mercoledì 21 settembre 2011

LA MADRE DI 4 TERRORISTI SCELTA PER PRESENTARE ALL'ONU LA DOMANDA UFFICIALE DI RICONOSCIMENTO DELLO STATO PALESTINESE


L'autorità palestinese ha scelto la madre di quattro (veramente otto, ndr) terroristi, di cui uno ha ucciso sette civili israeliani ed ha tentato di ucciderne altri dodici, come simbolo della sua campagna per il riconoscimento di uno Stato palestinese all'ONU.

In occasione di un evento in gran parte mediatizzato, l'autorità palestinese a chiesto alla signora Latifa Abu Hmeid di condurre il corteo verso gli uffici dell'ONU a Ramallah e rimettere personalmente, una lettera per il segretario generale Ban Ki Moon.

La Gazzetta ufficiale dell'autorità palestinese PA daily riporta che è stata scelta per lanciare la campagna per l'ONU, sottolineando che è„ la madre di 7 prigionieri e di uno "shahid" (martire), Abd Al-Mun'im Abu Hmeid.

Tuttavia il giornale non cita che 4 dei suoi figli in prigione sono condannati per omicidi.

Nasser Abu Hmeid - comandante del ramo armato del Fatah, “brigate dei martiri Al-Aqsa Martyrs„ a Ramallah, condannato 7 volte alla prigione a vita per l'omicidio di 7 civili israeliani e 12 tentativi di omicidi.

Nasr Abu Hmeid - membro "del Tanzim", fazione terroristica del Fatah. condannato 5 volte alla prigione a vita per partecipazione a due attentati e per traffico di armi.

Sharif Abu Hmeid - membro di un'unità terroristica comandata da uno dei suoi fratelli, responsabile di attacchi contro civili e soldati. Ha accompagnato un terrorista-suicida fino al luogo dall'attentato nel marzo 2002. condannato 4 volte alla prigione a vita.

Muhammad Abu Hmeid - implicato in molti attentati - condannato 2 volte alla prigione a vita + 30 anni.

Il quinto figlio, Abd El-Mounim Muhammad Yusuf Abu Naji Hmeid, quello designato come "martire", era membro dell'ala militare del Hamas, le brigate Izz A-Din Al-Qassam, ha progettato ed effettuato l'assassinio di un ufficiale delle informazioni israeliane.

Palestinian Media Watch (Fonte: "Scettico", 19/9)

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LETTERA DI UNA PRIGIONIERA POLITICA IRANIANA AL RELATORE SPECIALE DELLE NU, AHMED SHAHEED


5 Settembre 2011

Per la prima volta scrivo questa lettera al Sig. Ahmed Shaheed, Relatore Speciale delle Nazioni Unite, in quanto una giovane studentessa imprigionata.

Sig. Ahmed Shaheed

Si parla del suo viaggio nel mio Paese. Un Paese in Oriente, precisamente nel Medio-Oriente. Una regione che, negli ultimi anni, ha cominciato ad attirare l’attenzione di molti e dalla quale ci si aspetta un nuovo evento in qualsiasi momento. Non ho niente a che fare nè con il Medio-Oriente né con coloro che stanno a guardarlo con attenzione. Mi preoccupo di una nazione nel sud-ovest dell’Asia che nella mappa mondiale ha la forma di un gatto. Un Paese per il quale, stando alle ultime risoluzioni delle Nazioni Unite, le è stato richiesto di fornire un rapporto sulle condizioni dei diritti umani. Sì, le sto parlando dall’Iran e dal suo cuore pulsante, la prigione di Evin. In questi giorni i circoli politici, i media, le informazioni … e diverse posizioni ufficiali di vari governi parlano tutti del suo viaggio in qualità di Speciale Rappresentante dei Diritti Umani e della sua decisione di scrivere il tale rapporto.

Non sono sicura, per un Paese dove il Presidente,Ahmadinejad, ha più volte dichiarato, nell’ambito di conferenze sugli affari interni ed esteri, “C’è libertà assoluta in Iran” e “l’Iran è il più democratico Paese della regione”, cosa ci potrebbe essere, allora, dietro alla scena per obiettare la venuta di un rappresentante dei diritti umani? In un Paese libero(!) dove ogni critica e protesta affronta l’intimidazione e la minaccia, in un Paese libero dove ogni difesa delle opinioni e religioni diverse da quelle dei governanti corrisponde alla detenzione, l’incarcerazione e l’incatenamento, in un Paese libero dove ogni difesa da parte degli avvocati nei riguardi dei loro clienti innocenti - persino nei processi farsa - corrisponde alla prigione, a sentenze aspre e al loro allontanamento dal pubblico esercizio. In un Paese libero dove l’intimidazione ed il clima di terrore e la dimostrazione di potere è resa evidente dalle pubbliche nelle piazze, non c’è niente che si possa nascondere.

