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Poche hanno partecipato agli scontri a fuoco. Ma tantissime in Tunisia, Algeria, Egitto hanno sfilato per le strade.
MILANO - Una donna simbolo del potere da abbattere, della corruzione, dell’avidità: nella rivoluzione dei gelsomini in Tunisia, più ancora del deposto presidente Ben Ali era la moglie Leila il bersaglio principale della rabbia. L’ex parrucchiera diventata first lady, pronta a deporre il marito per prenderne il posto (si diceva prima), scappata con una tonnellata e mezzo di oro (si è detto poi), era odiata da tutti ma soprattutto dalle donne. Dalle migliaia di tunisine che hanno, anche loro, compiuto il miracolo abbattendo un regime in apparenza eterno.
Poche hanno partecipato agli scontri a fuoco, è vero. Ma molte sono scese nelle strade una volta passate le violenze, tantissime lavoravano da anni per la democrazia. Come Radhia Nasraoui, avvocato, femminista, presidente dell’Associazione per la lotta alla tortura. Un passato tra clandestinità, prigione e scioperi della fame, la Shirin Ebadi tunisina è stata la prima il 17 dicembre a guidare la sollevazione popolare a Sidi Bouzid, dove un disoccupato si era dato fuoco per protesta, dando inizio alla rivoluzione. Come lei avvocato e femminista, Maya Jribi dal 2007 è presidente del Partito progressista democratico, forse la più nota tra le molte tunisine entrate in politica. Nel Parlamento ben il 23 per cento dei deputati sono donne (in Italia siamo al 21). Oggi, nel governo provvisorio, il ministero della Cultura è affidato alla regista Moufida Tlatly. E a partire dal 1956, nonostante la dittatura, la Tunisia ha proibito poligamia e matrimonio per le minori, permesso divorzio e aborto, resa obbligatoria l’istruzione delle bambine. Bene o male che sia - c’è dibattito anche tra i laici - il velo è stato di fatto vietato e non pochi oggi chiedono che torni la libertà di portarlo: già nelle manifestazioni di gennaio si sono viste ragazze indossarlo.
Gli innegabili “privilegi” di cui godono le tunisine rispetto a molte sorelle del mondo arabo-islamico non sono finora bastati. Non a Lina Ben Mhenni, ad esempio: icona della giovane generazione, nel suo blog in tre lingue “A Tunisian Girl” ha denunciato a lungo le discriminazioni subite. «Nel suo Paese la ragazza tunisina non può esprimersi, il suo blog è censurato » è il sottotitolo della sua pagina internet, immutato nonostante la fine della censura. Qualcosa di diverso ora c’è, però: informazioni su manifestazioni, istantanee di raduni, foto di librerie che espongono opere una volta vietate. Segni della Nuova Era, o almeno del suo inizio.
Se in Tunisia la protesta si è trasformata in rivoluzione, nella vicina Algeria dopo le rivolte di gennaio per l’aumento dei prezzi la situazione sembrava tornata “normale”. Ma anche qui la tensione è alta, la disoccupazione pure, l’opposizione e i giovani chiedono più libertà e attenzione. E le donne giocano un ruolo in tutto questo, importante ma dietro le quinte. Qualcuna è in politica, come la celebre scrittrice e attivista Khalida Messaoudi, attuale ministra della Cultura. Soprattutto, il 70 per cento degli avvocati e il 60 per cento dei giudici sono donne e nelle università le ragazze superano i maschi. Tante sono insegnanti, giornaliste, attiviste, guidano autobus e taxi, lavorano alle pompe di benzina. «Ma è solo l’effetto perverso della crisi, gli uomini da noi emigrano in massa» sostiene Dahhu Gebril, direttrice della rivista Naqd (Critica). E intanto le donne restano discriminate da una società maschilista e violenta, aggiunge la giornalista Souad Belhaddad: «Se una viene aggredita, è una prostituta . Se sporge denuncia, è manipolata. Se ha la solidarietà internazionale, è sospetta». E se chiede aiuto, spesso è ignorata: tra gli algerini che per protesta si sono dati fuoco, c’è stata una cinquantenne di Sidi Bel Abbas, davanti al palazzo del Comune dove aveva chiesto invano un contributo economico. Non se n’è quasi parlato. Il cammino sarà lungo, dicono le attiviste algerine: intanto Nouara Saâdia Djaâfar, ministra per la Famiglia, ha lanciato un piano di formazione per raggiungere - inshallah - 220 mila donne in tutto il Paese.
