di Rega sono due», aveva detto Carlo Verna, il segretario dell' Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai. E spiegato: «Prima di tutto l' attentato in sé, ma è altrettanto grave l' inerzia di chi, da tempo, dovrebbe tutelare il collega».
mercoledì 5 gennaio 2011
"DIO, AIUTAMI A REALIZZARE I MIEI SOGNI". L'ULTIMO MESSAGGIO DI MARIOUMA SU FACEBOOK
MILANO - Un saluto al 2010, «l'anno migliore della mia vita», e un pensiero carico di entusiasmo per i «tanti desideri» da realizzare nel 2011. Maryam Fekry i suoi desideri, le sue speranze le aveva scritte fu Facebook pochi minuti prima di andare in chiesa per la messa di mezzanotte. Maryam, Mariouma per gli amici di Facebook, 22 anni, a messa è andata nella chiesa copta dei Santi Marco e Pietro, ad Alessandria d'Egitto. A casa, a continuare i suoi post, non è più tornata. Mariouma è una delle 21 vittime della strage di Capodanno.
SIMBOLO - «Il 2010 è ormai passato - questo il messaggio scritto da Maryam - Quest'anno porta con sé i migliori ricordi della mia vita. Spero che il 2011 sia ancora meglio. Ho così tanti desideri per il 2011. Per favore, Dio, stammi vicino e aiutami a realizzarli». Nella pagina di Facebook una giovane donna, abbigliata elegantemente con un vestito di seta salmone e una rosa tra i capelli. Ora sotto ci sono decine e decine di saluti pieni di commozione. «Non ti dimenticheremo mai, sei un angelo», scrive una donna. «La gente muore a causa dell'odio. Non riesco ancora a crederci. Sarai sempre nel nostro cuore», afferma un'altra ragazza. La sua testimonianza è divenuta simbolo del martirio dei copti in Egitto. Molti siti e forum copti riproducono le sue parole, mentre su Youtube circola un video con le sue foto. (http://www.corriere.it/ , 3/1/'11)