Sig. Ahmed Shaheed

Che comprendere o meno questa situazione sia semplice o no per lei, questi sono i fatti delle nostre vite. Siamo imprigionati per le nostre opinioni in un Paese dove le autorità esprimono il loro dispiacere per gli abusi dei diritti della gente di altri Paesi, persino quelli più lontani, ogni minuto ed ogni giorno, e dichiarano la solidarietà a quella gente, criticando i governanti dispotici delle altre nazioni e ammonendo i dittatori ad ascoltare la loro gente, perché il popolo cambierà il corso della storia.

Discutono del trattamento degli studenti e parlano della libertà parola e d’opinione. In queste circostanze mi chiedo “Chi sono io?” Io che sono stata imprigionata per le mie opinioni, i miei pensieri, le mie compagne di cella, donne innocenti con un modo diverso di vedere la realtà, ci collochiamo in quale parte di questo puzzle? “Perché, allora, voi non riuscite a sentire la nostra voce?”

Dopo vari tentativi per far si che i funzionari sentano la tua voce, puoi concludere il discorso dicendo “La morte è buona, ma per i nemici”. Quindi quando la tua voce non è ascoltata, piangi e parli dei diritti perduti, piangi affinché qualcuno possa sentirla, persino qualcuno al di là dei confini. Piangi per far sì che quelle coscienze sensibili ti risveglino dai tuoi dolori e dai tuoi lamenti e che la mia lettera a Lei possa essere come quel pianto da una montagna di dolore e sofferenza. Le parlo quale ragazza iraniana di 24 anni, una studentessa di Scienze Informatiche dell’Università di formazione per insegnanti a Teheran, che è stata in carcere assieme a suo fratello per aver cercato giustizia , libertà e dignità umana dal 19 febbraio del 2009. Una ragazza che, nei due anni e mezzo di prigionia, ha sperimentato il servizio segreto d’informazioni del carcere, sezione 209 e sezione pubblica della prigione di Evin, la prigione di Rajai Shahr e la prigione Gharechak di Varamin. Le sto parlando quale studentessa iraniana.
Mentre le persone della mia età, negli altri Paesi, vengono supportate dai loro governi a seguire la via del successo in tutti i campi di dominio sociale e scientifico, io sto lottando, dietro le sbarre, per avere il minimo dei diritti umani. Per il diritto di pensare, il diritto di esprimere i miei pensieri e persino il diritto di respirare. In un Paese dall’ampio cielo e dal vasto territorio dove, grazie all’avanguardia della tecnologia e delle camere a circuito chiuso, la mia porzione di diritti si riduce all’angolo di una gabbia dove anche il mio respiro viene contato, ed il mio unico mezzo di comunicazione, con il mondo esterno, in questa era della comunicazione, sono i soli 20 minuti che trascorro in una parlatorio con la mia famiglia dietro ad un vetro sporco e con l’ausilio di un telefono. Il mio unico spazio è un angolo angusto di una gabbia senza aria fresca. Quando gli atti di valore per la scienza e la tecnologia sono bersaglio dei governanti, ti chiedi cosa significhi allora la prigionia degli studenti? Eccetto centinaia di persone che vengono private del loro diritto a continuare gli studi solo per ciò in cui credono. L’aspetto più doloroso di questi comportamenti è che non si limita agli studenti ma si allarga fino a toccare i medici, gli ingegneri, gli avvocati, gli insegnanti, le casalinghe, i giovani ed gli anziani, gli uomini e le donne!

Sig. Ahmed Shaheed!