Spostandoci a est nell’altro grande, anzi ancor più grande Stato del Nord Africa in ebollizione, sono sempre tantissime le donne che si muovono, lottano, alzano la voce. L’Egitto che all’inizio del XX secolo vide il fiorire del movimento femminista arabo (un nome su tutti: Hoda Al Shaarawi), è oggi all’avanguardia nella lotta contro le mutilazioni genitali alle bambine (anche perchè viene praticata circa nel 97% dei casi !, ndr) . Merito della pur contestatissima first lady Suzanne Mubarak, della ministra per la Famiglia Moushira Khattab, di tante attiviste. E del sostegno internazionale e italiano in particolare, Emma Bonino in primis. «Ma le donne restano discriminate per mille cose, dal diritto di famiglia che le penalizza, all’isolamento di tante che non possono sposarsi. Per questo dobbiamo cambiare il sistema e il regime che lo difende» dice Farida Naqqash, storica femminista e dirigente del partito laico d’opposizione Tagammu. Nella turbolenta fase che attraversa il Paese, la guida dei partiti e delle organizzazioni è come sempre maschile. Ma le elezioni politiche di novembre hanno visto scendere in campo uno stuolo di donne preparate e molto, molto determinate. A parte quelle “governative”, che si sono aggiudicate tutti i seggi delle quote rosa introdotte per la prima volta, la voce più forte tra i candidati della minoranza cristiana è stata femminile: Mona Makram-Ebeid. «Mi hanno rubato il seggio già assegnato, i soliti brogli» dice arrabbiata ma non sorpresa. «Se è successo perché sono donna, cristiana, o anti-Mubarak non saprei. Certo è che continuo a lottare». Nemmeno Gamila Ismail ce l’ha fatta, e nemmeno lei demorde. Ex giornalista ed ex moglie di Ayman Nour, l’unico che osò sfidare il raìs alle presidenziali 2006, Gamila spera soprattutto nei giovani. «Sono il futuro, il nostro sogno. Ci sono migliaia di ragazzi pronti a costruire un Egitto migliore. E ancor più le ragazze: per loro è più difficile ma non impossibile. Io sono divorziata, single, femminista. Eppure tantissimi mi hanno dato fiducia. Basta non arrendersi».(Fonte: http://www.corriere.it/ , 3/2)
E poi: Salma e Fadia, la rivoluzione in due generazioni.
mercoledì 9 febbraio 2011
IL CUORE DELLA RIVOLTA
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5 commenti:
Questo periodo mi ricorda un pò l'Afghanistan subito dopo la caduta del regime talebano, dove i nostri media annunciavano che era giunto il momento di abbandonare il burqa e prospettavano migliori condizioni per le donne per poi, dopo pochi mesi, capire che nulla era cambiato per le donne afghane.
Così io vedo sia la Tunisia che l'Egitto, paesi fortemente tradizionali, ed il ritorno di Ghannouchi ed i colloqui con i Fratelli Musulmani possono essere un'indicazione.
La Tunisia e l'Egitto NON sono paesi fortemente tradizionali! In Tunisia e in Egitto quarant'anni fa le donne giravano a viso e capo scoperto, giravano in minigonna, andavano dove volevano!
Lo sono diventati, comunque.
Appunto. Da società almeno parzialmente libera è stata trasformata in una terra di schiavi. Come l'Afghanistan dove quarant'anni fa i turisti giravano liberamente, anche donne sole (diverse mie amiche lo hanno fatto) e ci vedevi ragazze locali girare in minigonna. Altro che tradizioni ancestrali!
L'errore, in verità, è quello di associare Tunisia ed Egitto. Storicamente, costituzionalmente, intellettualmente, islamicamente ed intellettualmente diversissimi.
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