Quando sfoglio il libro della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, non ho altro che rimpianti dal momento che non posso trovarne alcun esempio nel mio Paese. Al fine di provare la nostra umanità con qualsiasi opinione e religione, dobbiamo sottometterci a questa dura lotta e pagare il prezzo solo per l’umanità. Sono in grado di dare esempi di violazione per ciascuna delle sezioni della congiunta Dichiarazione dei Diritti Umani. Io e mio fratello ( Farzad) siamo stati interrogati in celle solitarie della sezione 209 della prigione di Evin, non solo per le nostre personali opinioni ma, anche, per quelle di alcuni membri della nostra famiglia. Ho visto alcune delle donne della baha’i in questa stessa sezione 209 che sono state detenute solo per il loro modo di pensare. Ho visto i giornalisti che sono stati imprigionati per aver dato notizie in merito alla situazione esistente. Ho assistito al processo ingiusto di mio fratello ed al mio, condannarci a cinque anni di prigione in Iran nei posti più esemplari d’esilio.

Sì Sig. Shaheed, abbiamo una così lunga ed amara storia che posso solo menzionarne alcuni punti. Ho vissuto in prigione da quando avevo solo 21 anni assieme a drogati, assassini, spacciatori e prostitute, tutte vittime del sistema ingiusto ed infernale di questa terra.

Ho sperimentato la peggior specie di situazioni possibili. Situazione di vita orribile a Rajai Shahr, avendo solo due bagni, un lavandino e due docce per 200 persone rappresenta il più tangibile e al limite degli esempi di questa situazione. Ho visto tante cicatrici e pene su queste persone sofferenti. Mi sono seduta con loro, sofferto con loro, e pianto per la loro solitudine e mancanza d’aiuto. Vorrei le vedesse anche lei, vedesse come non solo i loro diritti basilari di detenuti al centro di detenzione di Share Ray (Prigione di Garechak) vengono ignorati ma, anche e soprattutto i loro basilari diritti umani. Che lei vedesse le donne indifese detenute in un luogo che non ha alcuna relazione con gli standards di una prigione. Ora dopo essere stata esiliata nella prigione di Rajai Shahr sono stata trasferita nuovamente ad Evin. Assieme ad altre 32 donne innocenti sto trascorrendo giorni bui di detenzione in un posto che secondo gli stessi ufficiali della prigione non può nemmeno essere riconosciuto come una “sezione” con i minimi mezzi di comunicazione e situazione di sicurezza.

Sig. Shaheed!

Non so come sarò trattata dopo aver scritto questa lettera, perché nella prigione di Rajai Shahr mi è stato impedito d’incontrare e telefonare alla mia famiglia per ben quattro mesi, dal 14 ottobre 2010, poiché li avevo informati delle mie condizioni critiche. Ora sono quasi due mesi che mio fratello Farzad Madadzadeh con altri tre amici, Saleh Kohandel, Behrouz Javid Tehrani e Pirouz Mansouri sono stati trasferiti dalla prigione di Rajai Shahr alla sezione di massima sicurezza della prigione di Evin. Da quel momento non abbiamo più avuto loro notizie. Ma abbiamo imparato questa valida lezione a costo degli anni della nostra giovinezza. Ora che ha avuto il compito di testimoniare tutte queste sofferenze personali, forse sprecando un po’ del suo prezioso tempo, potrà informare il mondo di loro utilizzando la sua coscienza e consapevolezza e forse prevenire di continuare queste crudeltà.

Sign. Shaheed ci sono molte cose da dire e queste sono solo una piccola parte del mare di sofferenza e di dolore. Dal momento che questo piccolo raggio di speranza esiste nella sofferenza del popolo iraniano e in tutti i cuori dei prigionieri, il suo rapporto potrebbe rappresentare gli sforzi di realizzazione del sogno di tutti coloro che hanno messo assieme la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e portare ad una situazione di miglioramento. Ovviamente esiste anche la paura che questa possibilità venga assorbita dai giochi politici come migliaia di altre questioni. Ora tutti gli occhi sono su di lei. Non permetta che questo accada.

Shabnam Madadazadeh

Prigione di Evin

Settembre 2011


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martedì 20 settembre 2011

EGITTO, IN CAMPO PER LE PRESIDENZIALI CI SARA' ANCHE L'EX ANCHORWOMAN

Bothaina Kamel vuole abbattere i pregiudizi che sembrerebbero ostacolare una sua elezione. Nel frattempo, dopo essersi dimessa platealmente dalla tv di Stato durante la rivolta di piazza Tahir, gira il Paese in lungo e largo. «Voglio conoscere e farmi portavoce dei problemi della gente: l'Egitto è la mia agenda».

Se, dopo la primavera, sbocciarà una vera rivoluzione, lo si capirà solo dall'urna. Quando, assieme a tutti gli anni di regime e di oppressione, l'Egitto avrà dimostrato di dare un calcio e saper superare anche molti dei suoi pregiudizi. Già, perché c'è anche una donna tra i candidati a guidare il dopo-Mubarak. È Bothaina Kamel, 49 anni, l'ex giornalista tv divenuta famosa quando si dimise nel pieno delle proteste democratiche in dissenso dal regime. Ora ha deciso di partecipare alle presidenziali che dovrebbero tenersi all'inizio del 2012. Per questo sta già percorrendo il lungo e in largo il Paese per fare campagna elettorale: vuole raccogliere le richieste della gente e farsene portavoce.
L'obiettivo di Bothaina è sfidare i «big» in corsa, dall'ex direttore dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, Mohamed elBaradei, all'ex segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa. «Prometto che, per quando si voterà, sarò la più informata di tutti sul popolo egiziano: conosco i bisogni dei beduini, del popolo dell'Egitto Superiore, del cristiani copti, dei lavoratori e delle altre diverse minoranze», ha dichiarato alla Cnn.
Ma lo scoglio più arduo da superare sarà la disponibilità degli egiziani ad accettarla come candidata: «All'inizio la gente era scioccata, poi non mi hanno dato peso, adesso mi prendono più seriamente. Mi avevano detto che non avrebbero mai accettato una donna presidente, ma ora accettano me: lo stereotipo è che gli egiziani non voteranno mai una donna, ma la gente vota qualcuno che li può aiutare. Se sono pronta ad aiutarli, mi voteranno. Sono persone molto pratiche». Qualche esempio, nel mondo dove i pregiudizi sono più forti esiste: da Indira Gandhi a Benahzir Butto.
La carriera della Kamel è iniziata in radio e televisione subito dopo la laurea all'università del Cairo, dove era una studente molto attiva in politica: prima, per sei anni, la conduzione di uno show radiofonico a tarda notte intitolato «Confessioni Notturne», poi bruscamente sospeso; quindi, per 10 anni, uno show televisivo chiamato «Argook Efhamni» («Per favore, capitemi») sulla tv di proprietà saudita Orbit , finché anche quello fu sospeso. Ma nel 2005, Kamel insieme a due amiche fondò un movimento chiamato «Shayfeen», («Vi stiamo guardando») per vigilare sulle prime elezioni multi-partitiche nel Paese e da quell'esperienza nacque un documentario.
Adesso Kamel sta facendo lo stesso: nei suoi tour in giro per il Paese, la accompagna ovunque un cameramen. Lo slogan della campagna -«L'Egitto è la mia agenda»- nasce dalla sua esperienza durante i 18 giorni della rivoluzione, tra gennaio e febbraio. «Eravamo in piazza Tahrir e la stampa diceva che eravamo frutto dell'agenda di un Paese straniero; e allora io deciso: "l'Egitto è la mia agenda"». (Fonte: "Il Giornale", 14/9) Leggi tutto ...

domenica 18 settembre 2011

VELO INTEGRALE E SHARIA. LA NUOVA LIBIA SOGNATA DAI GRUPPI INTEGRALISTI

TRIPOLI — La clinica universitaria è vuota di studenti e piena di fervore. L'aula magna viene divisa in settori: da una parte gli uomini, dall'altra le donne, nascoste dal velo integrale, guanti e garza nera sugli occhi. Annuisconoo almeno sembraquando il relatore proclama al microfono che la sharia ha garantito l'equilibrio tra i sessi. I volontari distribuiscono i volantini preparati dal neo-movimento della gioventù islamica. Stampati verde su giallo, illustrano il decalogo per costruire la nuova Libia, quella che vorrebbero i duecento militanti seduti sulle gradinate.
L'organizzazione è nata a Bengasi, come la rivoluzione che ha deposto Muammar Gheddafi dopo quarantadue anni. «Non siamo un partito e non vogliamo diventarlo», ripetono i fondatori. Che discutono di democrazia e modelli di Stato — la Turchia guidata da Recep Tayyp Erdogan è considerata troppo laica — e apprezzano quell'articolo determinativo inserito nella Costituzione provvisoria: le norme islamiche sono «la» fonte principale della legislazione, invece dell'indistinto «una delle» che avrebbero preferito alcuni ministri del nuovo governo.
La scelta è approvata anche da Salwa el-Deghali, l'unica donna rimasta nel Consiglio nazionale di transizione: «La Libia è un Paese musulmano e le istituzioni della nazione verranno consolidate attorno all'islam moderato» (voglio vedere...) . Sei giorni fa, nel primo discorso dall'arrivo a Tripoli, il presidente Mustafa Abdul Jalil ha ripetuto che non accetterà nessuna «forma di ideologia estremista, né da destra né da sinistra».
I ribelli che hanno assaltato le ville dei figli di Gheddafi hanno requisito bottiglie di vodka e di whisky, quel Johnny Walker etichetta nera simbolo di status in tutto il Medio Oriente. Quello che era ammissibile per Saadi, Hannibal e gli altri fratelli non lo è nei negozi o nei ristoranti di Tripoli e Bengasi. La famiglia di regime — malgrado l'imponente moschea ancora in costruzione voluta da Safiya, la seconda moglie del Colonnelloconduceva una vita ben lontana dalle famiglie libiche, che restano molto tradizionaliste e conservatrici. I predicatori come Ali Sallabi non sentono il bisogno di discutere della sharia, perché sanno che è già accolta dalla società. «Questa è la rivoluzione del popolo — dice al quotidiano New York Times — e il popolo è musulmano. I laici possono partecipare alle elezioni, vedremo chi vince. Se una donna diventasse presidente, siamo pronti ad accettarlo» (sì, voglio vedere anche questo...) .
Sembra convinto della forza del partito che ha deciso di fondare. Non ha ancora un nome, ma già contende il potere a Mahmoud Jibril: il primo ministro — urla lo sceicco nei comizi e via satellite su Al Jazira — non può restare altri otto mesi. «Sta piazzando gli amici e i parenti nei posti chiave. Non vogliamo ritornare alla dittatura». Nel 2005 è stato Sallabi a negoziare con il regime un programma di riabilitazione per i miliziani fondamentalisti del Gruppo combattente islamico libico. Saif, il primogenito del Colonnello, si era accorto della sua influenza e aveva deciso di trattare con lui.
Il consiglio di transizione, sparpagliato in queste settimane tra la capitale e l'est del Paese, si riunisce oggi a Bengasi proprio per discutere delle pressioni che arrivano dalle formazioni islamiste. Jalil deve convivere con il potere armato di Abdel Hakim Belhaj, il veterano jihadista nominato governatore militare di Tripoli per acclamazione dei suoi miliziani. E con il potere ombra di Etilaf, uno dei gruppi religiosi dominanti in città. Agisce come una guida rivoluzionaria del popolo, semi-clandestina. All'inizio del mese ha appeso i suoi manifesti-proclami ai cancelli degli ospedali: «Entro sette giorni tutti gli uffici pubblici devono essere diretti da una persona decorosa». (Fonte Corsera) Leggi tutto ...

sabato 17 settembre 2011

... MA PER LE DONNE IL NILO E' ANCORA UNA CONDANNA

"Siamo in prima linea eppure ci negano ruoli pubblici" spiega Mansoura Ez Eldin

Una saga familiare nell’Egitto rurale, dove l’esistenza è scandita dalla superstizione e dagli spiriti del Nilo. Due donne lasciano il villaggio per trovare se stesse: Gamila, che ha il coraggio di sperimentare il sesso e l’amore, e da ragazzina ombrosa diventa altera e vincente; e Salma, costretta a far ritorno nelle campagne immobili per chiudere vecchi conti emotivi, arginando con la scrittura la follia che la insegue.
Dice di ispirarsi a Kafka, Borges e Virginia Woolf, la scrittrice egiziana Mansoura Ez Eldin, e infatti nel suo ultimo romanzo Oltre il paradiso (in libreria il 1° settembre per Piemme, trad. di Valentina Colombo) il realismo della vita sul delta del Nilo si colora di sogno e viaggi della mente. “Uno stile che i lettori arabi non si aspettano da una donna araba” sorride lei, che a 35 anni è già considerata fra gli intellettuali più interessanti del Paese.
Giornalista del settimanale culturale Akhbar Al-Adab, sposata con lo scrittore Yasser Abdel Hafez, Mansoura è stata l’unica donna finalista al prestigioso premio letterario Booker Arabo 2010, e anche editorialista per il New York Times dopo la rivoluzione del 25 gennaio.

Cosa ci racconta della società egiziana e delle radici della rivoluzione, il suo nuovo libro?

Rileggendolo dopo gli eventi di piazza Tahrir, ho compreso perché la rivoluzione fosse così necessaria. La nostra società era morta, costellata di vite sprecate. Anch’io sono nata sul delta del Nilo, vivo al Cairo solo da 15 anni, e il romanzo è stato una scontro con la mia memoria. Ero ossessionata dal potere della mitologia nelle campagne, dove la barriera tra immaginazione e realtà è fragilissima, come se si vivesse dentro le Mille e una notte. Ricordo una zia che non iniziava la giornata se prima non aveva interpretato i propri sogni. Volevo rileggere questo vecchio mondo attraverso gli occhi moderni di Salma e Gamila.


La battaglia delle protagoniste per l’emancipazione riflette la sua?

Ho lottato per ogni traguardo raggiunto, sostenuta da mia madre, e anche per liberarmi del velo islamico. Vengo da una famiglia religiosa e conservatrice, sono stata la prima ragazza a lasciare il villaggio per vivere da sola al Cairo. Non mi è mai piaciuto indossare il velo, ma faceva parte dell’uniforme scolastica. Verso i 21 anni, al Cairo, ho pensato che non avesse più senso portarlo visto che non sono religiosa. E alcuni amici mi hanno voltato le spalle: chi è nato in città, non avendo dovuto battersi per i propri diritti, a volte è più tradizionalista della gente di campagna.

La stampa occidentale spesso cristallizza la donna araba in due stereotipi opposti: velata e oppressa, oppure odalisca come una Sheherazade. La infastidisce?

Certo, ma detesto anche gli stereotipi attraverso cui il mondo arabo guarda alle donne occidentali. Forse dovremmo tutti leggere più autori stranieri, perché i grandi scrittori svelano il cuore di una società.

Un mese fa le femministe egiziane hanno manifestato per la parità di diritti, che sembra lontana. Perché la rivoluzione non ha cambiato la condizione femminile?

Le donne sono state in prima linea, in piazza Tahrir, ma ora molte voci negano il loro ruolo. Nel governo c’è una sola donna, Fayza Aboul-Naga, ministro della cooperazione internazionale. E il partito islamico dei Salafiti ha dichiarato che dobbiamo tornare a occuparci della casa e dei figli, invece di lavorare e aspirare a ruoli pubblici. Molti uomini, in Egitto, pensano che difendere i diritti delle donne significhi ridurre i propri.

L’Egitto affronta due eventi cruciali: il processo a Mubarak e le elezioni previste in novembre. Intanto manifestate contro il regime militare che ritarda le riforme. Cosa si aspetta che accadrà?

La rivoluzione non è finita: dobbiamo riprenderla da capo, e ci vorrà un altro anno per vedere veri risultati. Mubarak non era il problema principale: l’esercito doveva liberarsi di lui e dei suoi figli per restare padrone del Paese. Oggi il regime militare accusa il movimento “6 aprile” di essere al soldo degli stranieri, ha tutti i media dalla propria parte: dobbiamo liberarci di loro, abbiamo già versato troppo sangue per il nostro sogno di democrazia. Ma spero che i partiti democratici si preparino bene alle elezioni, perché i Salafiti e i Fratelli Musulmani sono già pronti: non vorrei mai liberarmi dei militari per essere sorpresa da un regime salafita.

Sul New York Times lei ha scritto: “La rivoluzione non è un appuntamento galante”. Che significa?

Dopo la “rivoluzione del gelsomino” in Tunisia, sostenevo che anche l’Egitto avrebbe conosciuto una rivolta, ma senza profumo di fiori. La rivoluzione non è una festa: conoscevo tanti che sono morti sulle strade, anche un mio caro amico. E’ nostro dovere continuare la rivoluzione e restare ottimisti. A gennaio non avevamo che i nostri sogni, oggi siamo più forti: dobbiamo ricominciare da questo. (Fonte: "IO DONNA", 20/8) Leggi tutto ...

giovedì 15 settembre 2011

RICORDIAMO SANAA A 2 ANNI DALL'ASSASSINIO


Mentre il 11/8 sono stati 5 anni dall'assassinio di Hina. Leggi tutto ...

domenica 11 settembre 2011

SIT- IN A MILANO PER RIAVERE MARTINA, RAPITA A MAMMA MARZIA DAL PADRE TUNISINO

Dal sit-in al Consolato Tunisino di sabato 10/9/2011



Al centro, con in mano la foto della piccola Martina, la sua mamma, Marzia Tolomeo, 31 anni


PER LA TUNISIA E LA FARNESINA SIAMO DIVENTATI GIA' DHIMMI?

Oggi (ieri, ndr), come avevamo programmato, abbiamo realizzato il sit-in in favore del ritorno di Martina, bimba italiana di poco più di 2 anni, rapita dal padre Hassen Abdeljelil, tunisino, ex compagno di Marzia Tolomeo,( madre della piccola) e fatta emigrare con un inganno che gli ha permesso di rapire la figlia portandola in Tunisia, nonostante la sentenza del tribunale, che in attesa di giudizio definitivo, era affidata presso il domicilio della madre e il permesso di visita al padre per 2 sere la settimana.
Tanto è bastato al tunisino, che con un bliz ferino, l'ha rapita lasciando nella disperazione la madre e i nonni.
Hassen Abdeljelil, che da 7 anni viveva in Italia come immigrato irregolare, (senza permesso di soggiorno) ha dimostrato di disprezzare il Paese che gli aveva aperto le porte e ha portato a termine un'azione che trova la sua ispirazione nella shari'a, la legge islamica fondamentalista, che non tiene in nessun conto i diritti umani, in quanto nessun Paese islamico ha sottoscritto la dichiarazione universale dei diritti umani.
E' gravissimo è il fatto che una cittadina italiana, per giunta minore, abbia dovuto subire la violazione dei suoi diritti, che sono primari, poiché la bimba è stata rapita in territorio italiano e fatta emigrare attraverso documenti, che per quanto riguarda le leggi italiane sono stati realizzati in spregio alla sovranità nazionale italiana e all'ordine preciso di un Tribunale italiano, che vietava ad entrambi i genitori di portare la bimba oltre frontiera, fino alla sentenza definitiva, che era programmata fra pochi giorni (il 20 settembre)

Aiutate da una funzionaria della questura di Milano, che ha saputo sfoderare, riuscendoci, tutte le sue qualità diplomatiche, con la madre Marzia Tolomeo, siamo state ricevute dal Console tunisino, con il quale avevo già avuto qualche "piccolo scontro verbale" nei giorni precedenti in quanto secondo la sua opinione, noi, cittadini italiani, non avremmo avuto il diritto di fare un sit-in senza la sua autorizzazione, mostrandosi anche stupito del fatto che la Questura di Milano ci avesse dato il permesso senza rivolgersi alle autorità consolari tunisine e questo rendeva impossibile il dialogo fra noi, rifiutandosi di riceverci e di farsi portatore presso il Governo tunisino della petizione che avevamo preparato per chiedere di ristabilire i diritti violati.
Così l'incontro ha avuto luogo, nonostante il pregiudizio del Console tunisino che con "gentilezza", ha respinto la nostra petizione in quanto i toni con cui era stata scritta, sarebbero stati, secondo lui e l'assistente traduttrice che l'affiancava, troppo duri nella forma.... motivazione?
Semplice: lui si era insediato nel ruolo di Console da una sola settimana, perciò noi che stiamo subendo un'ingiustizia gravissima da alcuni mesi (Martina è stata rapita il 29 maggio, ndr), per la quale abbiamo già seguito le procedure suggeriteci, entrando in contatto prima con il Console che lo ha preceduto, e in seguito attraverso un viaggio anche con il Governo tunisino, senza arrivare a nulla di concreto, avremmo dovuto ricominciare daccapo, ricorrendo ad una estrema cautela, poiché è apparso chiarissimo che pretendere il rispetto dei propri diritti, appaia agli occhi tunisini una forma irrispettosa e poco ripagante, mentre questuarlo come favore, sottomettendoci alle regole tunisine, potrebbe anche riuscire a produrre un risultato in nostro favore e chissà, magari le autorità tunisine ci concederanno la grazia. (Fonte: Lisistrata)

http://www.lisistrata.com/cgi-bin/lisistrata3/index.cgi?action=viewnews&id=1172

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